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di Rossella Gemma

Il quadro emerso dal Global Hepatitis Report 2024 dell’Organizzazione Mondiale della Sanità riporta che l’epatite virale è la seconda causa infettiva di morte a livello globale, con percentuali simili a quelle registrate dalla tubercolosi, uno dei principali killer infettivi.
I nuovi dati provenienti da 187 Paesi mostrano che il numero stimato di decessi per epatite virale è aumentato da 1,1 mln nel 2019 a 1,3 nel 2022. Di questi, l’83% è stato causato dall’epatite B e il 17% dall’epatite C.
Solo in Italia ci sono ancora 300mila persone inconsapevoli di essere affette dal virus Hcv e non ancora trattate, un record di casi di sommerso in Europa che ci vede ancora lontani dall’obiettivo dell’Oms di eliminazione dell’Epatite C entro il 2030.
 
“L’Epatite C è una malattia che impiega anni a dare sintomi evidenti- afferma Enrico Di Rosa, direttore del Servizio di Igiene e Sanità Pubblica della Asl Roma 1- se non identificata e correttamente trattata. Oggi esistono terapie che permettono di eradicare il virus che può portare allo sviluppo del tumore al fegato e impattare sulla qualità di vita della persona”.
 
In questa importante ottica preventiva si è mosso il Progetto di Salute Solidale ‘Camminare insieme per la cura dell’Epatite C’, attuato dalla Comunità di Sant’Egidio insieme a Letscom E3, con il contributo non condizionato di AbbVie, “per ampliare l’accesso ai test e favorire una diagnosi tempestiva interrompendo la catena di contagio- spiega la dottoressa Maria Giuseppina Lecce, referente del progetto per Sant’Egidio- Si è quindi attivata una campagna di sensibilizzazione verso l’Epatite C e un’offerta di screening con test rapido anti Hcv indirizzata alla popolazione migrante che si rivolge alla Comunità. La campagna di sensibilizzazione ha coinvolto migliaia di migranti e rifugiati: studenti della Scuola di Lingua e Cultura Italiana e persone in difficoltà che si rivolgono ai centri di accoglienza e solidarietà di Sant’Egidio. L’offerta dello screening con test rapido anti Hcv è stata accolta con molto favore e interesse. La percentuale di positività è stata dell’1,5%, e i pazienti positivi sono stati avviati per le cure del caso e la completa presa in carico al Policlinico Gemelli”.
 
“Il Piano Nazionale per lo screening di Hcv in Italia ha introdotto importanti risorse per coprire ampie fasce nella popolazione generale e nelle popolazioni speciali- è intervenuta la dottoressa Francesca Romana Ponziani, responsabile dell’ambulatorio di epatologia presso il centro malattie dell’apparato digerente (Cemad), Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli Irccs- tuttavia, ci sono molte persone che difficilmente riescono ad accedere ai percorsi di screening e cura previsti da protocolli ufficiali e che invece possono rappresentare sacche di sommerso importanti, alle quali devono essere rivolte attenzioni particolari.
 
Fra queste persone ci sono i migranti, a cui è importante che sia garantito l’accesso ai servizi di screening e la presa in carico presso le strutture sanitarie che possano garantire loro le cure necessarie per una patologia infettiva che al giorno d’oggi è curabile con elevatissimi tassi di successo”.
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di Rossella Gemma

Il 19 aprile, come ogni anno, si celebra la Giornata Mondiale del Fegato, un’iniziativa delle società scientifiche di tutto il mondo legate all’ambito epatologico volta a sensibilizzare la popolazione mondiale sulla crescita delle patologie epatiche, spesso legate al peggioramento degli stili di vita: ogni anno, migliaia di persone sono colpite da queste malattie; sono 1,5 miliardi coloro che vivono con una malattia epatica cronica, mentre ogni anno si perdono 2 milioni di vite per questa causa. Ogni anno, in Italia, almeno 15mila pazienti muoiono per cirrosi e circa 6mila per carcinoma del fegato. Tuttavia, il 90% di questi casi sarebbero prevenibili, con azioni individuali in favore di un corretto stile di vita e con politiche sanitarie adeguate. Proprio al fine di incentivare questi approcci virtuosi, l’Associazione Italiana per lo Studio del Fegato si è confermata in prima linea nell’adesione a questa Giornata.

IL FEGATO: PROTEGONISTA DI OLTRE 500 FUNZIONI, MA A RISCHIO DI 100 MALATTIE – Il fegato è un organo spesso sottovalutato, ma è fondamentale per il mantenimento della salute generale: svolge infatti oltre 500 funzioni vitali nell’organismo, ma può essere colpito da oltre cento malattie, indipendentemente da età, sesso, etnia. Il fegato è l’organo interno del corpo umano che pesa di più, 1,5 kg, quasi le dimensioni di un pallone da football americano. Il fegato elabora zuccheri, proteine e grassi, che vengono poi trasformati in energia richiesta dal resto del corpo. Interagisce con numerosi altri organi, contribuisce al metabolismo ed è uno dei migliori protettori del sistema immunitario. Depura il sangue, filtrando farmaci e altre sostanze tossiche, produce la bile e sintetizza i fattori essenziali per la coagulazione. Le malattie del fegato tendono a rimanere latenti, in quanto questo organo non ha recettori del dolore: questo spesso porta a diagnosi tardive, quando la patologia è già in cirrosi scompensata o prossima all’epatocarcinoma.

I MESSAGGI DEL WORLD LIVER DAY - La Giornata Mondiale del Fegato è un’iniziativa guidata dall'Associazione europea per lo studio del fegato (EASL), dall'Associazione asiatica del Pacifico per lo studio del fegato (APASL), dall'Associazione americana per lo studio delle malattie del fegato (AASLD), dall'Asociacion Latinoamericana para el Estudio del Higado (ALEH) e la Society on Liver Disease in Africa (SOLDA), sotto l’egida della Coalizione Healthy Livers, Healthy Lives. La campagna di quest’anno mira a sensibilizzare l’opinione pubblica sul ruolo vitale del fegato e sull’importanza di adottare misure proattive per mantenere un fegato sano. Tuttavia, spesso le malattie del fegato non figurano nelle priorità di politica sanitaria, mentre dovrebbero rappresentare una priorità nei piani di assistenza sanitaria primaria.

