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di Rossella Gemma

L’OMS e l’UNICEF così come il Ministero della Sanità sottolineano l’importanza di un‘assistenza che metta al centro i bisogni di salute della diade madre-neonato. La Società Italiana di Neonatologia (SIN), la Società Italiana di Pediatria (SIP), la Società Italiana di Ginecologia ed Ostetricia (SIGO) e l’Associazione Ostetrici e Ginecologi Ospedalieri Italiani (AOGOI), come principali società scientifiche italiane d’area perinatale, sono da tempo impegnate nel promuovere la relazione madre-bambino e l’allattamento al seno, investimenti duraturi con positivi risvolti socio-sanitari.

La moderna organizzazione delle Maternità attualmente prevede la gestione congiunta di madre e bambino, il cosiddetto rooming-in, che va proposto fornendo il necessario sostegno pratico e psicologico alla nuova famiglia.

La gestione separata di madre e neonato, prevalente in epoche passate, ostacola invece l’avvio della relazione genitore-famiglia-neonato, è contraria alla fisiologia, anche dell’allattamento, e non garantisce da eventi neonatali imprevisti e tragici. Facciamo riferimento in particolare al “collasso post natale” conosciuto come SUPC (Sudden Unexpected Postnatal Collapse). Si tratta di un evento improvviso ed inaspettato, molto raro (colpisce 8 neonati ogni 100 mila), ma documentato a livello internazionale. Si verifica nella prima settimana di vita, a volte a causa di patologie sottostanti non diagnosticate, ma il più delle volte in bambini apparentemente sani. Le attuali indicazioni delle società scientifiche per prevenirla si basano sull’eliminazione nei limiti del possibile dei fattori di rischio associati.

La condivisione del letto fra una madre vigile ed un neonato sano, messo in una posizione di sicurezza, è un fatto naturale, pratico, indiscutibile. Le società scientifiche però attualmente raccomandano di evitare la condizione del co-sleeping, giudicata non sicura, suggerendo di riporre il bambino a fine poppata nella propria culla, in particolare quando non siano presenti altri caregiver (familiari o operatori sanitari). Questa prudenza è giustificata ben oltre la permanenza di mamma e bambino nel Punto Nascita e interessa tutti i primi 6 mesi di vita.

È però inevitabile che, nonostante tutte le cautele, mamma e bambino possano spontaneamente addormentarsi nello stesso letto. Si tratta di un evento che più che essere drammatizzato, richiede un rinforzo di informazione alle famiglie sulla sicurezza del bambino durante il sonno.

La carenza a livello nazionale del personale sanitario, pesantemente sofferta anche nell’area del percorso nascita, non è motivo sufficiente per giungere ad ipotizzare proposte assistenziali involute e di minore qualità come la gestione separata di madre e bambino.

In conclusione, SIN, SIP, SIGO-AOGOI sottolineano il valore essenziale della pratica del rooming-in, raccomandando che l’implementazione del rooming-in per essere appropriata preveda che le famiglie siano adeguatamente informate, coinvolte e supportate e che gli operatori sanitari offrano un’assistenza per quanto possibile individualizzata ed empatica in modo che l’indicazione istituzionale a praticare il rooming-in sia declinata in maniera appropriata.

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di Rossella Gemma

Il colesterolo rappresenta uno tra i più importanti fattori di rischio cardiovascolare, causando per il Servizio sanitario nazionale un impatto clinico, organizzativo ed economico enorme. Basti pensare che in Italia, ogni anno, muoiono più di 224mila persone per malattie cardiovascolari: di queste, circa 47mila sono imputabili al mancato controllo del colesterolo. I costi, in termini di spesa sanitaria diretta e indiretta sono quantificabili in circa 16 miliardi di euro l’anno. Nonostante questo scenario, su oltre 1 milione di pazienti a più alto rischio l’80% non raggiunge il target indicato dalle più recenti linee guida internazionali.

Fortunatamente in quest’area le terapie a disposizione, tutte estremamente efficaci, hanno portato evidenze scientifiche robuste e consolidate negli anni sul loro valore preventivo e curativo sia in prevenzione primaria sia in prevenzione secondaria, ma oggi è necessario intervenire ulteriormente perché ci sono bisogni insoddisfatti.

Su questo tema e sulle possibilità di potenziare e migliorare il percorso di prevenzione, diagnosi e cura delle malattie cardiovascolari si sono interrogati gli esperti all’evento “PNRR, IPERCOLESTEROLEMIA, RISCHIO CARDIOVASCOLARE TRA BISOGNI IRRISOLTI, INNOVAZIONE E NUOVE NECESSITÀ ORGANIZZATIVE – TRIVENETO”, organizzato da Motore Sanità con il contributo incondizionato di Daiichi-Sankyo.

