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di Rossella Gemma
Tra pochi giorni oltre 8 milioni di bambini e ragazzi torneranno sui banchi di scuola e riprenderanno le normali attività quotidiane: come aiutarli ad affrontare al meglio il rientro? Secondo i Pediatri di Famiglia della Federazione Italiana Medici Pediatri (FIMP) grande attenzione va riservata alla qualità e durata del sonno, all’alimentazione e alla condivisione di quality time in famiglia.
Dormire il giusto numero di ore e bene è fondamentale per ripristinare l’energia, migliorare l’umore e avere una buona concentrazione in classe e durante lo svolgimento di altre attività come fare sport o dedicarsi a un hobby. Per questo, non bisogna sottovalutare gli effetti negativi della privazione dal sonno sull’organismo e l’importanza della regolarità nell’andare a dormire e nello svegliarsi.
“Con la scuola alle porte, è tempo per bambini e ragazzi di riprendere i ritmi sonno-veglia pre-estivi”, spiega Giuseppe Di Mauro, Segretario Nazionale FIMP per le Attività Scientifiche ed Etiche. “Il consiglio per i genitori è di anticipare la sveglia nei giorni che precedono il rientro a scuola, impostandola sull’orario di inizio delle lezioni, e prestare attenzione all’orario di addormentamento, puntando a creare una routine che possa equilibrare il riposo dei propri figli. Inoltre, dovrebbe essere vietato l’utilizzo di dispositivi come smartphone o tablet prima di andare a dormire. È ampiamente dimostrato che l’esposizione alla luce blu inibisca il processo di produzione della melatonina determinando difficoltà ad addormentarsi e una cattiva qualità del sonno. Infine, è bene ricordare che più il bambino è piccolo, più ha bisogno di dormire: si raccomandano 10-13 ore di sonno tra 3-5 anni, 9-11 ore nella fascia d’età 6-13 anni e non meno di 8-9 ore per i ragazzi tra i 14-17 anni”.
Ripristinare le corrette abitudini alimentari è altrettanto importante per aiutare bambini e ragazzi ad affrontare gli impegni scolastici e sportivi nelle migliori condizioni psico-fisiche. “È opportuno dedicare particolare attenzione alla colazione che costituisce il pasto più importante della giornata e, come tale, deve fornire il giusto apporto di tutti quegli elementi - carboidrati, proteine, vitamine e grassi - che contribuiscono a dare energia e favoriscono la concentrazione durante l’arco della giornata - aggiunge Di Mauro. Più in generale, un’alimentazione regolare deve prevedere cinque pasti al giorno (colazione, spuntino di metà mattino, pranzo, merenda e cena), preparati secondo i principi della Dieta Mediterranea, e gli orari dei pasti devono pian piano allinearsi con quelli che accompagnano la routine scolastica”.
Da non trascurare anche l’impatto positivo che piccoli momenti di condivisione in famiglia possono avere sui più piccoli: un suggerimento è quello di sfruttare la colazione come occasione di incontro per tutta la famiglia, prima di immergersi ognuno nei propri impegni quotidiani. Un ulteriore consiglio dei pediatri per preparare i ragazzi al ritorno a scuola e alleviare lo stress che questo può generare, è coinvolgerli in prima persona nell’acquisto dei materiali necessari per la ripresa delle attività scolastiche come zaino, quaderni, diario, libri.
“Come Pediatri di Famiglia, è per noi molto importante guidare i genitori nell’impostazione di una corretta routine con i propri figli, e aiutarli a creare armonia all’interno del nucleo familiare soprattutto in un momento ‘critico’ come quello del ritorno a scuola che coincide con un maggior carico di lavoro e di stress per i genitori”, commenta Antonio D’Avino, Presidente Nazionale FIMP. “In un’epoca di grandi trasformazioni dei modelli familiari, è importante costruire abitudini di vita quotidiana in grado di esercitare benefici diretti sulla salute fisica e psicologica di tutta la famiglia. Fa parte di questo percorso la condivisione di semplici ma essenziali regole per una crescita in salute come mangiare in maniera equilibrata, riposare in modo adeguato e avere uno stile di vita attivo attraverso lo sport o altre attività che tengano allenati la mente e il corpo”.
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di Rossella Gemma
Le tecnologie immersive e l’intelligenza artificiale saranno le armi del futuro contro il tumore del colon-retto, che con 48.000 nuovi casi l’anno è il secondo tumore più frequente nel nostro Paese e anche il secondo fra i più letali con oltre 21.000 decessi l’anno (dato Fondazione Veronesi). Ma anche per le neoplasie localmente più avanzate la chirurgia, trova comunque indicazione come cura e la percentuale di sopravvivenza dopo 5 anni è di oltre il 60%, grazie ai programmi di screening, e all’evolversi delle tecniche chirurgiche con il supporto delle nuove tecnologie. Per affrontare il tumore del colon-retto, che colpisce l’ultimo tratto dell’apparato digerente e gastrointestinale, i chirurghi si affidano e si affideranno sempre più spesso al digitale. A sottolinearlo i massimi chirurghi europei e italiani, riuniti per il congresso Internazionale di chirurgia oncologica del retto organizzato dalla Chirurgia Generale dell’IRCCS Sacro Cuore Don Calabria di Negrar, diretta dal dottor Giacomo Ruffo, concluso di recente a Verona. Gli esperti hanno spiegato che l’intelligenza artificiale può guidare la scelta degli interventi, la realtà aumentata può renderli più efficaci e il metaverso può migliorare la formazione dei chirurghi ma anche aumentare la qualità degli interventi e l’accesso dei pazienti alle cure.
