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di Rossella Gemma

"Quello legato all'utilizzo della triptorelina è un problema di grande attualità anche dal punto di vista bioetico, perché i risvolti che possono scaturire da una terapia o una non terapia con triptorelina sono sicuramente oggetto di grande discussione. È però importante ricordare che questo farmaco deve essere assunto nelle fasi iniziali della pubertà, che di solito avviene tra gli 8 e i 10 anni. Se si ritarda troppo, l'effetto del farmaco si riduce di molto, perché c'è una avanzata trasformazione dei genitali. La variazione di sesso si può decidere anche a 20 o 30 anni, ma gli interventi necessari sono molto più complessi". Lo spiega all'agenzia Dire il vicepresidente della Società Italiana di Pediatria Preventiva e Sociale (Sipps) e componente del Consiglio del Direttivo della Società Italiana di Pediatria (Sip), Gianni Bona, endocrinologo pediatra, commentando quanto dichiarato dal Comitato nazionale per la Bioetica che ha parlato di 'incertezza sul rapporto rischi/benefici del blocco della pubertà con triptorelina e auspica che le prescrizioni avvengano solo nell'ambito delle sperimentazioni promosse dal ministero della Salute'.
 
"L'oggetto del problema è essenzialmente la disforia di genere- prosegue- ovvero quella condizione in cui un ragazzo o una ragazza non riconoscono il proprio genere come quello che vorrebbero avere. Se, ad esempio, una bambina nasce con una caratteristica sessuale femminile ma non la riconosce, e viceversa se questo accade per il maschio, entrambi si trovano in una condizione in cui non riescono a veder trasformato il proprio corpo, in periodo adolescenziale, in un corpo adulto di un genere che non è quello che vorrebbero avere".
 
"Per fare questo- prosegue l'endocrinologo- si è pensato di bloccare lo sviluppo della pubertà durante il periodo dell'adolescenza, quando sta progredendo, per consentire al bambino o alla bambina di raggiungere i 18 anni e poter prendere autonomamente una decisione sul proprio sesso. In questo caso, se il bambino o la bambina hanno avuto questa terapia, possono sospenderla e, se confermano il desiderio di cambiamento di genere, procedere col percorso chirurgico per attuarlo".
 
"Nel nostro centro di endocrinologia pediatrica la utilizziamo da oltre 30 anni- evidenzia l'esperto- nelle bambine soprattutto e nei bambini, che hanno una pubertà precoce. La pubertà è normale se comincia a partire dagli 8 anni nelle femmine e 9 anni nei maschi, mentre queste bambine e bambini, per motivi diversi, non sempre riconosciuti, hanno uno sviluppo puberale che inizia prima dei 7 e 8 anni, rispettivamente nelle femmine e nei maschi, talvolta anche a quattro, cinque anni e che poi procede. Per bloccare la pubertà si fa ricorso a questi farmaci. Nel caso della disforia di genere, invece, si intende bloccare lo sviluppo puberale fisiologico con questo farmaco e poi sospenderlo intorno ai 18 anni".
 
"Il rischio- ammonisce Gianni Bona- è che, come tutti i farmaci, anche la triptorelina può avere qualche effetto collaterale. Coloro che si dichiarano favorevoli all'uso della triptorelina sostengono che non succede nulla, che il farmaco può essere sospeso, la pubertà riparte e tutto si mette in ordine. Quelli che sono invece preoccupati dichiarano che questo farmaco può provocare alcuni danni, ad esempio, sul corretto sviluppo corporeo e sulla mineralizzazione dell'osso, aspetti metabolici che possono essere alterati da questa terapia protratta per molti anni".
 
"Chi è contrario e ritiene che ci siano rischi a seguito dell'uso di questo farmaco in soggetti con uno sviluppo normale- dice ancora Gianni Bona- sostiene che la terapia che va fatta in presenza di una disforia di genere sia quella psicologica e prevede interventi di psicoterapia fatti da esperti che possano essere in grado di orientare in maniera corretta e consapevole la scelta del bambino o della bambina, del ragazzo o della ragazza".
 
"Tutto questo- continua- porta a dire che la scelta più ragionevole sia quella di integrare le due terapie e quindi iniziare precocemente, verso i 10-11 anni, quando cominciano i primi segni dello sviluppo, ma anche prima se ci sono segni di non accettazione del proprio genere, con una terapia psicologica, eseguita da esperti della materia che potranno aiutare questi soggetti a fare una scelta consapevole. Se questa scelta fatta dopo una adeguata psicoterapia conferma la decisione di fare un blocco dello sviluppo puberale, in questi casi si può autorizzare, perché diventa una insostenibile condizione per questi ragazzi, che non accettano il loro corpo per come cambia e, a volte, sono a rischio anche di suicidio, se non si va nella direzione che loro, invece, vorrebbero".
 
Il vicepresidente della Sipps e componente del Consiglio del Direttivo della Sip sottolinea inoltre che "le famiglie devono essere profondamente coinvolte in questa che è una questione estremamente complessa: la psicoterapia deve essere fatta anche ai genitori, è una presa in carico di tutta la famiglia, perché quando i ragazzi arrivano ai 18 anni la loro scelta non è più discutibile, nessuno può opporsi".
 
Gianni Bona tiene però a ricordare che "in Italia si tratta comunque di un evento piuttosto raro. Il problema si è presentato soprattutto in Olanda, Svezia, Finlandia e Norvegia, Paesi più attenti ai problemi della sessualità e dove si registra circa il 2% di condizioni di questo tipo. Da noi, invece, non è così frequente e, in assenza di dati ufficiali, si stima la presenza di disforia di genere in uno-due casi ogni diecimila soggetti. Tuttavia questi problemi esistono e hanno un risvolto psichiatrico importante e negare quello che è un diritto di scelta del proprio genere può essere una violenza che si fa ai questi bambini".
 
"In tutti i casi- tiene a precisare- i genitori devono sempre fare riferimento ai centri specialistici di endocrinologia pediatrica che hanno esperienza consolidata del problema".
 