Come cardiologo ho un problema molto serio: quello di garantire il target lipidico nei pazienti che hanno avuto una sindrome coronarica acuta”, conferma Claudio Bilato, Presidente ANMCO Veneto e Delegato SIPREC - Società Italiana per la Prevenzione Cardiovascolare Triveneto. “Ciò, probabilmente, è dovuto al fatto che non riusciamo a controllare completamente quello che chiamiamo rischio residuo, nonostante le terapie mediche ottimali che mettiamo in atto. Questo rischio residuo è la somma di vari elementi: diabete, rischio trombotico, rischio di un’infiammazione cronica che si mantiene, ma soprattutto è legato al fatto che, molto spesso, non controlliamo in maniera adeguata i livelli di colesterolo LDL (che, con le nuove linee guida suggerite dalla Società Europa di Cardiologia e la Società Europea dell’Aterosclerosi, in pazienti a rischio cardiovascolare, vanno portati sotto il 55%)”.

Gli strumenti insomma ci sono, il problema è come riuscire a raggiungere il target organizzativo, per far sì che i pazienti che necessitano di cure appropriate possano avere la terapia appropriata. 

Ha parlato degli strumenti anche Nadia Citroni, Responsabile Centro Dislipidemie e Aterosclerosi, ospedale di Trento, con queste parole: “Da sempre ci occupiamo di pazienti con dislipidemia e per noi questo è un buon momento storico: siamo entusiasti di avere a disposizione nuove opzioni farmacologiche che ci permettono teoricamente di portare a target pazienti. In questo contesto di possibilità terapeutiche ci sono però dei limiti, come quello dell’intolleranza alle statine che riguarda il 9% dei pazienti trattati. Altra problematica, quella di portare a target pazienti che sono a rischio vascolare molto alto, o anche rischio estremo. Vediamo anche pazienti con ipercolesterolemia familiare, nei quali tante volte anche le opzioni terapeutiche disponibili associate non ci portano i pazienti a  target, per cui c’è un problema di non raggiungimento dei target nei pazienti che hanno eventi secondari. Altro capitolo importante sono le criticità organizzative e gestionali che hanno portato anche all’avvento di queste nuove terapie organizzative. Bisogna trovare percorsi legati nei vari contesti, per cercare di mettere insieme criteri di monitoraggio”.  

E poi c’è il problema dalla bassa aderenza terapeutica, sottolineato  da Giorgio Colombo, Direttore Scientifico CEFAT Centro Economia e valutazione del Farmaco e delle Tecnologia Sanitarie Università degli studi di Pavia: “Secondo i dati dell’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA), i soggetti sopra i 65 anni prendono più di 10 sostanze all’anno. Quello che mi spaventa non è tanto il numero dei farmaci, ma chi si prende in carico di ottimizzare queste terapie. Lo fa il medico di famiglia? Il farmacista? Questo è un tema importante che deve entrare in ambito di politica sanitaria. Ricordiamoci inoltre che l’aderenza dipende non solo dalla complessità del trattamento, ma anche dal costo del farmaco (compartecipazione del soggetto alla spesa). Più questo è oneroso, minore è l’aderenza del paziente. Ultima riflessione, è che quando aumenta la compartecipazione, si riduce l’aderenza e aumentano i costi per il Servizio Sanitario Nazionale. Da qui ecco le principali strategie per aumentare l’aderenza: programmi di auto-monitoraggio e auto-gestione dei medicinali, maggiore spiegazione in merito all’utilità dei farmaci e ai danni della loro scorretta assunzione, coinvolgimento diretto dei farmacisti nella gestione dei farmaci, adozione di schemi terapeutici quanto più possibile semplificati”.

Sulla presa in carico dei pazienti si è espresso Andrea Di Lenarda, Direttore SC Patologie Cardiovascolari ASUGI: “Finché anche noi specialisti siamo frammentati nel territorio, è evidente che la presa in carico di questi pazienti per portarli a target non è facile. Una delle soluzioni che abbiamo proposto e che è stata accettata per favorire la presa in carico del paziente cronico e per aumentare la probabilità di portarlo a target, è costituire un nuovo dipartimento di cure specialistiche territoriale, che mette insieme cardiologi, diabetologi, nefrologi e pneumologi”. 

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di Rossella Gemma

Alcune persone invecchiano meglio di altre, vivono molto più a lungo della media e mantengono un buono stato di salute fino alla fase più avanzata della loro vita. Questo grazie anche al loro DNA. Il gene che codifica la proteina BPIFB4, nella sua variante LAV (Longevity Associated Variant), meglio noto come “gene della longevità”, si è dimostrato, infatti, essere molto frequente nelle persone che superano i cento anni di vita. Oggi questo gene e la proteina a esso associata confermano nuovamente il loro ruolo antiaging, mostrando di poter “ringiovanire” uno degli organi più importanti dell’organismo: il cuore. La scoperta arriva da uno studio appena pubblicato su Cardiovascular Research[1], coordinato dal professor Annibale Puca del Gruppo MultiMedica di Milano e dal professor Paolo Madeddu dell’Università di Bristol, finanziato dalla British Heart Foundation e dal Ministero della Salute italiano.