“L’intelligenza artificiale può essere applicata alla chirurgia del colon-retto in varie fasi prima, durante e dopo gli interventi – spiega il dottor Giacomo Ruffo, direttore della Chirurgia Generale dell’IRCCS Negrar – Per esempio, può essere utile alla formazione dei chirurghi attraverso l’impiego di assistenti virtuali che possono affiancare i medici fornendo materiali didattici o anche utilizzando tecnologie di realtà aumentata che possano progettare scenari clinici per simulazioni chirurgiche che integrino immagini mediche e cartelle cliniche elettroniche. Un esempio è la radiomica in cui le immagini diagnostiche vengono analizzate dall’intelligenza artificiale che è in grado di elaborare una quantità enorme di dati prodotti da Tac e risonanza magnetica. Ciò consente di ricavare informazioni in grado di predire se un tumore possa rispondere con successo o meno a una determinata terapia, permettendo al paziente di accedere da subito al trattamento più indicato.L’analisi avanzata dei dati clinici con metodologie di intelligenza artificiale - aggiunge l’esperto - migliora la chirurgia del colon retto, riducendo per esempio il tasso di incidenza delle complicanze post-operatorie fino al 6%”.
L'intelligenza artificiale sta diventando uno strumento sempre più importante anche in chirurgia e i modelli predittivi e le applicazioni intraoperatorie stanno aprendo la strada verso una chirurgia personalizzata, sempre più spesso anche grazie all’impiego dei robot. Il progetto SARAS (Smart Autonomous Robotic Assistant Surgeon) dell’Unione europea, per esempio, sta sviluppando la prossima generazione di sistemi robotici chirurgici che consentiranno a un singolo chirurgo di eseguire la chirurgia robotica minimamente invasiva senza la necessità di un assistente chirurgo esperto. Già oggi la chirurgia robotica, con 1,5 milioni di procedure nel mondo, è ampiamente utilizzata ma i tassi di crescita medi sono del 17% annui: gli algoritmi di intelligenza artificiale sono parte fondamentale dello sviluppo della robotica perché aiutano a riconoscere tessuti sani e malati con una maggiore accuratezza e aiuteranno a rendere la robotica sempre più accurata e riproducibile, dando ai chirurghi ‘super-abilità’ nello svolgere i loro compiti.
Senza contare le prospettive possibili grazie all’arrivo del metaverso in sala operatoria: “Con i visori dedicati che permettono di immergersi nel metaverso virtuale tridimensionale, per esempio, è possibile connettersi e condividere contenuti da qualunque parte del mondo per abbattere le barriere di distanza, consentendo quindi una maggiore equità di accesso alle cure ai pazienti che vivono anche nelle aree più remote, distanti dagli ospedali e dai centri di riferimento – osserva Ruffo - I chirurghi nel metaverso possono poi ‘allenarsi’ su modelli virtuali specifici realizzati a partire dai dati anatomici e clinici del singolo caso, migliorando così le loro competenze senza mettere a rischio la sicurezza del paziente ma soprattutto l’accuratezza diagnostica e la qualità chirurgica; la realtà aumentata già oggi sta mostrando, sebbene su casistiche limitate, una buona capacità di miglioramento degli esiti oncologici grazie a una maggiore personalizzazione dell’intervento, all’ottimale visione tridimensionale, a un miglioramento considerevole della formazione chirurgica e può perfino, se utilizzata con i pazienti nel preoperatorio, ridurre l’ansia preoperatoria. Il metaverso potrà anche ridurre i costi di erogazione delle cure, di formazione medica e di gestione dei dati, creando anche nuove opportunità di archiviazione, condivisione e accesso ai dati stessi, ma sarà anche una preziosa occasione di prevenzione”.
Nel 2022 la Società Coreana di Colonproctologia per esempio ha avviato una campagna di sensibilizzazione sul tumore del colon-retto attraverso una piattaforma nel metaverso, rivolta ai più giovani per aumentare la loro consapevolezza sul tumore. “Un obiettivo importante, visto che l’incidenza di questo tumore aumenta di circa il 2% all'anno negli individui di età pari o inferiore a 50 anni, soprattutto nelle donne, e dell'1% all'anno in quelli di età compresa tra 50 e 64 anni, mentre diminuisce in quelli di età pari o superiore a 65 anni. I pazienti con insorgenza precoce hanno anche più spesso una malattia avanzata, il 27% ha metastasi a distanza rispetto al 21% dei pazienti più anziani: fare informazione, sfruttando anche canali digitali come il metaverso più utilizzati dalle fasce d’età più giovani, è perciò utile e necessario. Naturalmente la tecnologia resta al servizio del chirurgo al quale non può mai sostituirsi e cui spetta sempre l’interpretazione delle informazioni ricevute dai vari supporti tecnologici” conclude il dottor Ruffo.
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di Rossella Gemma
Può essere genetica o l’effetto collaterale di un intervento chirurgico, l’accumulo patologico di liquido linfatico nei tessuti può dipendere da diverse cause. Il linfedema, infatti, non è altro che la formazione di ingorghi in uno o più punti delle “autostrade linfatiche” che attraversano il nostro corpo e che possono causare gonfiore a mani, braccia e gambe. Talvolta il gonfiore è così grave da portare ad “arti d'elefanti”, dolorosi e ingombranti che rendono difficoltosa una qualsiasi azione semplice, come vestirsi o lavarsi. Si tratta di una patologia in drammatico aumento. Si stima che nel mondo siano 350 milioni le persone con lifedema, 2 milioni solo in Italia. Numeri in forte crescita, nel nostro Paese circa 40mila in più all’anno. La buona notizia è che il linfedema può essere curato e addirittura prevenuto. Con specifici test genetici e la scintigrafia linfatica è infatti possibile mappare il rischio che si formino linfedemi e quindi si ha la possibilità di giocare d’anticipo. Questi saranno alcuni dei temi al centro del 29esimo Congresso Mondiale dell’International Society of Lymphology, che si terrà a Genova dall'11 al 15 settembre. Con oltre 100 relatori provenienti da tutto il mondo, nell’ambito dell’evento si terranno, convegni, corsi di aggiornamento e formazione dedicati in generale alla “Best Clinical Practice”, oltre a corsi specifici di aggiornamento tecnologico in campo medico, fisico e chirurgico per le patologie linfatiche di vario tipo, comprese le malattie rare su base malformativa, le malattie oncologiche e le complicanze linfatiche del trattamento dei tumori maligni, con le importanti implicazioni clinico-terapeutiche di tipo preventivo. Saranno inoltre trattate le patologie linfatiche distrettuali, non solo degli arti, ma anche dell’addome (vasi linfatici chiliferi) e del torace (dotto toracico). Al centro del congresso mondiale anche il lipoma o il flebolinfedema.