"Quanto abbiamo detto- conclude Gianni Bona- è perfettamente in linea con ciò che afferma il Comitato Nazionale di Bioetica, che raccomanda 'che le valutazioni cliniche siano multidisciplinari e la prescrizione della triptorelina avvenga esclusivamente a seguito della constatata inefficacia di un percorso psicoterapeiutico/psicologico ed eventualmente psichiatrico'".
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di Rossella Gemma

Fidarsi e affidarsi, questi i capisaldi alla base del rapporto medico-paziente. In fondo quando c’è fiducia c’è tutto. Quando si parla di salute, l’aspetto relazionale ed emotivo assume un ruolo addirittura preponderante, talvolta molto più delle competenze puramente tecniche o terapeutiche. A questo si aggiungono i social a farla da padrone ormai: basti pensare che, quando cercano informazioni sulla salute, secondo i dati di una recente indagine Nomisma, oltre il 40% degli italiani si rivolge a siti web specializzati e ben il 38% a Dr. Google. Non è tutto. Secondo i dati emersi, Google è utilizzato principalmente nella ricerca di risposte rapide e chiare riguardo disturbi o sintomi (52% degli italiani), di strutture, prestazioni o servizi di interesse (44%) nonché di informazioni e chiarimenti in tema di prevenzione (32%).  Ma attenzione, rischi e pericoli sono dietro l’angolo e i recenti fatti di cronaca con la morte di una ragazza - per un intervento di rinoplastica - che aveva scelto il suo medico su Tik Tok, ce lo confermano.

“La sovraesposizione della classe medica sui media e sui social già esplosa ai tempi della pandemia – evidenzia Massimiliano Cavallo, uno dei maggiori esperti italiani di Public Speaking – può avere risvolti insidiosi per chi è alla ricerca di informazioni affidabili. Oggi, infatti, Dr. Google è diventato più credibile di un camice bianco in carne e ossa e questo ha in qualche modo contribuito all'erosione del rapporto di fiducia che dovrebbe esserci tra medico e paziente, reso più fragile dalla pandemia Covid. Il medico, quindi, oggi si ritrova da un lato a dover recuperare questo gap di fiducia, combattendo contro eventuali fake news, e dall'altro ad avere una grande responsabilità nel fare corretta informazione”.

Oggi assistiamo, infatti, ad un eccesso di protagonismo, in tv e sui social quando si parla di salute, con il conseguente rischio di perdita di credibilità. “Nell’epoca del dr. Google - spiega Cavallo – la maggior parte delle persone cerca notizie su internet sulla base dei propri sintomi con le conseguenze che ciò può comportare, ma il problema non è internet in sè che dà accesso a tante notizie utili, ma l’uso che se ne faPer i pazienti – continua Cavallo - è bene documentarsi e avere più informazioni possibili, ma bisogna sempre saper selezionare le fonti e non basarsi solo sulle notizie della rete perché si potrebbe facilmente incappare in informazioni incomplete, distorte o addirittura false”. Questo, temono gli esperti, potrebbe comportare il ritardo di una diagnosi da parte del proprio medico o portare a pericolose soluzioni fai da te con il rischio di serie conseguenze. Da qui nasce da parte dei medici la necessità di recuperare un rapporto di fiducia con i pazienti.

A questo scopo Massimiliano Cavallo elenca 6 consigli utili per i medici per comunicare al meglio con i propri pazienti:

 

  1. Vietato il “medichese”. Parlare in modo semplice. Se il medico, infatti, parla il “medichese” creerà solo confusione nel paziente. Per questo il medico deve parlare un linguaggio che sia chiaro e accertarsi che il paziente abbia compreso la prescrizione.

 

  1. Ascoltare di più e dimostrare empatia. E’ vero, i tempi di un medico sono sempre ristretti, ma spesso il paziente ha solo bisogno di essere ascoltato e compreso. Per questo anche se il medico ha già intuito la diagnosi dopo le prime parole del paziente, non deve interromperlo e deve lasciarlo continuare. La fase di ascolto deve essere però sincera, non deve quindi prevedere distrazioni del medico, lo sguardo deve essere diretto al paziente e le domande mirate. Ascoltare di più il paziente e i suoi bisogni, concedergli quel minuto in più nella raccolta della diagnosi, permetterà, paradossalmente, di risparmiare tempo successivamente.

 

  1. Essere espliciti. Anche se spetta al medico prescrivere visite e terapie, bisogna evitare di dare l'impressione di voler imporre qualcosa al paziente. Ecco perché il medico deve chiarire gli obiettivi della prescrizione e ripeterla affinché possa assicurarsi che il paziente abbia inteso bene i suoi compiti. Spesso i pazienti non richiedono spiegazioni per non apparire incolti o poco adeguati. Per questo il medico deve essere esplicito.

 

  1. Mostrare autorevolezza, anche sui social.Il medico dovrebbe sottolineare la propria autorevolezza, anche quando utilizza i social: spesso il paziente non è a conoscenza della professionalità di chi ha di fronte. Per questo è sempre opportuno mettere in bella mostra nel proprio studio non solo i titoli accademici ma anche locandine di convegni ai quali si è partecipato o pubblicazioni. La stessa “vetrina” è importante quando si utilizzano i social.

 

  1. Allearsi con Internet. Il web non è un nemico assoluto. Si possono, ad esempio, sfruttare i social o creare un proprio canale YouTube per fare corretta informazione, divulgare sani stili di vita, informare per prevenire, far capire come riconoscere le fake newsin medicina, fare tutorial per insegnare specifici strumenti o per svolgere esercizi riabilitativi mirati. Inoltre, sui social i medici possono creare un confronto con i pazienti. Chiaramente tutto limitatamente al tempo a loro disposizione e al rispetto delle norme deontologiche.

 

  1. Usare whatsapp.Per accelerare i tempi della comunicazione ed evitare troppe visite in presenza, a volte può essere sufficiente un messaggio su whatsapp, strumento che sempre più medici usano con i propri assistiti.
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di Rossella Gemma

Un team internazionale di ricercatori, guidato dal professor Giuseppe Lopalco, del Dipartimento di Medicina di Precisione e Rigenerativa e Area Ionica (DiMePRe-J) dell’Università di Bari e membro del Comitato Scientifico FIRA (Fondazione Italiana per la Ricerca in Reumatologia), ha pubblicato di recente uno studio sulla malattia di Behçet, una patologia reumatologica complessa che colpisce vari organi, causando ulcere orali e genitali dolorose, oltre a manifestazioni articolari. La ricerca, condotta in sette centri specializzati in Italia e Spagna, ha messo a confronto due trattamenti (gli inibitori del fattore TNF e un altro farmaco) già noti per la cura della psoriasi e dell’artrite psoriasica, per comprendere in quali casi è meglio utilizzarli in corso di malattia di Behçet.