L’Associazione Italiana per lo Studio del Fegato, che conta quasi mille soci iscritti, da oltre 50 anni è impegnata nella ricerca, nella divulgazione scientifica e nella formazione dei giovani epatologi – sottolinea la Prof.ssa Vincenza Calvaruso, Segretario AISF – Le malattie epatiche croniche si sviluppano silenziosamente, causando cicatrici progressive e cirrosi e si classificano al secondo posto dopo la cardiopatia ischemica in termini di anni di vita lavorativa persi a livello globale. Aumentare l’alfabetizzazione sanitaria e promuovere cambiamenti comportamentali ridurrebbe il carico di malattie del fegato e avrebbe un impatto significativo sulla sua morbilità e mortalità. In questi anni sono stati raggiunti importanti risultati, come i successi nella lotta alle epatiti virali, ma molto resta da fare, soprattutto in relazione alle patologie legate alla disfunzione metabolica provocate da tendenze legate a errati stili di vita”.

IL DECALOGO DELLA PREVENZIONE – Per favorire comportamenti virtuosi e incentivare la prevenzione, dal World Liver Day parte un decalogo volto a salvaguardare la salute del fegato. 1) Evitare il consumo di alcol, che provoca sette diversi tipi di cancro ed è una delle cause più frequenti di patologie epatiche. 2) Seguire una dieta salutare (fatta di frutta, verdura, legumi, proteine), riducendo gli zuccheri complessi e cibi ad alto contenuto di grassi saturi. 3) Vaccinarsi contro l’Epatite A e B, con quest’ultima vaccinazione che protegge anche dall’Epatite Delta. 4) Fare controlli regolari dal proprio Medico di Medicina Generale. 5) Mantenere l’igiene delle mani per prevenire infezioni da Epatite A ed E. 6) Evitare di condividere aghi contaminati, non solo associati all’uso intravenoso di droghe, ma anche per tatuaggi e piercing. 7) Praticare sesso sicuro per evitare contagio da Epatite B e C. 8) Evitare gli inquinanti ambientali, che possono danneggiare le cellule epatiche. 9) Non fumare. 10) Fare regolarmente esercizio fisico per ridurre l’accumulo di grassi nel fegato, aumentare il flusso sanguigno e intensificare la funzione metabolica.

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di Rossella Gemma

Nuovi studi sui fattori di rischio della malattia di Alzheimer propongono scenari inediti per effettuare una diagnosi precoce, che potrebbe ritardare la comparsa dei sintomi o evitare che questi insorgano. Sono stati infatti identificati alcuni fattori di rischio come diabete, insulino-resistenza, malattie del fegato, disturbi del sonno, che molto probabilmente concorrono a determinare questa patologia. Se queste ricerche fossero confermate sarebbe un significativo passo avanti nella prevenzione, visto che le terapie, nonostante alcune potenzialità, non presentano significative novità. Questi studi sono stati al centro del 24° Congresso Nazionale dell’Associazione Italiana Psicogeriatria – AIP. Tre giorni al Palazzo dei Congressi a Firenze con oltre 500 specialisti tra geriatri, neurologi, psichiatri.

AUMENTA LA PREVALENZA, MA L’INCIDENZA È IN DIMINUZIONE - L’Alzheimer rappresenta numericamente la principale forma di demenza tra le malattie neurodegenerative  in tutto il mondo. In Italia ci sono 1,1-1,2 milioni di persone affette da demenza, di cui il 60-80% affetti da Alzheimer, quindi si stimano circa 800mila persone. “Negli ultimi anni però sono stati riscontrati due trend opposti, una riduzione dell’incidenza e un aumento della prevalenza – sottolinea il prof. Alessandro Padovani, Direttore della Clinica di Neurologia e Prorettore alla Ricerca dell’Università degli Studi di Brescia –. Confrontando coorti d’età di diversi periodi emerge una riduzione della malattia: gli ottantenni di oggi rispetto a quelli del passato sono dunque meno colpiti; il controllo dei fattori di rischio ritarda la comparsa della malattia. Tuttavia, l’invecchiamento della popolazione e l’aumento del numero di anziani porta a un incremento della prevalenza, con la cifra assoluta che complessivamente è superiore rispetto al passato. Questi trend sono presenti anche nel micro, come dimostra l’osservatorio dell’Ospedale di Brescia, dove i 17mila pazienti affetti da Alzheimer sono per incidenza sempre più anziani, ma la presenza in coloro che hanno tra i 70 e gli 80 anni si è ridotta”.

BIOMARCATORI E FATTORI DI RISCHIO, I NUOVI SCENARI PER L’ALZHEIMER – La ricerca scientifica negli ultimi anni si è concentrata sul fatto che le prime alterazioni neuropatologiche si rilevano già 19 anni prima l’insorgenza dei sintomi veri e propri, con un aumento del tasso di proteina beta-amiloide a cui segue l’alterazione della proteina tau. In generale si consiglia un approccio preventivo basato su socializzazione, alimentazione corretta, attività fisica. Gli studi dell’ultimo anno hanno identificato possibili fattori di rischio che precedono l’accumulo di beta-amiloide.

I fattori di rischio che stanno emergendo come correlati alle caratteristiche neuropatologiche della malattia di Alzheimer sono il diabete o la cosiddetta insulinoresistenza della sindrome metabolica attraverso l’infiammazione sistemica, che favoriscono l’accumulo di beta-amiloide da cui poi deriverebbe il processo neurodegenerativo – sottolinea il Prof. Alessandro Padovani – Altri due elementi sembrerebbero correlati all’infiammazione sistemica: l’insufficienza epatica non alcolica, spesso legata all’obesità e ai disturbi dell’alimentazione, e la steatosi epatica alcolica, spesso aggravata dal consumo di alcol anche in età avanzata. Il fegato, infatti, svolgerebbe una funzione di filtro o di eliminazione dell’amiloide circolante. Ancora non ci sono dimostrazioni scientifiche, ma è un ipotesi accreditata su cui diversi gruppi stanno lavorando. Un terzo aspetto che emerge sull’individuazione dei fattori di rischio è legato ai disturbi del sonno: un sonno disturbato, inferiore alle 6 ore, aumenta il rischio di decadimento cognitivo; da recenti studi emerge che alcuni farmaci che agiscono sull’orexina non solo migliorano il sonno e le prestazioni cognitive, ma agiscono sui biomarcatori correlati allo sviluppo della malattia di Alzheimer”.