“Il convegno prenderà in esame le novità tecnologiche relative alle procedure di ‘imaging’ adottate per la diagnosi ed il trattamento medico, fisico e chirurgico delle malattie linfatiche, nonché i progressi raggiunti nella strumentazione relativa all’impiego del microscopio operatorio e dello strumentario microchirurgico, comprese le nuove tecniche di liposuzione per la patologia linfatica”, afferma Corrado Campisi, presidente del Congresso Mondiale di Linfologia e docente di Chirurgia Plastica all'Università di Catania -. Faremo il punto sui geni associati alle patologie linfatiche e che sono all'origine di sindromi rare e della predisposizione a deficit linfatici. Con la scintigrafia linfatica e le nuove applicazioni della linfografia a fluorescenza possiamo inoltre mappare specifiche sedi cruciali e ottenere informazioni preziose in vista di un intervento chirurgico. Ad esempio, se a un paziente oncologico viene raccomandata la rimozione chirurgica di un linfonodo ‘sospetto’ o in via preventiva, con la mappa delle 'autostrade linfatiche' è possibile prevedere il rischio di insorgenza di linfedema e, quindi, suggerire alternative più sicure o interventi terapeutici preventivi”.
Sessioni specifiche verranno dedicate alle tecniche chirurgiche mini-invasive e all’uso di trattamenti a base di onde d’urto capaci di “sciogliere” gli ingorghi più duri e rendere il lavoro con il bisturi più semplice e più efficace. Tra le finalità del Congresso c’è anche quella offrire una panoramica mondiale della Linfologia Clinica, con l’aggiornamento biennale, in particolare, del “Consensus Document” della Società Internazionale di Linfologia sulla Diagnosi e la Terapia del Linfedema, che rappresenta l’espressione epidemiologicamente, socialmente e clinicamente più rilevante nell’ambito delle malattie linfatiche.
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di Rossella Gemma
Il rischio di infarto e ictus in età adulta è strettamente correlato al tempo trascorso da sedentari durante l’infanzia. Uno studio condotto dall’Università della Finlandia orientale ha rivelato che le ore di inattività fisica accumulate da bambini sono legate a danni cardiaci osservabili in età adulta, anche in soggetti con peso e pressione sanguigna normali. “Questo significa che trascorrere troppo tempo seduti da piccoli, magari davanti lo schermo di uno smartphone o di un tablet, può arrivare a raddoppiare il rischio di avere un infarto o un ictus da adulti”, sottolinea Pasquale Perrone Filardi, presidente della Società Italiana di Cardiologia (SIC), professore ordinario di Cardiologia e direttore della Scuola di Specializzazione in Malattie dell’Apparato Cardiovascolare all’Università di Napoli Federico II. I risultati dello studio verranno presentati in occasione del congresso annuale dell’European Society of Cardiology che si terrà ad Amsterdam dal 25 al 28 agosto.
In Italia la sedentarietà è una vera e propria emergenza giovanile. Secondo i dati Istati sarebbero circa 2 milioni i bambini che nel nostro paese non praticano sport e né attività fisica. I dati del sistema di sorveglianza Okkio alla Salute mostrano che, nel 2019, il 20,3% dei bambini non ha svolto alcuna attività fisica il giorno precedente l’indagine; il 43,5% ha ancora la TV nella propria camera da letto e il 44,5% trascorre più di 2 ore al giorno davanti a tv, tablet e cellulare. “Nel nuovo studio i ricercatori hanno rilevato che l’eccessiva sedentarietà, oggi molto diffusa nei bambini e negli adolescenti, appesantisce letteralmente il cuore - spiega Perrone Filardi -. Studi precedenti condotti su adulti hanno dimostrato che un cuore più pesante da adulti aumenta le probabilità di infarto e ictus. I bambini e gli adolescenti quindi dovrebbero muoversi di più per proteggere la loro salute cardiaca futura”.
Lo studio è parte del progetto Children of the 90s dell’Università di Bristol, iniziato nel 1990/1991 ed è il primo ad aver indagato l’effetto cumulativo del tempo sedentario valutato attraverso l’utilizzo di smartwatch. In totale sono stati coinvolti 766 bambini, di cui il 55% erano femmine e il 45% maschi. All’età di 11 anni, ai partecipanti è stato fatto indossare per sette giorni uno smartwatch per tracciarne le attività. La stessa cosa è stata ripetuta poi a 15 anni e di nuovo a 24 anni. I ricercatori hanno misurato il peso del ventricolo sinistro del cuore mediante ecocardiografia a 17 e 24 anni di età e i valori sono stati riportati in grammi rispetto all'altezza. In questo modo è stato possibile analizzare l’associazione tra il tempo sedentario tra gli 11 e i 24 anni e le misurazioni del cuore tra i 17 e i 24 anni, tenuto conto anche di altri fattori come età, sesso, pressione sanguigna, grasso corporeo, fumo, attività fisica e status socioeconomico. I dati indicano che a 11 anni i bambini erano sedentari per una media di 362 minuti al giorno, salita a 474 minuti al dì nell’adolescenza (15 anni) e a 531 minuti al giorno in giovane età adulta (24 anni). “Ciò significa che il tempo trascorso in modo sedentario è aumentato in media di 169 minuti (2,8 ore) al giorno tra l’infanzia e la prima età adulta – afferma Ciro Indolfi, past president della SIC -. I risultati dello studio mostrano che ogni minuto di tempo trascorso in modo sedentario dagli 11 ai 24 anni di età è associato ad un aumento di 0,004 grammi rispetto all'altezza (g/m 2) della massa ventricolare sinistra tra i 17 e i 24 anni di età. Se moltiplicato per 169 minuti di inattività aggiuntiva si arriva a un aumento giornaliero di 0,7 g/m 2, l'equivalente di un aumento di 3 grammi della massa ventricolare sinistra tra le misurazioni ecocardiografiche all’aumento di altezza medio”. Uno studio precedente sugli adulti aveva rilevato che un aumento simile della massa ventricolare sinistra in un periodo di sette anni è associato a un rischio raddoppiato di malattie cardiache, ictus e morte.