Quella di Behçet è una malattia infiammatoria cronica che colpisce diversi organi ed apparati, anche non contemporaneamente nel tempo. A causa delle sue manifestazioni spesso poco specifiche e dell'assenza di marcatori biologici utili per supportare la diagnosi, nel corso degli anni è stata classificata in modi diversi e ad oggi risulta classificata tra le vasculiti sistemiche, cioè malattie infiammatorie dei vasi sanguigni. La patologia può coinvolgere diversi organi e tessuti in tutto il corpo, causando una vasta gamma di sintomi, tra cui ulcere orali e genitali, lesioni cutanee, dolore e infiammazione articolare ed infiammazione oculare denominata uveite. Si tratta di una malattia rara (in Italia 1 caso per 100.000 abitanti), che si manifesta tipicamente tra i 20 e i 40 anni, più raramente compare anche in età pediatrica o più avanzata, ed è leggermente più comune negli uomini.

La causa esatta della malattia di Behçet non è ancora del tutto chiara. Si ritiene che un’interazione tra fattori genetici e ambientali possa scatenare una risposta immunitaria anomala, con conseguente infiammazione cronica. Attualmente, non è disponibile una cura definitiva, ma i trattamenti consentono di ridurre i sintomi e prevenire le complicanze, grazie all’utilizzo di farmaci antinfiammatori e corticosteroidiimmunosoppressori e biologici (come gli inibitori del TNF) e inibitori della fosfodiesterasi 4 PDE-4 (apremilast).

Lo studio ha coinvolto 78 pazienti con ulcere orali resistenti ai trattamenti tradizionali. I risultati sono incoraggianti: sia gli inibitori del TNF che apremilast si sono dimostrati altamente efficaci nel ridurre le ulcere orali già dopo tre mesi, migliorando significativamente la qualità della vita dei pazienti. Dal confronto sono emersi alcuni dati utili:

 

  • TNF-inibitori: Ideali per i casi più gravi, questi farmaci si sono dimostrati più efficaci nel trattare manifestazioni articolari e altre complicazioni sistemiche come uveite ed interessamento vascolare.
  • Apremilast: adatto per i pazienti con forme più lievi della malattia, ha un effetto positivo nel ridurre l’uso di corticosteroidi, noti per i loro effetti collaterali a lungo termine. Tuttavia, il farmaco ha registrato un tasso di interruzione più alto, principalmente a causa di effetti gastrointestinali.

“Questo studio rappresenta un passo importante verso la personalizzazione delle cure per la malattia di Behçet”, spiega il prof. Lopalco. “Grazie a queste nuove evidenze, i medici possono ora scegliere il trattamento più adatto alle caratteristiche specifiche di ogni paziente, migliorando l’efficacia terapeutica e riducendo gli effetti collaterali.” La ricerca ha evidenziato altresì l’importanza di continuare a sviluppare approcci terapeutici più mirati. “Ogni paziente è unico, e con il giusto trattamento possiamo davvero fare la differenza. Sono stati pubblicati i primi studi, per esempio, al momento su coorti di piccoli gruppi, su un possibile contributo dei farmaci JAK-inibitori già approvati per il trattamento delle artriti (reumatoide, psoriasica e spondiloartrite) e che sembrano indicare una loro efficacia, ma che devono essere sviluppati e ampliati ulteriormente per comprendere se potranno in alcuni casi rappresentare una nuova opzione terapeutica” conclude Lopalco.

“Negli ultimi quindici anni i nuovi trattamenti a disposizione per le malattie reumatologiche ci hanno consentito di compiere decisivi passi avanti, superando quella che un tempo era spesso un’inevitabile progressione verso l’invalidità e raggiungendo una buona qualità di vita. Ma questo non può bastare” sottolinea il prof. Carlomaurizio Montecucco, presidente di FIRA. “Comprendere sempre meglio le cause delle patologie e i loro meccanismi d’azione può consentire un approccio di maggior precisione, sempre più efficace. Perciò la ricerca scientifica continua e si pone sfide sempre più alte, che abbiamo l’ambizione di superare per migliorare la vita di sempre più pazienti".

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di Rossella Gemma

In merito alla circolazione dell’influenza aviaria, si precisa che è sotto controllo come previsto dal PanFlu che oggi è il piano in vigore fino alla definitiva approvazione del Piano pandemico per il controllo dei virus respiratori.
Il PanFlu, in ogni caso, mantiene attivo un sistema capillare di sorveglianza dei virus respiratori (RespiVirNet) che si basa sulle rilevazioni dei Medici di Medicina Generale, Pediatri di Libera Scelta e Laboratori di Riferimento Regionale. La sorveglianza è coordinata dall’Istituto Superiore di Sanità (ISS) con il sostegno del Ministero della Salute. Dai dati di questa sorveglianza, l’incidenza delle sindromi simil-influenzali (ILI) è in lieve aumento rispetto alla settimana precedente con un livello pari a 7,8 casi per mille assistiti (7,2 nella settimana precedente), ma minore di quello osservato nella stessa stagione dello scorso anno (9,7 nella settimana 2023-47). Questo per chiarire che i dati vanno letti nella loro interezza.
 
Le sindromi simil-influenzali, in questo momento, risultano essere sostenute dalla co-circolazione di diversi virus respiratori come dimostrato dalla sorveglianza virologica che, in queste settimane, rileva che la circolazione dei virus influenzali si mantiene ancora a bassi livelli: solo 1,6% dei campioni sono risultati positivi ai virus influenzali, mentre tutti gli altri risultano positivi per altri virus respiratori tra cui Rhinovirus, virus parainfluenzali, SARS-CoV-2 ecc.
Rispetto al piano pandemico, il Ministero della Salute, attraverso il Dipartimento di prevenzione, in collaborazione con l’Istituto superiore di sanità, ha operato ogni possibile valutazione e approfondimento nonché con sollecitudine al fine di arrivare ad approvare una versione che correggesse anche quei possibili errori messi in evidenza dalle esperienze passate. Affinché i ricercatori e i clinici del Dipartimento di Prevenzione e dell’Istituto superiore di sanità apportassero le modifiche finalizzate a renderlo operativo e approvabile, è stato necessario del tempo. Con la legge di bilancio in corso di approvazione, si finanzia l’attuazione del Piano come richiesto anche dalle Regioni. A breve, infine, il Piano sarà sottoposto alla Conferenza Delle Regioni per la necessaria concertazione e una volta finanziato e concordato con le Regioni diventerà un utile strumento per la prevenzione delle infezioni respiratorie, oltreché un baluardo per la difesa dalle pandemie.
 