Le recenti ricerche sui biomarcatori dell’Alzheimer identificano importanti segni che un individuo andrà incontro a una demenza – sottolinea il Prof. Diego De Leo, Presidente AIP –. Si tratta di una puntura lombare che preleva il liquor cefalo-rachidiano che circonda il sistema nervoso. Nuove modalità di analisi dei biomarcatori si possono oggi fare anche tramite analisi del sangue, con un accesso più semplice e generalizzato, intervenendo quindi anche in persone che non presentano segni di malattia. Tuttavia, questa disponibilità pone questioni etiche oltre che organizzative, per identificare le persone da sottoporre a questi test”.

DAGLI ANTICORPI MONOCLONALI AGLI OLIGONUCLEOTIDI ANTISENSO: LE FRONTIERE DELLA TERAPIA  - L’importanza della prevenzione e dell’identificazione dei fattori di rischio è data dalla mancanza di terapie risolutive della patologia. Negli ultimi anni, la ricerca si è concentrata su anticorpi monoclonali che agiscono contro i primi meccanismi patogenetici dei precursori dell’amiloide, ma gli studi sono ancora in corso e mancano valutazioni da parte delle autorità regolatorie. Attualmente quindi la strategia terapeutica più frequente resta quindi quella di un cocktail di farmaci. “Tra le potenziali novità, vi è una terapia che prevede l’uso di oligonucleotidi antisenso – sottolinea il Prof. Padovani – È una terapia che in Italia è condotta in sei centri, tra cui il nostro a Brescia. Finora non sono emersi effetti collaterali e attendiamo di verificare l’effetto a distanza di un anno, ma i dati sono incoraggianti: potrebbe essere una nuova strada che combina farmaci antiamiloide e antitau”.

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di Rossella Gemma

L’Italia è uno dei paesi occidentali in cui diventare vecchi presenta gli scenari peggiori, soprattutto rispetto ai Paesi anglosassoni, dove i tassi di suicidio in età avanzata sono la metà di quelli che avvengono in Italia. Lo dimostrano i dati relativi alla solitudine e ai suicidi, che nel 38% dei casi riguardano persone con più di 65 anni, sebbene queste ultime siano poco più del 20% della popolazione.

Solitudine e suicidi negli anziani saranno tra i temi al centro del 24° Congresso dell’Associazione Italiana di Psicogeriatria, che si tiene a Firenze dall’11 al 13 aprile. Il  Congresso, intitolato “Integrazione e innovazione. Fondamenti del sapere psicogeriatrico” raccoglie oltre 500 specialisti e ben 145 relatori, affrontando temi di stringente attualità. L’avvento dell’Intelligenza Artificiale apporterà modificazioni nella cura degli anziani. La cura delle demenze sta offrendo scenari innovativi con il ruolo dei biomarcatori nell’approccio diagnostico. La recente approvazione della legge 33 sulla non-autosufficienza rappresenta un'altra opportunità di innovazione nell’assistenza, che si sposta dal sanitario al sociale aprendo nuove prospettive. Vi sono poi le novità farmacologiche riguardanti problematiche come il controllo di agitazione e delirium e quelle sui trapianti d’organo. Grande attenzione poi a fenomeni globali come i cambiamenti climatici, che hanno un notevole impatto proprio sulla salute dei più fragili, che possono subire maggiormente gli effetti della disidratazione, dei colpi di calore o semplicemente essere meno reattivi di fronte a calamità naturali per limiti sensoriali o per il basso livello di digitalizzazione, che in Italia nella popolazione anziana non raggiunge il 65% e talvolta implica solo la competenza di saper mandare una mail.

L’elevato tasso di suicidi tra gli anziani in Italia ha le sue ragioni nella solitudine in cui vengono ridotti gli anziani e nell’ageismo con cui vengono spesso discriminati, con diritti basilari che esistono solo sulla carta. Il tasso di solitudine è il doppio rispetto alla media dei Paesi europei, con coloro che non hanno nessuno a cui chiedere aiuto che sono il 14%, mentre coloro che non hanno nessuno a cui raccontare cose personali il 12%, a fronte di una media europea del 6,1% (dati Eurostat). La solitudine non è solo un problema sociale, ma anche clinico, essendo associata ad un aumento del rischio di depressione, disturbi del sonno, demenza e malattie cardiovascolari.

A mettere in stretta correlazione ageismo e solitudine sono diversi studi internazionali. Uno studio israeliano di giugno 2023 individua un legame tra il crescere dell’età e la maggiore solitudine, con l’associazione positiva tra i due fenomeni che diventa significativa nelle persone di età superiore ai 70 anni. Uno studio cileno dello stesso periodo mostra un’associazione diretta e indiretta dell'ageismo con gli esiti sulla salute mentale: l’ageismo è positivamente correlato alla solitudine e, di conseguenza, all’aumento dei sintomi depressivi e ansiosi. Analogamente, un documento di ottobre 2021 evidenzia due iniziative innovative dei Paesi Bassi, che dimostrano che i diritti degli anziani possono essere mantenuti in soluzioni abitative collettive.

Gli anziani spesso vengono estromessi da misure di salvaguardia sanitaria, come avvenuto durante la pandemia, quando i posti in terapia intensiva erano destinati ai più giovani – spiega il Prof. Diego De Leo, Presidente AIP –. Questa impostazione è stata introiettata dagli anziani stessi, convinti che non possano essere utili alla società né attivi: questo non è frutto di un impoverimento cognitivo, ma di un’impressione del loro patrimonio intellettuale come detta la società. Occorre pertanto ribaltare questo modello. Oltre all’ageismo, vi è una vera e propria epidemia di solitudine: i paesi occidentali contano il 30% degli anziani afflitti da solitudine cronica e il 10% da una solitudine molto severa, che porta alla depressione e poi in alcuni casi proprio al suicidio. L’altro Paese più vecchio al mondo insieme all’Italia, il Giappone, ha computato 45mila persone che ogni anno muoiono in completo isolamento, tanto che sono state create squadre di “death cleaners” che si occupano di bonificare i luoghi in cui sono avvenute queste morti in solitudine”.