“Nello studio i bambini sono risultati sedentari per più di sei ore al giorno e questo numero è aumentato di quasi tre ore al giorno fino al raggiungimento dell’età adulta – concludono Perrone Filardi e Indolfi -. I risultati della ricerca indicano che l’accumulo di tempo inattivo è correlato al danno cardiaco indipendentemente dal peso corporeo e dalla pressione sanguigna. I genitori dovrebbero quindi incoraggiare i bambini e gli adolescenti a muoversi di più e a limitare il tempo trascorso sui social media e sui videogiochi. Perché il modo in cui si trascorrono le giornate da piccoli può influenzare in maniera determinante la salute cardiaca futura”.
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di Rossella Gemma
Perdere peso con l’aiuto della chirurgia bariatrica può avere un impatto importante anche sul rischio di ammalarsi e di morire di tumore. Uno studio condotto dall’Università dello Utah, a Salt Lake City (Usa), pubblicato oggi sulla rivista Obesity, ha infatti dimostrato che i pazienti con obesità grave sottoposti all’intervento chirurgico hanno un rischio inferiore del 25% di sviluppare tumori, compresi quelli non correlati all’obesità. Le donne sottoposte all’intervento hanno addirittura un rischio inferiore del 41% di sviluppare tumori correlati all’obesità. Lo studio ha anche dimostrato che le donne che hanno perso peso grazie al bisturi hanno un rischio più basso del 47% di morire per cancro, rispetto alle donne obese non sottoposte a chirurgia. I molteplici vantaggi della chirurgia bariatrica saranno al centro della 26esima edizione del congresso mondiale dell’International Federation for the Surgery of Obesity and Metabolic Disorders (IFSO), che si svolgerà a Napoli dal 30 agosto al 1° settembre, sotto la guida del presidente mondiale, l’italiano Luigi Angrisani, professore associato in Chirurgia Generale all’Università Federico II Napoli.
“Sebbene ci siano numerosi studi che hanno già stabilito un’associazione positiva tra l’indice di massa corporea e l'incidenza del cancro, fino ad oggi non era esattamente chiaro se la riduzione del peso corporeo tramite chirurgia portasse a una riduzione del rischio di cancro – commenta Angrisani -. Questo perchè è difficile ottenere una perdita di peso significativa e prolungata in popolazioni numerose e quindi statisticamente significative. Ma il nuovo studio mostra chiaramente che con una perdita di peso sostanziale e duratura, come quella che si può ottenere con la chirurgia bariatrica, è possibile ottenere una riduzione importante del rischio di ammalarsi e di morire per tumore, rispetto ai pazienti obesi che non ricorrono al bisturi. Questa ricerca dunque è un’altra importante conferma dei benefici a lungo termine della chirurgia per la perdita di peso nella prevenzione del cancro”.
Lo studio si basa sul confronto fra incidenza e mortalità per cancro. I dati sono stati stratificati per tipo di tumore, sesso, stadio del cancro e tipo di intervento chirurgico. Sono stati coinvolti quasi 22mila pazienti sottoposti a chirurgia bariatrica che sono stati abbinati per fare un confronto con persone obese ma non operate. Il periodo di riferimento considerato è piuttosto lungo: parte dal 1982 ed arriva fino al 2019. Le procedure chirurgiche a cui sono stati sottoposti i pazienti sono: bypass gastrico, bendaggio gastrico, gastrectomia a manica o altri interventi di “switch” duodenale.
“Il nuovo studio ha dato un altro importante contributo alla nostra comprensione della relazione tra obesità e cancro – evidenzia Angrisani -. I risultati aggiungono nuove evidenze alla letteratura scientifica, indicando che la significativa perdita di peso osservata con la chirurgia bariatrica riduce il rischio di diversi tipi di cancro. Il rischio del cancro nelle donne, che rappresentano la maggior parte delle persone sottoposte a chirurgia bariatrica, risulta notevolmente ridotta. Le persone con obesità e i medici dovrebbero prendere in seria considerazione questi benefici quando valutano e discutono con i propri pazienti l’opportunità di sottoporsi a chirurgia bariatrica”.
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“Il Report di GISE rappresenta uno strumento importante per disporre di dati utili a migliorare la programmazione e l’assistenza. La sinergia isituzionale è una leva essenziale per accelerare il processo di efficientamento del servizio sanitario nazionale in un’ottica di maggiore resilienza e sostenibilità che il Ministero della Salute è impegnato a portare avanti. Le innovazioni scientifiche e tecnologiche in questo senso giocano un ruolo fondamentale soprattutto per superare le disuguaglianze ancora esistenti e fare in modo che tutti i cittadini possano accedervi. Su questo anche GISE con il suo contributo può costituire un valido alleato”, osserva il Ministro della Salute On. Orazio Schillaci.
Angioplastica, TAVI, riparazione della valvola mitrale e gli interventi mini-invasivi di prevenzione dell'ictus, come la chiusura dell'auricola sinistra e la chiusura del PFO hanno raggiunto e hanno addirittura superato i livelli pre-Covid, ad esclusione dell'angioplastica. Nel 2022 per esempio sono state eseguite 11.476 TAVI a fronte delle 10.103 registrate nel 2021 e delle 6.888 del 2018 o delle 8.255 del 2019. Gli interventi di riparazione della valvola mitrale sono state 1.451 nel 2022 a fronte dei 1.325 del 2021 e 1.105 del 2018 o 1.224 del 2019. Le procedure di chiusra dell'auricola sinistra eseguite nel 2022 sono state 1.878, quando nel 2021 erano 1.561 e nel 2018 solo 989. Allo stesso modo gli interventi di chiusura del PFO esguiti nel 2022 sono stati 3.978 a fronte dei 3.608 dell'anno prima e ai 3.192 del 2018. Discorso a parte per le angioplastiche: 149.993 quelle eseguite nel 2022 a fronte delle 158.689 del 2018 e 160.018 del 2019.