In conclusione, Il Ministero della Salute attraverso il Dipartimento di prevenzione e l’Istituto superiore di sanità, insieme ai migliori ricercatori e clinici nazionali sta lavorando per la chiusura di un Piano che sia un punto di forza dell’intero sistema sanitario nazionale.

 

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di Rossella Gemma

Da una parte, l’aumento dei casi di tumore che, secondo le stime, sono cresciuti in maniera imponente, con circa 395mila nuove diagnosi nel 2023 e un incremento di 18.400 casi ogni 12 mesi dal 2020. Dall’altra, un netto miglioramento nell’efficacia della prevenzione e delle cure che, in 13 anni, si stima abbiano permesso di evitare oltre 268mila decessi. In questo contesto, l’oncologia italiana si trova a un punto di svolta, con avanzamenti senza precedenti nella diagnosi e nel trattamento dei tumori. Le scoperte nei checkpoints immunologici, nella genomica e nei trigger points tumorali hanno delineato nuovi scenari che fino a qualche tempo fa erano inimmaginabili, portando a terapie estremamente mirate ed efficaci. Tuttavia, questi progressi scientifici devono confrontarsi con sfide cruciali di sostenibilità e accesso.

Il modello mutazionale ha avuto un impatto significativo sui sistemi sanitari, ridefinendo ambiti e competenze professionali. Ma l’innovazione diagnostica e terapeutica rischia di non esprimere tutta la propria efficacia senza un sistema in grado di accoglierla e implementarla. Problemi come l’early access alle terapie innovative, il disallineamento tra diagnostica e farmaci, e le difficoltà di rimborsabilità per le terapie target richiedono interventi urgenti.

Per quanto riguarda la sostenibilità della spesa, né la costituzione dei fondi sovraregionali dedicati ai farmaci innovativi, né la riunione dei 2 fondi in un unico fondo, né l’eventuale avanzo del fondo restituito alle regioni (non vincolato) sembrano aver risolto le molte criticità, né la recente allocazione di una parte del fondo per i farmaci a innovatività condizionata. Preoccupazione costante di ogni Regione è quanto possa accadere quando decadrà il periodo di riconoscimento dell’innovazione delle terapie che garantisce una spesa a carico dello Stato.

Sono i dati emersi dall'evento di Motore Sanità, con il contributo incondizionato di Centro Diagnostico Italiano (CDI) e Gilead che ha riunito a Firenze i massimi esperti del settore con l’obiettivo di discutere criticità, condividere buone pratiche e delineare un futuro sostenibile per l’oncologia italiana.

Secondo le stime, circa il 40% dei nuovi casi di tumore sono potenzialmente prevenibili in quanto correlati a fattori di rischio modificabili. Tra questi, sicuramente, c’è il fumo.  Ed è un dato di fatto che in Italia ci siano milioni di fumatori che non vogliono oppure non riescono a smettere. Diventa allora fondamentale ragionare sulle strategie di riduzione del rischio, valutando l’opportunità di passare a prodotti privi di combustione.

“Negli ultimi anni – ricostruisce Silvio Festinese, Coordinatore Responsabile Cardiologia Ambulatoriale Area Ospedale S.Spirito ASL Roma I e Coordinatore Cattedra di Farmacologia International Medical University “Unicamillus” Rome – abbiamo avuto tre trial e una revisione sistematica pubblicate sulle migliori riviste scientifiche internazionali da cui emergono alcune prime, importanti, evidenze del fatto che l’uso della e-cigarette ai fini della cessazione dell’abitudine tabagica sia migliore della terapia medica basata sull’uso sostitutivo dei farmaci”. Questo, secondo Festinese, “deve farci riflettere sui consigli da dare nella clinica pratica nell’approccio ai pazienti fumatori”. Ovviamente, e il professor Festinese lo sottolinea “in maniera tassativa, è meglio non fumare. Ma per coloro che non vogliono, non riescono, oppure hanno già fallito anche con altre vie, dobbiamo chiederci se non sia possibile, nei casi di tabagismo, quantomeno ridurre il rischio, sia cardiovascolare che oncologico, così come avviene per altri fattori come l’ipertensione arteriosa, il diabete e l’ipercolesterolemia”.

Uno dei focus della giornata di lavori, in cui si è fatto il punto sulle principali terapie innovative, dalle Car-T a quelle per il tumore del seno, ha riguardato il tumore alla prostata. “Ogni anno in Italia circa 44.000 persone si ammalano di tumore della prostata. In questo scenario – ha spiegato il dottor Giancarlo Beltramo, Direttore del Centro Cyberknife CDI - la radioterapia a fasci esterni è una consolidata alternativa non invasiva al trattamento chirurgico, rispetto al quale offre pari efficacia in termini di controllo di malattia e sopravvivenza globale. La continua innovazione tecnologica nell’ambito della radioterapia – ha proseguito Beltramo - ha permesso di sviluppare nuove tecniche di irradiazione nell’ambito del tumore della prostata tra cui i trattamenti stereotassici”.

Il Cyberknife rappresenta una soluzione tecnologica unica nel suo genere. “L’accuratezza e la precisione del trattamento stereotassico con Cyberknife - ha sottolineato ancora Beltramo - non solo permette una riduzione significativa dell’irradiazione dei tessuti sani adiacenti al tumore, prerogativa per una minore tossicità e una migliore qualità della vita del paziente, ma, grazie alla precisione sub millimetrica del sistema robotico, consente di erogare elevati  livelli di dose di radiazione concentrati sul bersaglio tumorale, prerogativa per un miglior controllo locale di malattia e di una maggiore sopravvivenza. Il trattamento radiochirurgico con Cyberknife ha permesso quindi di offrire ai pazienti affetti da tumore della prostata, trattamenti sicuri, veloci ed efficaci che possono costituire una nuova valida opzione terapeutica”.