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di Rossella Gemma

Ibrutinib, primo inibitore della tirosin chinasi di Bruton (BTK) ad essere stato approvato a livello mondiale e sviluppato da Johnson & Johnson, ha recentemente ricevuto dall’agenzia italiana del farmaco, AIFA, la rimborsabilità per una nuova indicazione terapeutica. In particolare, il farmaco è ora disponibile anche in combinazione con venetoclax, inibitore di BCL-2, come nuovo trattamento a durata fissa - per un totale di 15 mesi - per pazienti adulti con leucemia linfatica cronica (CLL) precedentemente non trattata.

La leucemia linfatica cronica è la forma di leucemia più frequente tra gli adulti nei paesi occidentali e rappresenta il 30 per cento di tutte le forme di leucemia, che oggi colpiscono complessivamente 85.000 italiani.1 In Italia le stime parlano ogni anno di circa 1.600 nuovi casi tra gli uomini e 1.150 tra le donne.Si tratta di una malattia prevalentemente tipica nell’anziano, tuttavia, il 15 per cento dei casi viene diagnosticato prima dei 60 anni.2  

«L’arrivo di questa nuova combinazione a base di ibrutinib rappresenta un passo in avanti verso la personalizzazione dei trattamenti per la leucemia linfatica cronica. In particolare, questa nuova terapia combina due molecole che, grazie ai loro meccanismi d’azione, risultano tra le più efficaci tra quelle oggi a disposizione nella lotta alla leucemia linfatica cronica. In termini di efficacia, ad esempio, gli studi clinici hanno evidenziato come l’associazione di ibrutinib con venetoclax consenta un periodo libero da trattamento molto lungo, di quasi 5 anni, in 9 pazienti su 10. Oltre alla sua importanza in termini di efficacia, è importante sottolineare che si tratta del primo trattamento completamente orale, una volta al giorno, senza chemioterapia, a durata fissa per la CLL. Questo permette di non dover ricorrere a ricoveri o infusioni endovenose, migliorando la gestione della terapia sia per il paziente che per il medico», afferma Luca Laurenti, Professore associato presso l’Istituto di Ematologia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore.

L’efficacia di questa combinazione deriva dal meccanismo d’azione delle molecole che la compongono. Da un lato, ibrutinib blocca la BTK, una proteina che invia ai linfociti B “segnali” fondamentali per la maturazione e la produzione di anticorpi, alla base della proliferazione e della migrazione delle cellule tumorali in numerose neoplasie delle cellule B.Dall’altro, venetoclax è un potente inibitore selettivo del linfoma a cellule B (B-cell lymphoma, BCL)-2, una proteina anti-apoptotica che risulta sovraespressa nelle cellule di CLL, dove è responsabile della sopravvivenza delle cellule tumorali ed è stata associata a resistenza ai chemioterapici.4

«Ibrutinib è stato il primo inibitore della BTK impiegato nel trattamento della leucemia linfatica cronica. Dato il lungo tempo del suo impiego, sono oggi disponibili per questo inibitore, dati molto ‘robusti’ che si basano non solo sul più lungo follow-up registrato per questa classe di molecole, ma anche sul numero molto elevato di pazienti trattati in studi clinici, e soprattutto, nella pratica clinica. La grande esperienza clinica generata ha quindi prodotto una solida real-world evidence circa ibrutinib nella leucemia linfatica cronica. È importante notare che pazienti trattati con il solo ibrutinib in diversi studi clinici, dopo 8 anni di follow-up hanno mostrato una sopravvivenza stimata del tutto simile a quella di una popolazione sana di pari età. Inoltre, ibrutinib ha mostrato efficacia con risposte durature anche in pazienti con alterazioni genetiche prognosticamente sfavorevoli come la delezione e/o mutazione del gene TP53 e lo stato mutazionale IGHV non mutato. Un aspetto importante è rappresentato dalla possibilità di modulare la dose di ibrutinib in rapporto alla tollerabilità del paziente e all’insorgenza di eventi avversi senza che questo abbia un impatto significativo sulla sua efficacia a lungo termine», aggiunge Francesca Romana Mauro, Professore associato presso l’Istituto di Ematologia del Dipartimento di Medicina Traslazionale e di Precisione dell’Università Sapienza di Roma.

Da oggi ibrutinib è quindi rimborsato in Italia per il trattamento di pazienti adulti con: leucemia linfocitica cronica (LLC) precedentemente non trattata, in monoterapia e in combinazione con venetoclax; leucemia linfocitica cronica (LLC) che hanno ricevuto almeno una precedente terapia, in monoterapia; linfoma mantellare (MCL) recidivato o refrattario, in monoterapia; macroglobulinemia di Waldenström (WM) che hanno ricevuto almeno una precedente terapia, in monoterapia.

«Le nuove terapie, frutto dei progressi della ricerca scientifica, offrono oggi significative potenzialità, permettendo ai pazienti di migliorare la loro qualità e aspettativa di vita. Nell’epoca della personalizzazione delle cure dobbiamo promuovere un altrettanto innovativo rinnovamento del nostro Sistema Sanitario, che a volte rende difficile l’accesso alle terapie innovative e la completa presa in carico del paziente, non solo per gli aspetti strettamente clinici, particolarmente quando si parla di malattie croniche», sottolinea Davide Petruzzelli, Presidente La Lampada di Aladino Ets. «L’Associazione La Lampada di Aladino ETS è stata fondata nel 2000 da un gruppo di ex malati di cancro con la finalità di supportare i malati oncologici e i loro familiari durante la fase acuta e post-acuta di malattia. La nostra visione è orientata a supportare a 360° le persone che vivono con un tumore tanto che il nostro obiettivo non è curare il cancro, ma le persone che vivono l’esperienza del cancro».

D’accordo con la necessità di offrire un sostegno a tuttotondo ai pazienti e ai loro caregiver, oltre a terapie sempre più innovative, anche l’Associazione Italiana contro Leucemie, Linfomi e Mieloma. «L’Associazione Italiana contro leucemie, linfomi e mieloma da 55 anni è al fianco dei pazienti ematologici con l’obiettivo di sostenere la ricerca, l’assistenza e sensibilizzare l’opinione pubblica contro i tumori del sangue. Il nostro impegno quotidiano, attraverso l'opera delle 83 sezioni provinciali e delle migliaia di volontari in tutta Italia, è contribuire a curare al meglio i pazienti, migliorando la loro qualità e aspettativa di vita», dichiara Rosalba Barbieri, Vicepresidente nazionale Associazione Italiana contro Leucemie, Linfomi e Mieloma e Presidente sezione AIL di Novara. «AIL assiste i pazienti e le famiglie accompagnandoli in tutte le fasi del percorso di malattia, con servizi adeguati alle loro esigenze, come l'accoglienza presso le Case AIL, l'assistenza domiciliare, il servizio di navetta da e per i centri ematologici, il supporto psicologico e le attività di counselling».