Il GISE si propone dunque, ancora una volta, come “alleato” strategico per lo sviluppo della cardiologia interventistica.
Fondamentale è anche la collaborazione tra GISE e AGENAS. “I nostri obiettivi comuni sono molti e diversi - spiega Esposito -: dal miglioramento dei flussi informativi e all’introduzione di soluzioni evolute volte all’assistenza dei pazienti affetti da malattie cardiovascolari; dallo sviluppo di indicatori di esito e di processo in grado di cogliere in modo più puntuale l’appropriatezza, l’efficacia e la qualità delle cure, nonché l’efficienza dei processi alla valorizzazione dei dati dei registri clinici per approfondimenti specifici su ambiti assistenziali di interesse cardiologico; fino alla valutazione dell’impatto di procedure interventistiche sugli outcome, anche al fine di identificare potenziali fattori di rischio modificabili, e all'elaborazione di documenti di indirizzo evidence-based su ambiti di incertezza clinica”.
“Ci attendono sfide importanti per il prossimo futuro - prosegue Esposito -. La sostenibilità e la resilienza del sistema sanitario passa inevitabilmente dalla capacità di programmare correttamente le risorse, garantire l’utilizzo delle tecnologie che permettono non solo il miglioramento degli outcome clinici ma anche di rispondere ai bisogni del sistema nel suo complesso. È diventato quantormai urgente affrontare e risolvere il problema della scarsità di personale e di strutture per fare fronte al maggior carico assistenziale seguito alla pandemia (es. liste attesa, mancate diagnosi). Infine - conclude - riteniamo che una corretta rilevazione di indicatori di processo, organizzativi e di outcome saranno fondamentali per la programmazione delle attività e la valutazione multidisciplinare delle tecnologie che aumentano la capacità del sistema e che saranno fondamentali per vincere queste sfide”.
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di Rossella Gemma
Seguire l’evoluzione del tumore al cervello più diffuso e aggressivo, il glioblastoma, fin dalla comparsa delle prime cellule maligne, per aprire la strada a nuove possibilità di cura grazie a informazioni sullo sviluppo della malattia finora inaccessibili con le tecniche di indagine sperimentale convenzionali. Tutto questo oggi è possibile grazie a un ‘codice a barre’ genetico, che rende ogni cellula tumorale tracciabile e identificabile nel tempo e nello spazio, così da poter seguire passo passo la crescita della massa tumorale in un modello sperimentale nel topo. Grazie a tecniche di biologia molecolare avanzate, come l’analisi del trascrittoma, e a modelli computazionali che hanno consentito di simulare al computer l’evoluzione del tumore, è stato possibile studiare i fattori che ne influenzano la crescita, come le dinamiche di diversificazione e selezione che si instaurano fra i diversi cloni di cellule neoplastiche. L’innovativo approccio, che apre la strada a nuove scoperte e possibilità nella ricerca e nella cura del glioblastoma, è stato messo a punto da un team di ricercatori dell’IRCCS Ospedale Policlinico San Martino di Genova e del Dipartimento di Medicina Sperimentale dell'Università di Genova, guidato dal Prof Paolo Malatesta con il principale contributo di Davide Ceresa. I risultati ottenuti sono di tale rilievo da essere stati appena pubblicati su Cancer Cell, una delle riviste più importanti del settore.
Il glioblastoma, con circa 1500 nuovi casi all’anno in Italia, è il tumore cerebrale più diffuso ma anche il più aggressivo e ancora oggi poco conosciuto nelle fai iniziali. Più frequente negli uomini che nelle donne (1.6 a 1) e nella fascia d’età fra i 45 e i 75 anni, rappresenta il 45% di tutti i tumori che si sviluppano nel cervello. Le radiazioni ionizzanti, come raggi X e gamma, sono riconosciute come fattore di rischio per la comparsa del glioblastoma, che dà sintomi quando la massa tumorale, espandendosi, aumenta la pressione e dilata i vasi sanguigni provocando disturbi come mal di testa a intensità crescente, vomito, attacchi epilettici. “La terapia è estremamente complessa e, sfortunatamente, non offre ancora una soluzione definitiva - osserva Paolo Malatesta, coautore dello studio, responsabile del Programma di NeuroOncologia Sperimentale del IRCCS San Martino di Genova e professore di Biologia Molecolare presso l'Università di Genova - Attualmente, l'aspettativa di vita per i pazienti affetti da glioblastoma rimane inferiore a tre anni; il miglioramento delle cure potrebbe passare tuttavia da una maggiore comprensione dello sviluppo del tumore, che è molto eterogeneo dal punto di vista cellulare ed è poco conosciuto nelle sue fasi iniziali”.
Proprio per comprendere meglio l’evoluzione della malattia fin dai primissimi stadi, i ricercatori del San Martino hanno messo a punto un modello di glioblastoma in cui fosse possibile tracciare ogni singola cellula neoplastica, nel tempo e nello spazio. “Abbiamo introdotto nelle cellule da monitorare una sorta di ‘codice a barre’, una particolare stringa di DNA che oltre a indurre la malattia consente anche di tracciare successivamente le cellule tumorali, seguendole grazie a sofisticate tecniche di sequenziamento – spiega Davide Ceresa, coautore dello studio e ricercatore al San Martino –Monitorando l’evoluzione delle cellule neoplastiche abbiamo per esempio osservato che entro il primo mese dalla mutazione in senso tumorale la maggior parte dei cloni di cellule neoplastiche scompaiono; confrontando i dati sulla crescita tumorale reale con quelli ottenuti grazie a modelli computazionali in grado di simularla in differenti scenari e condizioni, abbiamo verificato l’esistenza di fortissima selezione clonale primi stadi di sviluppo del glioblastoma, che si mantiene anche in fasi successive. Le dinamiche di competizione cellulare sembrano perciò giocare un ruolo primario nel determinare lo sviluppo del glioblastoma, anche in stadi più avanzati della sua crescita. In sostanza, attraverso sofisticati programmi che ci permettono di simulare la crescita del tumore abbiamo potuto testare le nostre ipotesi confrontando le simulazioni con il reale sviluppo della neoplasia”.