“Il tumore alla prostata - ha spiegato Claudio Talmelli, presidente di Europa Uomo - rappresenta il 20% circa delle malattie oncologiche che affliggono il maschio, con circa 564mila soggetti affetti attualmente. Un vero e proprio esercito”. Con riflessi importanti non soltanto per il malato, “ma anche per tutte le famiglie. Milioni di persone coinvolte” in un problema di cui, “non si parla abbastanza, perché la malattia porta con sé una forma di stigma”. Dal punto di vista diagnostico, una svolta fondamentale è rappresentata dalla risonanza magnetica multiparametrica. “L’individuazione del tumore con la biopsia – ha spiegato Talmelli – oltre ad essere dolorosa, ha sempre comportato alcune difficoltà legate innanzitutto alla posizione della prostata, nascosta sotto la vescica. La risonanza magnetica nucleare tridimensionale e multiparametrica ha reso possibile una scansione che dà anche la profondità, e questo rappresenta un grandissimo successo perché è in grado di identificare un eventuale tumore in maniera precisa. Tutti i nuovi studi sono orientati su una tecnica di indagine che parta dal Psa e, successivamente, nel caso in cui questo sia alterato, arrivi alla risonanza magnetica multiparametrica. Il problema è che non tutte le realtà dispongono di questo tipo di macchinario. Ma sicuramente abbiamo fatto un passo avanti fondamentale per quanto riguarda gli screening, con la possibilità di salvare molte vite. Individuando prima i tumori è poi possibile mettere in campo interventi più blandi per il paziente, a cui è garantita una qualità della vita migliore”. Un aspetto tutt’altro che irrilevante, se si considera che la previsione di sopravvivenza di chi sia ammalato di tumore alla prostata “è del 91% a cinque anni, all’82% a dieci anni”.

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di Rossella Gemma

Il benessere dell’intero organismo regolato dall’asse intestino-cervello. Una connessione complessa e affascinante, al centro del convegno “Asse intestino-cervello: What’s new?”, organizzato oggi da Spazio Vita Niguarda S.C.S. Onlus presso la sede dell’organizzazione all’interno dell’Ospedale Niguarda di Milano. Un incontro che ha riunito esperti di farmacologia, psicologia, nutrizione e medicina per tracciare un quadro aggiornato di questa comunicazione bidirezionale, capace di influenzare non solo il corpo ma anche la mente.

Ad aprire i lavori, il prof. Giorgio Racagni, past president della Società Italiana di Farmacologia, che ha esplorato i meccanismi che regolano il dialogo tra intestino e cervello. Al centro, il microbiota intestinale: un ecosistema di miliardi di microrganismi che, attraverso metaboliti specifici, influenza direttamente l’attività cerebrale. “Alcuni ormoni e neurotrasmettitori giocano un ruolo fondamentale in questa connessione, e tra questi spicca la serotonina”, ha spiegato Racagni, sottolineando come questa molecola, presente nelle cellule endocrine dell’intestino, agisca sia come ormone che come neurotrasmettitore, coinvolgendo praticamente tutte le aree del cervello.

Nel corso della mattinata sono stati affrontati anche altri temi cruciali, come i legami tra epilessia e microbiota e il ruolo dei prodotti naturali nel supporto al benessere gastroenterico.

Il prof. Giorgio Donegani, tecnologo alimentare ed esperto di educazione alimentare, ha approfondito le connessioni tra sindrome dell’intestino irritabile, alimentazione e integrazione nutrizionale. “L’intestino è un organo che per grandezza, potrebbe ricoprire la superficie di un campo da tennis, ed è molto più esposto di quanto pensiamo”, ha evidenziato Donegani, ricordando l’importanza di una dieta equilibrata per favorire la crescita di un microbiota sano. “Ogni individuo è unico, e un’alimentazione personalizzata è un pilastro essenziale per il benessere dell’asse intestino-cervello”.

Spazio Vita Niguarda, realtà accreditata per le Cure Domiciliari (ex ADI) dalla Regione Lombardia, non si limita a promuovere convegni come quello di oggi, ma lavora quotidianamente per diffondere una cultura della salute basata su educazione e multidisciplinarità. “È fondamentale creare eventi accessibili e scientificamente accurati, che offrano strumenti concreti per una maggiore consapevolezza”, ha sottolineato la dott.ssa Tiziana Redaelli, vicepresidente della Onlus.

Tra i prossimi appuntamenti in programma, un convegno dedicato alla spina bifida, con un focus particolare sulla prevenzione non solo primaria ma anche secondaria. “Non vogliamo limitarci alla prevenzione primaria evitando la nascita di bambini con spina bifida – ha precisato a margine dell’incontro la dott.ssa Redaelli – ma vogliamo concentrarci sulla prevenzione secondaria, cioè tutto ciò che è necessario mettere in atto a livello sanitario, psicologico e sociale nel percorso di vita delle persone affette da questa patologia, dall’infanzia fino all’età adulta”.

Spazio Vita Niguarda nasce nel 2013 ed è il frutto dell’unione di due realtà associative attive da diversi anni all’interno dell’Unità Spinale Unipolare dell’Ospedale Niguarda Ca’ Grande di Milano: AUS Associazione Unità Spinale Niguarda Onlus e ASBIN Associazione Spina Bifida e Idrocefalo Niguarda Onlus. Situata presso l’Ospedale Niguarda di Milano, Spazio Vita si dedica al miglioramento della qualità della vita delle persone con disabilità motorie, sia congenite che acquisite. Fondata in collaborazione con l’Unità Spinale Unipolare e con il supporto dell'ospedale, offre servizi che spaziano dal supporto socio-sanitario al reinserimento sociale e lavorativo. Tra le attività proposte ci sono corsi di formazione, assistenza psicologica e sociale, percorsi di sviluppo dell’autonomia, un Centro di Aggregazione Disabili con numerose attività laboratoriali e ludico ricreative e un polo di ricerca e sviluppo chiamato TECHLAB, che esplora soluzioni innovative per l'autonomia delle persone con disabilità, come la domotica e la stampa 3D. Inoltre, Spazio Vita promuove una forte inclusione sociale attraverso collaborazioni con aziende, progetti culturali e percorsi di integrazione personalizzati per facilitare l'indipendenza e la partecipazione attiva. Per maggiori informazioni: www.spaziovitaniguarda.it

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di Rossella Gemma

La Medicina e la chirurgia rigenerativa rappresentano una vera e propria frontiera nella cura delle patologie degenerative e croniche. Hanno come obiettivo principale la riparazione di organi e tessuti danneggiati da invecchiamento, eventi patologici o traumi per ripristinarne e migliorarne il funzionamento.
 
Da cinque anni nell’I.R.C.C.S. Neuromed di Pozzilli le tecniche di medicina rigenerativa rientrano nella pratica clinica della chirurgia vascolare, tese alla rigenerazione delle ulcere che colpiscono gli arti inferiori. Si tratta di un nuovo approccio che non contempla l’uso di un farmaco ma consente, tramite procedure specifiche, di riprodurre le cellule che servono a rigenerare i tessuti direttamente dal paziente.
 