L’efficacia e sicurezza di ibrutinib in combinazione con venetoclax sono state valutate in diversi studi clinici. Tra questi, lo studio GLOW che ha valutato il trattamento in prima linea a durata fissa di questa combinazione in pazienti over 65 con leucemia linfatica cronica non trattata. Questo studio ha mostrato benefici in termini di sopravvivenza e tempo al trattamento successivo ad un follow-up mediano di 5 anni, con tassi di sopravvivenza di oltre l’80 per cento rispetto alla chemio immunoterapia con clorambucile più obinutuzumab.5 Un altro importante studio è CAPTIVATE che ha utilizzato un regime a base di I+V simile a quello dello studio GLOW in pazienti con LLC di età pari o inferiore a 70 anni e ha mostrato remissioni profonde e valori di progressione libera da malattia clinicamente significativi.6

«Johnson & Johnson è un’azienda con forte heritage in ematologia, area in cui abbiamo lavorato tanto e a lungo per sviluppare delle soluzioni terapeutiche efficaci per i pazienti con tumori del sangue, a partire dal mieloma multiplo e arrivando alla leucemia linfatica cronica», conclude Alessandra Baldini, Direttrice medica Johnson & Johnson Innovative Medicine Italia. «Con il nostro impegno miriamo a migliorare non solo gli esiti clinici dei pazienti, ma anche la loro qualità di vita. In questa direzione vanno anche le terapie a base di ibrutinib che, grazie alla loro singola somministrazione orale giornaliera, migliorano l’aderenza alla terapia del paziente. Il valore di ibrutinib è stato ampiamente riconosciuto in questi anni dalla comunità scientifica e dai pazienti, al punto che nel 2021 è stato inserito dall’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) nella lista dei farmaci essenziali».

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di Rossella Gemma

La Società Italiana di Farmacologia - SIF - condivide la necessità di attenzionare l'uso improprio di Fentanyl e di altri oppioidi sintetici nel nostro Paese, e ritiene necessario sottolineare l’altrettanta priorità che il decisore politico strutturi un dialogo costante con i soggetti deputati allo studio delle sostanze e alla ricerca nel campo della farmacologia di base, applicata e clinica.

“L’attivazione di un Piano Nazionale che abbia come obiettivo quello di prevenire, intercettare e impedire l'accesso del Fentanyl e dei suoi analoghi in Italia, è assolutamente prioritario - dichiara il Presidente della SIF prof. Giuseppe Cirino - perché anticipa un problema che altrove è già una emergenza conclamata. Il sistema di prescrizione di oppioidi italiano è regolamentato in maniera stringente dalla legge 15 marzo 2010 n. 38, quindi un abuso di oppioidi come negli Stati Uniti è davvero poco probabile. Tuttavia, il rapporto OsMed del 2021 ha mostrato che in Italia le dosi di oppioidi si assestano a circa 8 dosi giornaliere per 1000 abitanti, contro le 20 che si registrano ad esempio in Austria e Germania” continua Cirino.

L’auspicio della Società Italiana di Farmacologia - SIF - è che si possa, dunque, strutturare una sinergia costante tra i tavoli di lavoro che si occupano di monitorare il ‘fenomeno’ dell’uso improprio del Fentanyl in Italia, tenendo conto che la Società Italiana di farmacologia ha al suo interno un Gruppo di lavoro “Dipendenze Patologiche”, costituito nel Febbraio 2013, che vanta tra i suoi iscritti esperti di fama mondiale le cui ricerche hanno contribuito in modo sostanziale alla conoscenza del fenomeno delle dipendenze, dei meccanismi d’azione sottesi e all’individuazione di strategie terapeutiche innovative. 

Già nel luglio dello scorso anno la SIF aveva pubblicato, su SifMagazine, un approfondimento sul tema delle dipendenze patologiche dal titolo “L’abuso di antidolorifici da prescrizione come la morfina e simili è solo un problema americano?” nel quale veniva sottolineato che il sistema di prescrizione di oppioidi italiano è regolamentato in maniera stringente dalla legge 15 marzo 2010 n. 38, quindi un abuso di oppioidi come negli Stati Uniti è davvero poco probabile, tuttavia non escluso.

 

Gli oppioidi sono delle sostanze di origine naturale (morfina, codeina, chiamati anche oppiacei), semisintetiche (eroina, ossicodone, idrocodone) o totalmente di sintesi (fentanyl) con un alto potenziale d’abuso. La molecola dalla quale derivano è la morfina, il principale alcaloide contenuto nell’oppio con effetto narcotico e analgesico. Gli oppioidi da prescrizione per la loro attività si configurano come gli antidolorifici più efficaci e potenti, ed in Italia i pazienti possono accedere a questi farmaci soprattutto tramite i centri per la terapia del dolore e con ricette speciali. Questa regolamentazione ferrea è giustificata dalla tolleranza, assuefazione e dipendenza che possono determinare. Da non sottovalutare una eventuale overdose, che provoca una grave depressione respiratoria, potenzialmente mortale.

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di Rossella Gemma

In occasione della Giornata Mondiale del Sonno che si celebra il 15 marzo di ogni anno, la Società Italiana di Diabetologia ricorda l’importanza della relazione tra un sonno di giusta durata e qualità e il rischio di sviluppare diabete di tipo2. Lo ricorda un recentissimo studio apparso su Nutrition & Diabetes che ha esaminato i dati di 41mila persone del database NANHES, selezionando le informazioni su tempo, frequenza e qualità del cibo consumato in orari notturni. Obiettivo: determinare se mangiare di notte si associa a diabete e mortalità. “Il momento in cui vengono consumati i pasti è più importante di quanto si pensi” spiega il Professor Angelo Avogaro, Presidente SID “consumare pasti notturni ad alto carico energetico espone a rischi maggiori. Quindi la scelta degli alimenti è una strategia per contrastare i rischi dell’alimentazione notturna, sia essa per abitudine che per necessità professionali come avviene nei lavoratori notturni o turnisti”. In Italia i lavoratori turnisti sono circa il 18% del totale.