Grazie all’analisi del trascrittoma, ovvero dell’insieme dei geni trascritti, a livello di singola cellula, i ricercatori hanno anche identificato nel gene Myc, già noto per il suo ruolo in altri tumori, uno dei maggiori responsabili di questo processo di selezione clonale. “La diminuzione dell’espressione di Myc è sufficiente a iniziare dinamiche di competizione fra cloni di cellule maligne anche in gliomi impiantati nel cervello di animali da esperimento, confermandone l’importanza nell’evoluzione della malattia – aggiunge Malatesta –. Questo nuovo approccio, che fonde tecniche di biologia molecolare innovative con l’uso di modelli computazionali avanzati, ha permesso di raccogliere informazioni importanti sul glioblastoma ma soprattutto apre la strada a una migliore comprensione dei meccanismi di sviluppo di questo tumore: capirne a fondo l’evoluzione fin dai primissimi stadi era finora impossibile, utilizzando le tecniche convenzionali che permettono di studiarlo solo retrospettivamente, ma il tracciamento clonale e le tecniche di analisi trascrittomica potranno ora fornire nuove e importanti informazioni che serviranno a conoscerlo e combatterlo meglio”.
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di Rossella Gemma
Ogni anno in Italia vengono registrati circa 40 casi fatali di shock anafilattico. Di questi più della metà sono causati da allergie alimentari, l’altra metà è provocato da punture di imenotteri, ma il dato resta incerto e sottostimato perché questo conteggio considera soltanto i casi che balzano agli onori della cronaca, mentre molti altri sfuggono alle statistiche perché, oltre a mancare una sorveglianza nazionale, spesso non vengono classificati come tali dal personale di pronto soccorso. Per una corretta gestione dell’anafilassi è fondamentale riconoscere i primi segni e sintomi delle reazioni ed iniziare rapidamente il trattamento. L’unica modalità per rispondere prontamente ad uno shock anafilattico è la somministrazione, tempestiva, di adrenalina auto-iniettabile, raccomandata dall'EMA in numero di due prescrizioni. È dunque importante che ai pazienti allergici venga prescritta una terapia di emergenza, pronta per essere immediatamente autosomministrata. In Italia, il quadro di accesso ai dispositivi salvavita nelle diverse Regioni italiane non è omogeneo e molti pazienti allergici e a rischio shock anafilattico, sono sprovvisti di auto-iniettori di adrenalina, inoltre la classificazione dell'adrenalina in fascia H rende difficile l'accesso al farmaco salvavita da parte del paziente.
Partendo da queste evidenze, sono iniziati i lavori dell’evento istituzionale “SHOCK – Analfilassi: reazioni consapevoli” promosso da Food Allergy Italia APS, su iniziativa del Senatore Giovanni Berrino e con i patrocini di AAIITO (Associazione Allergologi Immunologi Italiani Territoriali e Ospedalieri), FOFI (Federazione Ordini Farmacisti Italiani), Siaaic (Società Italiana di Allergologia, Asma ed Immunologia Clinica) e Cittadinanzattiva. L’evento, organizzato da Pharmalex – formerly MAPCOM ha voluto fare il punto sull’attuale situazione in Italia, con l’obiettivo di diffondere consapevolezza sulla tematica. “Ancora oggi in Italia si muore per anafilassi, questo perché c’è una palese difficoltà all’accesso all’autoiniettore di adrenalina da parte delle persone a rischio. Nonostante le indicazioni di EMA e AIFA, in Italia molte Regioni non garantiscono ancora la corretta erogazione di due autoiniettori a cui hanno diritto tutti i pazienti a rischio. Per questo motivo, Food Allergy Italia APS è impegnata da sempre nel sostenere il diritto di accesso al farmaco salvavita ai pazienti a rischio di anafilassi e nelle attività di sensibilizzazione per informare e formare sia le persone allergiche che le istituzioni e tutti i soggetti coinvolti nella gestione del paziente allergico riguardo all’uso degli autoiniettori di adrenalina” – ha commentato Marcia Podestà, Presidente Food Allergy Italia APS - Associazione Italiana Allergie Alimentari. L’evento istituzionale è parte dell’impegno dell’Associazione.
Nel 2022, infatti, Food Allergy Italia APSAssociazione Italiana Allergie Alimentari ha realizzato una Petizione, per chiedere il riconoscimento della 1 Bilò MB, et al. Fatal anaphylaxis in Italy: Analysis of cause-of-death national data, 2004-2016. Allergy. 2020 Oct;75(10):2644-2652 reazione anafilattica all’interno dei LEA, la riclassificazione dell’auto-iniettore di adrenalina in classe A, l’uniformità di distribuzione di 2 autoiniettori su tutto il territorio nazionale e l’attivazione di una campagna di formazione specifica per specialisti, pediatri, medici di medicina generale e di pronto soccorso. Antonella Muraro, Direttore UOSD Allergie Alimentari Centro di Specializzazione Regionale per lo Studio e la Cura delle Allergie e delle Intolleranze Alimentari, AUO Padova; Coordinatore delle Linee Guida Europee per l’Anafilassi spiega: “Come definito dalla Consensus NIH2,3 , dalle Linee Guida EAACI4 e WAO5 l'anafilassi è «una reazione allergica grave e sistemica a comparsa improvvisa che può causare morte». Fattori scatenanti sono i farmaci , punture di imenotteri (api, vespe, calabroni) o alimenti. L’ unico trattamento tempestivo di uno shock anafilattico da parte del paziente è la somministrazione immediata, per via intramuscolare, di adrenalina auto-iniettabile. È pertanto essenziale che ai pazienti venga prescritta una terapia d’emergenza nelle dosi corrette. Per tale motivo in tutte le Linee Guida internazionali viene sottolineata l’importanza dell’adrenalina auto-iniettabile come trattamento di prima linea per ottenere una rapida ed efficace risposta in caso di anafilassi”.