In chirurgia vascolare la medicina rigenerativa si avvale di terapie cellulari e di biomateriali che permettono la formazione di un neo-derma ben vascolarizzato che viene ripopolato dalle cellule del paziente. Un tessuto ‘malato’, tuttavia, necessita di una terapia cellulare vera e propria per poter agire.  Nel trattamento dell’ischemia all’arto, ad esempio, sono note le capacità neo-angiogenetiche e neo-arterogenetiche delle cellule mononucleate del sangue periferico.
 
Queste cellule vengono estratte dal sangue del paziente stesso (cosiddette “autologhe”) attraverso un processo di filtrazione selettiva del sangue periferico, il Monocell, che permette, con la minima invasività di un semplice prelievo ematico, di ottenere un concentrato di mononucleate autologhe. Una volta che vengono infiltrate lungo l’arto ischemico, queste cellule permette la formazione di vasi collaterali nonché l’aumento del diametro dei vasi sanguigni esistenti. In questo modo si fornisce un’opportunità di salvataggio dell’arto a quei pazienti per i quali non restano opzioni terapeutiche tradizionali. Grazie a questa terapia, diminuisce il rischio di amputazione, vengono controllati efficacemente dolore e infiammazione e viene migliora la qualità di vita del paziente.
 
“Il paziente diventa una specie di ‘cell factory’ – spiega il dottor Enrico Cappello, responsabile della Chirurgia Vascolare ed Endovascolare II – perché riusciamo ad indurre, sulla lesione, la produzione delle cellule necessarie per la riparazione tissutale. Non si tratta solo di creare una cicatrice, cioè un tappo davanti a un buco, per fare una semplice analogia: significa rigenerare la funzione della pelle al livello della lesione ulcerativa. La pelle è infatti un tessuto molto complesso che ha molte funzioni, basti pensare all’ossigenazione dei tessuti oppure alla gestione dell’impatto termico (con la sudorazione), all’elasticità”.
 
Oggi quindi accanto alle tecniche chirurgiche per il trattamento delle lesioni degli arti inferiori, rappresentate dalle cosiddette rivascolarizzazioni, utilizzate per migliorare l’apporto di sangue e ossigeno al livello della lesione, o dalla tecnica della compressione che si utilizza per esempio all’interno di alcuni quadri patologici delle flebo-patie, la Medicina rigenerativa rappresenta una nuova frontiera che fornisce più opzioni terapeutiche e che per questo consente di trattare e di gestire sempre più pazienti.
 
“Trasformare il nostro organismo in un piccolo laboratorio - continua Cappello - di fatto personalizza la cura, perché prendiamo, lavoriamo e impiantiamo i fattori autologhi del paziente. All’interno del nostro Istituto abbiamo diversi filoni di ricerca nell’ambito della Medicina rigenerativa: dall’utilizzo delle cellule mononucleate alle cellule staminali, fino ai più nuovi ritrovati, come i fattori di crescita piastrinici ad alto dosaggio, che vengono estrapolati dal sangue del paziente e vengono impiantati a livello della lesione. Questo ci porta a studiare nuove prospettive terapeutiche, contrastando le problematiche legate alle lesioni degli arti inferiori, quindi cercando di evitare il più possibile la perdita dell’arto e lo sviluppo di comorbidità che impattano in maniera significativa sulla qualità della vita dei pazienti”.
 
“La rigenerazione dei tessuti in vivo – dice il dottor Francesco Pompeo, responsabile della Chirurgia Vascolare e Diagnostica I e Coordinatore SIMCRI Regione Molise - permette quindi non solo di far guarire la ferita, ma di preservare tutte le funzioni di quel tessuto. Siamo stati tra i primi Centri a testare quanto la neo-angiogenesi sia cruciale nel processo di rigenerazione per le lesioni degli ari inferiori. Con essa riusciamo a migliorare l’apporto ematico nella sede della lesione dopo aver provveduto a rivascolarizzare le arterie ostruite. Ma questa tecnica può anche ampliare il numero di casi da poter trattare, anche quelli più difficili. Un approccio in continua evoluzione di cui si occupa la SIMCRI – Società Italiana di Medicina e Chirurgia rigenerativa - e che può essere ad appannaggio delle patologie artrosiche, ortopediche, plastiche, ginecologiche, odontoiatriche oltre che vascolari”.
 
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di Rossella Gemma

Il 20% degli italiani non riceve alcun invito a fare screening. E dei cittadini che vengono coinvolti, 1 su 3 ha difficoltà a partecipare i controlli e 1 su 5 rinuncia alla prevenzione a causa di orari incompatibili, liste d’attesa e difficoltà logistiche del nostro Servizio Sanitario Nazionale. Sono solo 6 su 10 quelli che vengono messi in condizione di portare a termine i controlli di prevenzione.

È quanto emerge dai dati del Barometro del Patient Engagement, la prima indagine nazionale sulla percezione del coinvolgimento attivo degli italiani nel proprio percorso di cura, realizzata da Helaglobe con il comitato scientifico composto da Paolo Petralia, Direttore Generale ASL 4 Liguria, Caterina Rizzo, Ordinario di Igiene Generale e Applicata all’Università di Pisa - AOU Pisana, Matteo Scortichini, Ricercatore Facoltà di Economia, Valutazione Economica e HTA (EEHTA), CEIS, Università Roma “Tor Vergata”, Vito Montanaro, Consigliere AIFA e Direttore Dipartimento Salute Regione Puglia, e Alessandra Ferretti, Referente Comunicazione istituzionale Direzione Generale Cura della Persona, Salute e Welfare Regione Emilia-Romagna. A commentare i dati anche Gennaro D’Agostino, Direttore Sanitario ASL Roma 1.

«Il quadro che viene delineato dai tanti dati che abbiamo raccolto con i questionari sottoposti ad un campione di circa 3mila cittadini in tutte le Regioni, è quello di una sanità costantemente sollecitata ma che si preoccupa poco di coinvolgere i cittadini, di ascoltare le loro esigenze e di prendere in considerazione le loro proposte di miglioramento. Prescrive visite ed esami, suggerisce screening, ma poi in molti casi abbandona il paziente a sé stesso senza metterlo in condizione di seguire quelle indicazioni», dice Davide Cafiero, managing director di Helaglobe.