Lo studio ha rilevato un aumento del rischio di mortalità più del doppio per diabete in quelli che cenano tra le 23 e mezzanotte. Nel gruppo ad alta intensità calorica il rischio di mortalità generica aumentava del 21%, mentre quella per diabete era quasi doppia.

Il corpo umano ha un suo orologio e si trova nel cervello. Questo orologio, un master clock centrale, sincronizza tutte le funzioni dell’organismo deprimendone o attivandone altre in funzione delle ore del giorno. L’orologio biologico è influenzato, ad esempio, dalla luce - Il master clock reagisce principalmente al segnale luminoso (ma non è in grado di distinguere tra luce naturale e artificiale). La luce viene colpita da specifici recettori presenti nella retina. Tra i segnali periferici, la melatonina è uno dei più noti. Ormone liposolubile prodotto dall’epifisi aumenta nelle ore notturne con un picco tra le 2 e le 4 del mattino influenzando il sonno, la temperatura e l’appetito. I ritmi di vita moderni, già con l’introduzione della luce elettrica che ha allungato i periodi di veglia nelle ore notturne, interferiscono con l’orologio biologico che è regolato sui ritmi naturali. 

I lavoratori turnisti notturni presentano un indice di massa corporea più elevato dei lavoratori diurni – “Il lavoro notturno determina una alterazione di numerosi profili metabolici con aumento dei trigliceridi, diminuzione del colesterolo ‘buono’, iperglicemia e aumento dell’emoglobina glicata“ prosegue Avogaro. “Valori che tornano alla normalità quando si sospende la turnazione giorno/notte. In alcuni studi si è visto come i lavoratori notturni, a parità di calorie totali, tendano ad assumere cibi meno salutari e ultra-processati, come junk food che aumentano il rischio di obesità e diabete”. 

Sonno: 5 ore per notte aumentano il rischio di diabete - Le relazioni tra sistemi biologici sono delicate e complesse. Uno studio recente ha rivelato che dormire 5 ore o meno aumenta il rischio di diabete di tipo 2 anche nelle persone con abitudini alimentari sane. I ricercatori dell’Università di Uppsala hanno scoperto che gli individui che dormivano in media 5 ore (su un campione di 2147 persone di età media 55 anni seguiti per 12.5 anni), e quelli che dormivano da 3 o 4 ore per notte avevano un rischio maggiore di sviluppare diabete di tipo 2 rispetto a quelli che dormivano tra 7 e 8 ore.

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di Rossella Gemma

Sono 800 milioni le persone nel mondo che convivono con l’obesità, e secondo le stime saranno 1,9 miliardi nel 2035, ovvero 1 persona su quattro, con un impatto economico stimato di 4,32 trilioni complessivamente sul pianeta a causa di sovrappeso e obesità. L’incremento stimato dell’obesità fra i bambini dal 2020 al 2035 è del 100 per cento. Sono questi i numeri allarmanti di un’emergenza globale, che impatta fortemente anche nel nostro Paese, portati oggi all’attenzione di tutti in occasione della World Obesity Day, che ricorre ogni anno il 4 marzo. Un’emergenza alla quale vuole rispondere, individuando una roadmap virtuosa di obiettivi fondamentali, il “Manifesto per il contrasto all’obesità, come malattia cronica da affrontare in maniera sinergica multidisciplinare e olistica, libera da pregiudizi, stigma e discriminazione”, realizzato dall’Italian Obesity Network e sottoscritto da oltre 20 organizzazioni rappresentative del mondo medico-scientifico, delle istituzioni e dei pazienti. Il Manifesto viene presentato oggi presso il Senato della Repubblica in un evento che si svolge su iniziativa della Sen. Daniela Sbrollini, in collaborazione con l'Intergruppo parlamentare Obesità, diabete e malattie croniche non trasmissibili.

La Giornata Mondiale dell'Obesità (World Obesity Day), istituita nel 2015 dalla World Obesity Federation, ricorre in tutto il mondo, coinvolgendo organizzazioni, associazioni e individui, con l’obiettivo ambizioso di invertire la crisi globale dell'obesità. La giornata ha lo scopo di sensibilizzare cittadini e istituzioni e di incoraggiare la prevenzione dell’obesità, evitando discriminazioni, pregiudizi e l’uso di un linguaggio stereotipato e stigmatizzante sulle persone che vivono con l'obesità. “Parliamo dell’obesità e…” (“Let’s Talk About Obesity and...”) è il tema a cui è dedicata la Giornata di quest’anno, le cui iniziative italiane sono state presentate il 29 febbraio in una conferenza stampa svoltasi su iniziativa dell’On. Roberto Pella presso la Camera dei Deputati. L’obesità è una complessa interazione di diversi fattori, che riguarda persone diverse, in paesi e culture diverse. Una strategia universale per ogni persona non sarà mai la soluzione. Ecco perché la Giornata mondiale dell’obesità di quest’anno vuole aprire un dibattito più ampio. L’obiettivo è quello di avviare conversazioni trasversali, guardare alla salute, ai giovani e al mondo che ci circonda, condividere conoscenze, guardare l'obesità da prospettive diverse.

L’obesità è un’emergenza che riguarda, come il mondo, anche il nostro Paese. Secondo i dati Istat presentati lo scorso ottobre durante il quinto Italian Obesity Barometer Summit, in Italia nel 2022 la percentuale di adulti con sovrappeso e obesità, pari al 46,3 per cento, è tornata ai livelli pre-pandemia, durante la quale si era raggiunto il picco del 47,6 per cento. Tuttavia, è solo il numero di persone con sovrappeso che è sceso, tanto che quello delle persone con obesità è passato dal 10,9 per cento del 2019 all’11,4 per cento nel 2022, con un picco del 12 per cento nel 2021. Solo il 17,2 per cento della popolazione di 3 anni e più in Italia dichiara di consumare almeno 4 o più porzioni di frutta o verdura al giorno. Oltre 21 milioni di persone, ovvero il 37,2 per cento della popolazione di 3 anni e più, dichiarano di non praticare né sport né attività fisica nel tempo libero, con marcate differenze di genere: è sedentario il 40,6 per cento delle donne contro il 33,6 per cento degli uomini. Il 59,1 per cento delle madri di bambini fisicamente poco attivi ritiene che il proprio figlio svolga attività fisica adeguata.