La gestione dei soggetti a rischio di anafilassi comporta anche numerosi costi per pazienti e loro famiglie. Le visite dallo specialista, gli esami diagnostici, i viaggi verso le strutture sanitarie specializzate e alcuni farmaci che non sono coperti dal SSN comportano un incremento dei costi per il SSN (mobilità sanitaria) accompagnato da un impoverimento dei pazienti e delle loro famiglie (c.d. “spese catastrofiche”). “Riuscire a garantire un percorso ben disegnato e condiviso mediante l'implementazione di un modello organizzativo efficiente, rappresenta un'opportunità di miglioramento dell’organizzazione accompagnato da una riduzione dei costi tanto per il Sistema Sanitario Nazionale che per il sistema sociale nel suo complesso” afferma il Professore Francesco Saverio Mennini, Direttore Centro EEHTA - CEIS, Università degli Studi di Roma "Tor Vergata"; Presidente SIHTA Società Italiana di Health Technology Assessment – “La riclassificazione del farmaco salvavita in Fascia A permetterebbe il reperimento diretto anche nelle farmacie territoriali facilitando la continuità terapeutica, colmando così un'esigenza clinica, e il superamento del problema relativo alla distribuzione di due auto-iniettori con diversi meccanismi d'azione. Rappresenta la strada più corretta ed efficiente per sanare le attuali differenze tra Regioni, ridurre la mobilità sanitaria e garantire un accesso più rapido ai pazienti”.
L’attuale classificazione dell’adrenalina auto-iniettabile in Fascia H ritarda notevolmente l’accesso al farmaco per varie ragioni: carenza dei servizi allergologici, liste d’attesa molto lunghe, erogazione di numero differente di auto-iniettore da regione a regione. La riclassificazione del farmaco salvavita dalla Fascia H alla Fascia A, con reperimento diretto in farmacia territoriale, permetterebbe al SSN di rispondere alle necessità dei pazienti e renderebbe più omogeno l’accesso alla terapia. 2 National Health Institute NIH USA. 3 Sampson HA, Munoz-Furlong A, Campbell RL, et al. Second symposium on the definition and management of anaphylaxis: summary report: Second National Institute of Allergy and Infectious Disease/Food Allergy and Anaphylaxis Network Symposium. J Allergy Clin Immunol 2006. 4 European Academy Allergy and Clinical Immunology -EAACI. 5 World Allergy Organization. “Garantire a tutti i pazienti e i soggetti a rischio accessibilità immediata a tali dispositivi salva vita è un impegno che insieme ai colleghi parlamentari intendiamo portare avanti. Stiamo lavorando ad una mozione per garantire a tutti i pazienti a rischio equa accessibilità ai trattamenti disponibili e per prevedere l’inserimento della reazione anafilattica all’interno dei Livelli Essenziali di Assistenza (LEA), al fine di abbattere le diseguaglianze di accesso regionale.” Così Giovanni Berrino, 10° Commissione Affari sociali, sanità, lavoro pubblico e privato, previdenza sociale, Senato della Repubblica.
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Le malattie delle valvole cardiache, principalmente stenosi aortica e insufficienza mitralica, sono una minaccia sommersa: poco note agli stessi pazienti, sottovalutate e sottodiagnosticate – pur se facilmente rivelabili con una visita cardiologica e un ecocardiogramma – colpiscono nelle forme lieve e moderata, circa un anziano su tre, con una frequenza tre volte più alta rispetto a quella del 10-12% fino ad oggi stimata. A rivelarlo, sono i risultati preliminari del primo screening cardiologico per le patologie valvolari mai realizzato in Italia, condotto dalla Società Italiana di Cardiologia Geriatrica (SICGe) nell’ambito dello studio PREVASC, che mira a stimare la prevalenza e la gravità di cardiopatie molto diffuse nella popolazione anziana (fibrillazione atriale, scompenso cardiaco, malattie valvolari), per l’identificazione precoce di problemi cardiaci. Lo studio ha coinvolto circa 1200 over 65 in dieci “borghi del cuore”, piccoli comuni con meno di 3mila abitanti di diverse regioni italiane, sottoposti a visita cardiologica, con elettrocardiogramma (ECG) ed ecocardiogramma.
Quanto riscontrato nell’indagine dimostra che attività di screening mirate sono fondamentali per far emergere patologie latenti e, quindi, una diagnosi precoce diretta non soltanto a ridurre i danni ma anche la mortalità e i notevoli costi sociali e previdenziali correlati. Per questo medici ed esperti richiamano l’attenzione delle istituzioni sull’importanza di garantire azioni efficaci di prevenzione nella popolazione anziana, attraverso screening cardiologici ‘salvavita’ come per i tumori. L’adozione di programmi strutturati di prevenzione consentirebbe infatti – nel caso delle patologie valvolari – di evitare circa 150mila decessi a cui possono andare incontro coloro che soffrono di forme gravi se non identificate precocemente o trascurate.
I RISULTATI DELLO STUDIO PREVASC
“Negli ultimi 50 anni, l’aspettativa di vita media in Italia è aumentata di oltre 10 anni, per cui le malattie cardiache che prima avevano una bassa prevalenza, ora sono più rilevanti. La prevenzione è dunque fondamentale per salvaguardare qualità e durata della vita della popolazione anziana. Però bisogna agire in tempo. Da qui l’idea di avviare uno screening cardiologico sulla popolazione anziana, nella quale i problemi cardiaci sono la prima causa di morte e disabilità”, dichiara Niccolò Marchionni, presidente della Società Italiana di Cardiologia Geriatrica (SICGe). “Lo studio PREVASC (PREvalenza malattie cardioVASColari) ha lo scopo di fotografare lo stato di salute del cuore degli italiani over 65”, aggiunge Marchionni. “Dai dati raccolti nell’indagine conclusa a maggio su un campione di circa mille anziani in dieci piccoli comuni con meno di 3mila abitanti distribuiti su tutto il territorio nazionale, si osserva una prevalenza di circa il 30% di patologie valvolari nelle forme lieve e moderata, tre volte più alta rispetto a quella stimata fino ad oggi del 10-12%, con un’alta percentuale di ipertesi (83%), 19% di diabetici e 56% di dislipidemici. Tutte nuove diagnosi con sintomi silenti e fattori di rischio per cui gli anziani esaminati non erano in trattamento, in grado di generare negli anni successivi patologie cardiache clinicamente rilevanti. In particolare, anomalie la della valvola aortica sono risultate complessivamente presenti nel 27% e quelle della valvola mitralica nel 34% dei soggetti osservati”.