Nella ricerca spicca l’87% dei cittadini che afferma di non essere mai stato coinvolto in indagini sulla qualità del servizio di ospedali o di strutture sanitarie o in gruppi di lavoro specifici per progettare e migliorare tali servizi. Questo, a fronte di un 35% che ha trovato difficile o molto difficile prenotare esami o visite. E anche a livello di singoli professionisti sanitari si rispecchia questa mancanza di partecipazione con il 22% dei pazienti che dichiara di non venire mai coinvolto dal proprio medico nelle decisioni sulla propria salute e un 40% che viene coinvolto saltuariamente, nonostante da parte di quasi tutti i cittadini ci sia il desiderio di partecipare ed essere ingaggiato nelle scelte pur rispettando le scelte effettuate dai camici bianchi.

«Coinvolgere i pazienti non è solo una questione etica, ma è fondamentale per l'efficienza del sistema sanitario. Quando i pazienti sono informati, educati e coinvolti attivamente nelle decisioni terapeutiche, il tasso di adesione alle terapie e il rispetto delle prescrizioni migliorano sensibilmente riducendo ricoveri e accessi al pronto soccorso», afferma Matteo Scortichini, Ricercatore Facoltà di Economia, Valutazione Economica e HTA (EEHTA), CEIS, Università Roma “Tor Vergata”.

«Le difficoltà organizzative segnalate dall’indagine così come la gestione del tempo e gli impegni personali, evidenziano la necessità di rivedere i modelli di erogazione degli screening prevedendo la possibilità di organizzare appuntamenti flessibili in luoghi prossimi al domicilio o al lavoro della popolazione target, promuovere campagne informative più efficaci e assicurare una comunicazione diretta con gli utenti per migliorare la partecipazione» commenta Caterina Rizzo, Professore Ordinario di Igiene Generale e Applicata Università di Pisa – Azienda Ospedaliero Universitaria Pisana.

«Ascoltare, per chi deve elaborare strategie di governo dell’offerta sanitaria, significa avere un canale sempre aperto con i cittadini e coinvolgere nei tavoli tecnici i rappresentanti delle associazioni di pazienti. Informare, nel Terzo Millennio, vuol dire utilizzare anche web, social e tutti gli strumenti che l’evoluzione del digitale mette a nostra disposizione» spiega Vito Montanaro, Consigliere d’amministrazione dell’Aifa e direttore del Dipartimento Salute della Regione Puglia.

«Tre azioni per coinvolgere meglio i pazienti nella sanità: primo, un’azione di educazione sanitaria nei confronti del grande pubblico, che trasmetta in modo coinvolgente, attraverso la scuola e i canali dell’informazione, processi, dubbi, successi e fallimenti della scienza. Secondo, un potenziamento della preparazione sul Patient Engagement alla Facoltà di Medicina e Chirurgia e Infermieristica e una formazione continua degli operatori sanitari. Terzo, l’assunzione di una prospettiva “di complessità” da parte di tutti gli agenti coinvolti, i quali siano consapevoli che il valore aggiunto del sistema viene dall’interazione delle sue componenti ancora prima che dal contributo delle sue componenti prese singolarmente» propone Alessandra Ferretti, Referente Comunicazione istituzionale Direzione Generale Cura della Persona, Salute e Welfare Regione Emilia-Romagna.

«Il digitale rappresenta certamente uno dei driver di trasformazione dell’intero ecosistema salute. Resta chiaro che questo strumento deve però coniugarsi con l’obiettivo di ingaggio dei cittadini a riorientare ogni aspetto gestionale-organizzativo verso la centralità della persona che poi è, il vero motore di cambiamento dell’intero sistema salute. Il Patient Engagement è certamente la coordinata dentro la quale ritrovare consapevolezza e responsabilità del cittadino, inteso come “cittadino - paziente”, perché è evidente che il suo esserci significa esserci in maniera matura ed in maniera informata» riflette Paolo Petralia, Direttore Generale ASL 4 Liguria.

 

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di Rossella Gemma

La nuova frontiera dell’emergenza medica è già qui: le prime 100 unità Ambulance.AI sono pronte a entrare in servizio per ARES Lazio. E’ stata presentata oggi a Welfair, la Fiera del Fare Sanità, in programma alla Fiera di Roma fino al 7 novembre, “Ambulance.AI”, che trasforma le ambulanze in centrali di telemedicina mobili, connesse in tempo reale con le centrali operative per migliorare la rapidità e l’efficacia degli interventi d’emergenza.
 
Attraverso l’integrazione di intelligenza artificiale e tecnologia blockchain, ogni Ambulance.AI consente la trasmissione continua e sicura di immagini e dati medici, permettendo consulti istantanei con specialisti ospedalieri. Questa tecnologia avanzata consente il monitoraggio costante dei parametri vitali dei pazienti, migliorando la tempestività e la precisione delle cure già nel tragitto verso l’ospedale. “Ambulance.AI rappresenta una svolta per la sicurezza dei pazienti e degli operatori, ottimizzando le risorse delle aziende sanitarie e il tempo dei medici specialisti – dichiara Ido Miglioranza, CEO di Emerland.AI e ideatore del progetto - La nostra ambulanza del futuro è progettata come una piattaforma scalabile, pronta a ospitare servizi sempre più evoluti e a supportare anche le cure domiciliari”.
 
Questa innovazione punta a una sanità più sostenibile: la gestione ottimizzata degli interventi ridurrà i ricoveri ospedalieri non necessari e migliorerà la qualità della vita dei pazienti, delle loro famiglie e dei soccorritori. Inoltre, permette un utilizzo mirato degli specialisti, connessi in tempo reale tramite la centrale operativa, migliorando l’efficienza delle cure e riducendo il rischio clinico. Le sfide del trasporto sanitario – dalla complessità delle attrezzature elettromedicali all’operatività in movimento – trovano finalmente una risposta grazie ad Ambulance.AI, che introduce un modello scalabile, capace di adattarsi e crescere con le necessità della sanità moderna.
 
 
 
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di Rossella Gemma

Sono consapevoli di doversi proteggere dalle infezioni più note e ricorrenti, ossia influenza e Covid, per le quali si sono vaccinate in oltre il 75%. Invece, nei confronti di altre malattie infettive, meno frequenti ma per loro potenzialmente molto pericolose, il livello di guardia delle persone con diabete resta ancora basso: meno del 40% si è sottoposto ai vaccini contro tetano, morbillo/parotite/rosolia, polmonite, pertosse, difterite, meningite, Herpes Zoster e virus respiratorio sinciziale. È questa la fotografia scattata dall’Associazione Medici Diabetologi (AMD) nell’ambito di una survey condotta su 430 dei propri assistiti, con l’obiettivo di capire il loro atteggiamento nei confronti dei vaccini: quali conoscono, quali hanno eseguito e, se non ne hanno eseguiti, per quali motivi. I risultati della survey, presentati oggi in una conferenza stampa a Milano, hanno rilevato l’esigenza avvertita dalle persone con diabete di sentirsi consigliare più spesso, dai propri medici, le vaccinazioni a loro raccomandate. Per contribuire a colmare questo gap informativo, AMD ha lanciato la campagna di sensibilizzazione “Con il diabete vacciniamoci” che vivrà nei centri di diabetologia di tutta Italia e sui canali social societari. L’iniziativa è sponsorizzata in modo non condizionante da GlaxoSmithKline S.p.A.