Il Manifesto 2024 dell’Italian Obesity Network è un aggiornamento del precedente approvato e sottoscritto nel 2018, che intende rinnovare lo stimolo a identificare una roadmap virtuosa finalizzata al raggiungimento di quattro obiettivi principali:

1. Dare priorità all’obesità come malattia non trasmissibile (NCD), ovvero ottenere l’inclusione governativa e parlamentare e del sistema sanitario dell’obesità come malattia cronica non trasmissibile (NCD) a sé stante;

2. Costruire l’alfabetizzazione sanitaria, ovvero costruire la consapevolezza pubblica e politica delle complessità che ha l’obesità lungo il corso della vita della persona, per combattere la discriminazione e lo stigma sociale ed istituzionale e consentire un processo decisionale più informato e consapevole.

3. Ottimizzare le strategie di prevenzione, ovvero garantire che i governi diano priorità alla raccolta di dati, alla generazione di prove e alle risorse necessarie per fornire azioni che contribuiscano efficacemente a prevenire o ridurre i fattori di rischio chiave per l’obesità.

4. Migliorare i servizi alla persona con obesità, ovvero garantire che le persone che vivono con o sono a rischio di obesità abbiano accesso a servizi sanitari adeguati lungo il corso della loro vita e a un supporto che sia privo di pregiudizi.

Il White Paper “The Need for a Strategic, System-wide Approach to Obesity Care”, che viene pubblicato da OPEN, Obesity Policy Engagement Network, sempre in occasione di questa Giornata Mondiale, e che viene presentato oggi in Senato, evidenzia gli ostacoli alla diagnosi, al trattamento e alla gestione dell’obesità, le lacune che permangono rispetto a questa malattia nell’alfabetizzazione sanitaria, nonché la carenza di ricerca e di finanziamenti. Il White Paper sottolinea alcune azioni necessarie prioritarie: colmare le attuali lacune nell'istruzione e nella ricerca per promuovere interventi politici adeguati e linee guida standardizzate sulla gestione dell'obesità; promuovere una più ampia consapevolezza sulle cause e sull’impatto dell'obesità per ridurre i pregiudizi e lo stigma; dare priorità agli interventi che affrontano i fattori sottostanti (biologici, genetici, ambientali, psicologici e socioeconomici) che contribuiscono allo sviluppo e alla persistenza dell'obesità; condurre analisi dei costi nazionali per misurare il peso economico della cura dell'obesità, affinché i governi possano attingere a questi dati per implementare nuove opzioni politiche e modificare le strategie esistenti per affrontare questa malattia.

«L’obesità, in termini di impatto clinico e di spesa medica per il trattamento delle malattie che ne derivano, costituisce una sfida che, se non adeguatamente affrontata, finirà per condizionare le generazioni future con importanti conseguenze negative sul sistema sanitario e sulla nostra società tutta», dichiara il Prof. Rocco Barazzoni, Presidente della Società Italiana dell’Obesità, «È giunto il momento di mettere in atto soluzioni di politica sanitaria e di governance clinica che siano in grado di dare risposte concrete alle persone con obesità e soprattutto che coinvolgano e siano disponibili per l’intera popolazione, al fine di aumentare il supporto e diminuire le disuguaglianze di accesso alle cure sul territorio».

«Nella lotta all’obesità, il contrasto allo stigma sociale costituisce un obiettivo prioritario, accanto alle politiche di prevenzione e agli interventi mirati su alimentazione e sport», dichiara Giuseppe Fatati, Presidente Italian Obesity Network. «Occorre un approccio multidisciplinare, di cui la lotta allo stigma sia parte centrale, per far sì che sia considerata da parte dei governi, dei sistemi sanitari e delle stesse persone con obesità, come già fatto dalla comunità scientifica, una malattia cronica che richiede una gestione di lungo termine, e non una responsabilità del singolo. Questo potrebbe contribuire in modo decisivo a ridurre la disapprovazione sociale e gli episodi di discriminazione verso chi ne è affetto, oltre a incidere sulle cure e sui trattamenti per l’obesità».

«Desidero sottolineare l'importanza cruciale di riconoscere l'obesità come una vera e propria malattia cronica che richiede non solo un'attenzione clinica particolare, ma anche un intervento coordinato sia a livello nazionale che internazionale», dichiara il Prof. Angelo Avogaro, Presidente Società Italiana di Diabetologia, «L'obesità non è semplicemente una questione di scelte individuali o di stile di vita; è il risultato di una complessa interazione di fattori genetici, ambientali e sociali. L'obesità è anche un potente fattore di rischio per lo sviluppo di numerose altre condizioni, tra cui le malattie cardiovascolari, il diabete di tipo 2, diverse forme di cancro, e disturbi muscolo-scheletrici. Questo la rende non solo una questione di salute pubblica di primaria importanza, ma anche una sfida sociale ed economica significativa, con impatti profondi sul sistema sanitario, sulla produttività e sulla qualità della vita degli individui. Una letteratura ormai consolidata indica che una riduzione del 5 per cento del peso diminuisce il rischio di diabete del 40 per cento con un miglioramento clinico significativo dell'emoglobina glicata e della pressione arteriosa. Perdite di peso anche moderate hanno migliorato, non solo i più comuni fattori di rischio, ma anche esiti di malattia come steatosi epatica e apnee notturne nelle persone con diabete di tipo 2».

 

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di Rossella Gemma

Presto il glucagone nasale, farmaco per il trattamento dell’ipoglicemia severa, tornerà erogato nelle farmacie in forma gratuita per tutti i diabetici di tipo 1. Rassicurazioni in tal senso sono state fornite a Emilio Augusto Benini, Presidente di Fand - Associazione Italiana Diabetici, da Jacob Liawatidewi, amministratore aziendale di Amphastar, che ha rilevato il prezioso farmaco salvavita da Eli Lilly. L’associazione delle persone con diabete Fand, da subito si era attivata per avere un rapporto diretto con la nuova azienda e cercare insieme la miglior soluzione.

Oggi, l’azienda risponde a Fand che il 16 febbraio è stata ricevuta l'approvazione dalla Commissione europea per il trasferimento dell'autorizzazione all'immissione in commercio del farmaco da Eli Lilly ad Amphastar France. L’azienda specifica nella risposta a Fand che sta al momento aspettando la decisione dell'Aifa sulla valutazione del fascicolo relativo al farmaco, che si spera porterà alla sua riclassificazione in classe A.