L’IMPORTANZA DELLA DIAGNOSI PRECOCE: SCREENING CUORE ‘SALVAVITA’ COME PER I TUMORI
“La valenza davvero unica dello studio PREVASC è quella di aver fatto emergere vizi valvolari latenti che, se non diagnosticati precocemente e seguiti nel tempo, nel 10% dei casi rischiano di evolvere, nell’arco di 4-5 anni, in forme gravi che possono diventare fatali nella metà dei pazienti”, osserva Alessandro Boccanelli, vicepresidente della SICGe e coordinatore dello studio PREVASC. “Tutto questo ha gravi conseguenze per i pazienti, con una stima di 150mila decessi evitabili grazie all’adozione di programmi strutturati di screening ‘salvavita’ come per i tumori mammario, colon-rettale e della cervice uterina. Ciò permetterebbe un aumento del numero delle diagnosi dall’attuale 25% al 60%, consentendo di intervenire precocemente in modo da aumentare la probabilità di sopravvivenza. Una diagnosi tempestiva di queste patologie è possibile – prosegue Boccanelli – con un processo diagnostico non complesso, basta auscultare il cuore con un fonendoscopio e, nel caso si identifichi un sospetto, procedere a successivi esami più semplici come un elettrocardiogramma o più approfonditi, come un ecocardiogramma. Purtroppo questa pratica non è inclusa tra i controlli effettuati nella normale routine medica. Queste patologie – rimarca l’esperto - soffrono pertanto di una debolezza a livello diagnostico, con un importante impatto anche dal punto di vista economico se si considera che, da un recente studio sui dati INPS del CEIS di Tor Vergata, emerge una spesa previdenziale di 29 milioni di euro l’anno”.
“Su questi presupposti, SICGe intende impegnarsi nel proporre di applicare su scala più ampia il progetto PREVASC, ossia promuovere un modello di programma di diagnosi precoce delle cardiopatie esteso e strutturato, che possa raggiungere l’intera popolazione over 65 a livello nazionale” concludono Marchionni e Boccanelli.
“Lo studio PREVASC, condotto dalla Società Italiana di Cardiologia Geriatrica (SICGe) rappresenta un significativo esempio di progetto di prevenzione sul territorio - ha dichiarato l’Onorevole Annarita Patriarca, membro della XII Commissione Affari Sociali presso la Camera dei Deputati - i dati dello studio sono un campanello d’allarme che non possiamo ignorare sullo stato di salute del cuore degli anziani. Con i colleghi della Commissione mi impegnerò per fornire risposte concrete e strutturate sui bisogni evidenziati in termini di prevenzione delle patologie cardiache degli anziani. In questa prospettiva gli screening di comunità sembrano costituire una strategia intelligente e da studiare a fondo per evitare decessi e provare a garantire un invecchiamento sereno agli over 65”.
“Il cambiamento demografico impone una riflessione più compiuta sulle attività di prevenzione delle cardiopatie degli anziani” ha detto Ugo Cappellacci Presidente della XII Commissione Sanità della Camera dei Deputati - “I dati dello studio PREVASC diffusi oggi dalla Società Italiana di Cardiologia Geriatrica spingono il legislatore a considerare gli screening cardiologici dell’anziano come un’interessante opportunità per salvare vite umane e rendere l’invecchiamento attivo un’effettiva realtà. Mi impegnerò per intraprendere un percorso con le società scientifiche di cardiologia rivolto ad approfondire i dati emersi al fine di rendere strutturali i percorsi di prevenzione delle malattie cardiache in un contesto di sostenibilità per il SSN”
MALATTIE CARDIACHE, UNA PANDEMIA SILENTE ALLINEATA ALLA CRESCITA DEGLI OVER 65
“Le malattie cardiovascolari sono la prima causa di morte in Europa e tuttora la prima di ricovero e di accesso agli ambulatori. E l’invecchiamento progressivo della popolazione rende ancora più allarmante la situazione, perché il rischio di sviluppare malattie cardiache cresce proporzionalmente con l’età – dichiara Fulvio Colivicchi, Past President dell’Associazione Nazionale Medici Cardiologi Ospedalieri (ANMCO) e Vicepresidente Federazione Italiana Società Mediche (FISM) – “L’allungamento dell’aspettativa di vita ha già determinato un’evoluzione epidemiologica significativa delle cardiopatie legate all’invecchiamento fisiologico del cuore, come la fibrillazione atriale, lo scompenso cardiaco e, le malattie degenerative delle valvole. Tutte patologie rilevanti in termini di costi e impegno organizzativo, perché complesse da gestire e in quanto costituiscono una condizione di cronicità e comorbidità frequente negli anziani, e che frequentemente impegna i pronto soccorso divenendo anche una sfida gestionale nell’equilibrio di un ospedale sempre più in prima linea nell’assistenza sul territorio. - osserva Colivicchi – È ora di intervenire tempestivamente: l’adozione di percorsi di screening mirati sulle fasce di popolazione più a rischio non è solo uno strumento efficace per contrastare l’insorgenza e la progressione di queste malattie, ma può avere un ruolo anche nell’attuazione di una presa in carico strutturata dei pazienti. In assenza di interventi preventivi opportuni a livello nazionale, queste patologie sono destinate ad assumere sempre più carattere emergenziale delineandosi come una vera pandemia silente”conclude Colivicchi.