“Rispetto alla popolazione generale, le persone con diabete hanno maggiori probabilità di contrarre un’infezione [i], un rischio quattro volte superiore di ricovero ospedaliero[ii] a seguito dell’infezione e un rischio doppio di decesso[iii], spiega Riccardo Candido, Presidente Nazionale AMD, tra i relatori della conferenza stampa. “Le malattie infettive possono anche causare un aumento temporaneo della glicemia, peggiorando la gestione del diabete stesso. Questi rischi non riguardano solo le infezioni più note, ma anche altre, spesso sottovalutate perché considerate più rare, come il Fuoco di Sant’Antonio (o Herpes Zoster), la polmonite pneumococcica, la meningite batterica, l’epatite B.  Le vaccinazioni che permettono di difendersi da queste patologie sono, quindi, strumenti di salute irrinunciabili per chi convive con il diabete. Il Piano Nazionale di Prevenzione Vaccinale (PNPV) 2023-2025, infatti, prevede per loto l’offerta gratuita dei vaccini Antinfluenzale e Anti-SARS-CoV-2, Anti-pneumococcico, Anti-Herpes Zoster, Antimeningococcico, Anti-Epatite B, Anti-Morbillo-Parotite-Rosolia (MPR) e anti-Varicella”.

Al questionario proposto da AMD ai propri pazienti per sondare la loro conoscenza su questi temi, hanno risposto in 430, da tutto il Paese, per oltre il 50% over cinquantenni, 62% donne, 38% uomini, 60% con diabete tipo 1 e quasi 40% con tipo 2. “Quando abbiamo chiesto quali fossero, secondo loro, le vaccinazioni raccomandate alle persone con diabete, la stragrande maggioranza degli intervistati ha risposto Antinfluenzale e Anti-Covid, citate rispettivamente dall’81% e dal 65% del campione”, illustra Marcello Monesi, Segretario del Consiglio Direttivo Nazionale AMD e componente del board nazionale diabete e vaccini AMD. “A ‘metà classifica’ Anti-pneumococcica (52%) e Anti-Herpes Zoster (45%); chiudono, citati da meno del 30% dei rispondenti, i vaccini per tetano, meningite, morbillo/parotite/rosolia, virus respiratorio sinciziale, pertosse e difterite. Osservando i dati sulle vaccinazioni effettivamente eseguite, dopo Covid e influenza, per cui riferisce di essersi vaccinato rispettivamente l’84% e il 75% del campione, tutte le altre patologie registrano tassi di immunizzazione sotto il 40%, con Herpes Zoster e meningite addirittura sotto il 20%”.

“Risulta evidente – prosegue l’esperto – come occorra far crescere la consapevolezza dei nostri pazienti circa i rischi cui sono esposti in caso d’infezione. Con il Fuoco di Sant’Antonio, ad esempio, vi è un rischio aumentato di andare incontro a ulteriori gravi patologie come l’ictus. Ma i pazienti non lo sanno. Il 24% degli intervistati che non si sono sottoposti a vaccinazioni ritiene di non avere sufficienti informazioni e quasi il 20% di non aver ricevuto specifiche raccomandazioni da parte del proprio medico curante. Il 92% di tutti i rispondenti, inoltre, vorrebbe ricevere questa sollecitazione proprio dal diabetologo, il cui consiglio, anche in tema di vaccinazione, ha un peso specifico molto importante. Il team diabetologico dovrebbe, quindi, lavorare per l’empowerment della persona con diabete, non solo sulla gestione della terapia, il monitoraggio glicemico, l’alimentazione e l’attività fisica, ma anche sull’opportunità di vaccinarsi perché questo aspetto concorre altresì a migliorare i suoi outcome di salute”.

“Proteggersi dalle malattie infettive e dal maggior rischio di un loro decorso grave deve essere una priorità delle persone con diabete”, aggiunge Riccardo Candido. “L’esigenza di maggiore informazione in proposito, emersa dalla survey, è il motivo per cui abbiamo deciso di lanciare la campagna di sensibilizzazione ‘Con il diabete vacciniamoci’ che intende ribadire l’importanza della prevenzione vaccinale, rivolgendosi a persone con diabete, associazioni pazienti, caregiver e Istituzioni. Vivrà negli ambulatori di diabetologia di tutt’Italia, con la distribuzione di locandine e brochure informative, e sui nostri canali social. Ma servirà anche un’attività di formazione verso i diabetologi per indurli ad affrontare il tema con i pazienti durante l’attività ambulatoriale. Sarà sempre più necessario collaborare con i dipartimenti di prevenzione per creare, anche all'interno delle strutture di diabetologia, percorsi dedicati all’immunizzazione grazie ai quali, in giornate ad hoc, le persone con diabete possano valutare le vaccinazioni da loro già eseguite e programmare quelle necessarie”.

“Anche la nostra Associazione, che raccoglie impressioni, richieste e dubbi delle persone con diabete, in linea con i risultati della survey AMD, ha ricevuto il feedback di una mancanza d’informazione sul tema delle vaccinazioni”, evidenzia Marcello Grussu, Vicepresidente di Diabete Italia. “Escluse le patologie più impattanti, per le quali esistono campagne di comunicazione che producono un discreto effetto e la risposta vaccinale della popolazione, altre infezioni non rientrano nella quota di conoscenza dei pazienti in misura sufficiente a far sorgere in loro la richiesta di immunizzazione. L’informazione su queste patologie, e sui rischi che possono avere per la gestione del diabete, deve, quindi, essere maggiore e a più livelli. Le Associazioni pazienti possono svolgere un ruolo prezioso in tal senso, facendo da raccordo tra il sistema sanitario e le persone. Accogliamo con favore la campagna di sensibilizzazione promossa da AMD e siamo disponibili per amplificarne i messaggi, nella convinzione che fornire strumenti di conoscenza sia essenziale per raggiungere l’obiettivo di una maggiore copertura vaccinale della popolazione”.