L’Aifa con determinazione del 10 ottobre 2023 (pubblicata sulla Gazzetta ufficiale del 23 ottobre) ha disposto il ritorno del farmaco in classe C, ossia a pagamento, dopo che negli ultimi 2 anni era posizionato in fascia A (rimborsabile). Una procedura questa che si è resa necessaria, con grave disagio per molti pazienti, in quanto l’azienda produttrice del glucagone spray nasale (Eli Lilly azienda leader nella produzione di insulina e non solo), nell’aprile 2023 ha venduto questo farmaco ad Amphastar Pharmaceuticals, Inc, un’azienda focalizzata sullo sviluppo, produzione e commercializzazione di prodotti iniettabili, intranasali e per inalazione. La nuova azienda produttrice Amphastar, non avendo al momento una sede in Italia, non ha potuto procedere alla rinegoziazione del prezzo con Aifa, che si è vista costretta a riposizionare il glucagone spray nasale in fascia C.

«La Fand dopo le prime interlocuzioni, attraverso i suoi rappresentanti in ogni Regione, si era attivata per non lasciare i pazienti senza la possibilità di avere il prezioso farmaco», dichiara il Presidente Fand Emilio Augusto Benini, «Ora che l’azienda ha comunicato i diversi passaggi che sta svolgendo, in Europa e in Italia, si concretizzano ulteriormente le possibilità che presto si possa ritornare a una erogazione gratuita in tutto il territorio nazionale, per tutte le persone con diabete che ne hanno bisogno».

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di Rossella Gemma

L’IRCCS di Negrar “fa scuola” in Italia e nel mondo: dopo solo un anno dalla certificazione di centro qualificato, raggiunge un ulteriore e prestigioso traguardo nell’applicazione del protocollo chirurgico ERAS (Enhanced Recovery After Surgery), un percorso di cure che ha come obiettivo la migliore e più rapida ripresa del paziente dopo l’intervento. Il Dipartimento di Chirurgia Generale ha infatti ricevuto la certificazione internazionale di centro formatore ERAS (ERAS® Training Center) per la chirurgia colo-rettale e bariatrica, che consente alle componenti delle due equipe chirurgiche di formare altri centri europei ed italiani in merito all’applicazione e implementazione del protocollo ERAS che, grazie all’adozione di percorsi-pazienti virtuosi e specifiche tecniche chirurgiche ed anestesiologiche nelle varie fasi peri-operatorie permette di abbattere le complicanze e quindi la durata del ricovero.  

“Grazie ad Eras, all’IRCCS di Negrar, infatti, la degenza media è passata da 8,5 giorni a 4,6 per quanto riguarda la chirurgia colo-rettale, mentre per quella bariatrica la media attuale è di 2 giorni contro i 4 prima dell’applicazione del protocollo - afferma il dottor Giacomo Ruffo, direttore della Chirurgia Generale -. In calo significativo anche le complicanze post-intervento che sono passate dal 33 al 19,5%. Rilevanti anche i dati relativi al dolore e alla nausea dopo l’operazione, il cui controllo è fondamentale per la ripresa della mobilizzazione e dell’alimentazione precoci: si è passati rispettivamente dal 12% al 2% e dal 4% all’1,5%”.

“La certificazione di centro formatore è il risultato di un lavoro complesso di più specialisti, non solo chirurghi, che ha portato ad un’adesione al protocollo superiore al 95%, grazie alla quale sono stati ottenuti significativi miglioramenti a vantaggio di tutti i pazienti, ma in particolare per quelli fragili e per coloro che subiscono interventi ad alta complessità – continua Ruffo -. Il prossimo obiettivo è il riconoscimento di centro di eccellenza, di cui si avvalgono una trentina di ospedali in tutto il mondo, raggiungibile con il mantenimento dei risultati ottenuti e implementando ulteriormente il protocollo Eras con percorsi virtuosi, come l’attivazione di un centro antifumo e un percorso peri-operatorio per il paziente anziano”.

Il protocollo Eras è stato adottato ufficialmente dalla chirurgia colo-rettale nel settembre 2021, quando sono stati inseriti i primi pazienti aderenti al percorso sulla piattaforma mondiale della società scientifica. Oggi i pazienti sono 713, ai quali si aggiungono i 228 della chirurgia bariatrica, che ha iniziato il percorso nel 2021. 

“Secondo Eras il miglior recupero dopo l’intervento è raggiungibile solo se in ognuna delle tre fasi del protocollo vengono rispettate specifiche linee guida. Di fondamentale imporanza è la fase pre-operatoria che si basa sulla preparazione ottimale del paziente attraverso un piano nutrizionale e un percoso di preabilitazione appositamente creati dal nutrizionista e dal fisiatra – spiega la dottoressa Elisa Bertocchi, chirurgo colo-rettale -. Diagnosticate eventuali carenze, viene integrata l’alimentazione con specifici integratori e in caso di anemia, cercata e corretta la causa della stessa”. 

La fase operatoria non si limita alla chirurgia mini-invasiva, ma a una serie di procedure anestesiologiche, come la somministrazione di pochi liquidi e l’uso limitato di farmaci oppioidi. “Dalla sala operatoria il paziente esce privo di cateteri e drenaggi, e già nelle ore successive inizia a bere, ad alimentarsi e a muoversi anche grazie a terapie per il controllo del dolore e della nausea – prosegue -. Tutto questo richiede collaborazione da parte dell’équipe multispecialistica e l’adesione attiva e consapevole da parte del paziente a tutto il percorso. Adesione supportata da una un’APP (IColon) che stimola continuamente il paziente ad essere aderente al protocollo e che rappresenta una sorta di diario digitale che consente al medico di monitorare a distanza il paziente dopo le dimissioni e al paziente di rimanere sempre in contatto con il medico”.

“Nella chirurgia bariatrica, ERAS facilita la gestione del paziente, molto spesso giovane e con l’esigenza di tornare al più presto alle attività quotidiane – afferma la dottoressa Irene Gentile, chirurgo bariatrico -. Inoltre, il coinvolgimento attivo è ancora più importante per il paziente affetto da obesità grave per quanto riguarda l’aspetto dell’alimentazione e dell’attività fisica: il calo ponderale è fondamentale sia per la candidabilità all’intervento sia per la buona riuscita dello stesso”.