L’analisi, durata 3 anni, è stata eseguita in vitro e in vivo. Nell’ambito dello studio in vitro, a opera del team MultiMedica, le cellule del cuore di pazienti anziani con problemi cardiaci e sottoposti a trapianto, provenienti dall’Azienda Sanitaria Universitaria Integrata di Udine, sono state messe a confronto con quelle di individui sani. “Le cellule dei primi, in particolare quelle che supportano la costruzione di nuovi vasi sanguigni, denominate ‘periciti’, sono risultate meno performanti e più invecchiate”, spiega Monica Cattaneo, ricercatrice del Gruppo MultiMedica, primo autore del lavoro. “Aggiungendo al mezzo di coltura di queste cellule la proteina LAV-BPIFB4, ossia quella prodotta in laboratorio che corrisponde alla variante diffusa tra i centenari, abbiamo assistito a un vero e proprio processo di ringiovanimento cardiaco: i periciti dei pazienti anziani e malati hanno ripreso a funzionare correttamente, dimostrandosi più efficienti nell’indurre nuovi vasi sanguigni”.

Un risultato coerente con quanto osservato in parallelo dall’analisi in vivo condotta a Bristol su una popolazione di topi. Somministrando, tramite vettore virale, la proteina LAV-BPIFB4 a topi anziani al fine di indurre il ringiovanimento, e a topi di mezza età per prevenire l’invecchiamento, lo studio ne ha confermato l’efficacia attraverso un miglioramento della vascolarizzazione, una più efficiente gittata del sangue e un decremento della fibrosi, che sono tre aspetti chiave per valutare lo stato di invecchiamento cardiaco. Quest’ultimo risultato corrisponde a un riavvolgimento dell'orologio biologico del cuore dell’uomo di oltre 10 anni.

“La terapia genica con LAV-BPIFB4 in modelli murini (topi) di patologia aveva già dato prova di prevenire l'insorgenza dell’aterosclerosi, l’invecchiamento vascolare e le complicazioni diabetiche, e di ringiovanire il sistema immunologico”, afferma Annibale Puca, capo laboratorio presso l’IRCCS MultiMedica e professore dell'Università di Salerno, che negli ultimi venti anni ha concentrato la propria attività di ricerca sullo studio del DNA dei centenari, arrivando a identificare una variante genica denominata LAV (Longevity Associated Variant) nel gene BPIFB4, che correla positivamente con la longevità e negativamente con il grado di compromissione cardiovascolare. “Oggi abbiamo una nuova conferma e un allargamento del potenziale terapeutico di LAV-BPIFB4. Attualmente sono in corso studi in vivo che impiegano la proteina ricombinante nel cuore anziano, nel cuore diabetico e nell’aterosclerosi. Ci auguriamo di poterne presto testare l’efficacia anche nell’ambito di trial clinici su pazienti con insufficienza cardiaca”.

Dal punto di vista pratico, se le evidenze emerse in quest’ultimo studio fossero confermate dai trial clinici, in futuro una terapia con la proteina LAV-BPIFB4 potrebbe essere adottata per il ringiovanimento non soltanto del sistema vascolare e immunologico, come precedentemente descritto dal gruppo di ricerca del professor Puca, ma anche della pompa cardiaca.

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di Rossella Gemma

Buone le notizie che arrivano da Oltremanica: il pancreas artificiale diventa finalmente una opzione di cura anche per il diabete di tipo 2” dichiara Paolo Di Bartolo, Presidente di Fondazione AMD (Associazione Medici Diabetologi), commentando i risultati dello studio britannico pubblicato su Nature Medicine che descrivono l’innovativo sistema ad ansa chiusa composto da un sensore per la misurazione in continuo del glucosio e una micro-pompa per l’infusione continua di insulina che grazie ad una App è in grado di aggiustare in automatico le quantità di insulina infusa in funzione dei valori del glucosio mantenendoli nei target desiderati e minimizzando il tempo trascorso in ipo e iperglicemia.

I dati condivisi dai colleghi del gruppo di Cambridge fanno riferimento ad una tecnologia che già aveva dimostrato la propria efficacia nel diabete di tipo 1 e nelle persone con diabete di tipo 2 in dialisi. Questo nuovo studio ha valutato il sistema CamAps Hx in una specifica sottopopolazione di persone con diabete tipo 2, per le quali questo dispositivo potrebbe rappresentare, in futuro, una possibile proposta terapeutica”. Lo studio fa riferimento a persone con diabete di tipo 2 con un’età di circa 59 anni, una lunga durata di malattia ed un diabete non in controllo ottimale, già avviati a terapia insulinica intensiva da circa 8 anni. “Una categoria di pazienti” specifica Di Bartolo, “che la comunità diabetologica prevede e auspica possa ridursi sensibilmente in ragione di un sempre maggiore ricorso alle terapie più innovative oggi disponibili che hanno dimostrato efficacia sia nel miglioramento del controllo glicemico, sia nella riduzione del rischio cardio-renale”.

“La soluzione messa a punto nel Regno Unito potrebbe rappresentare un valido alleato per lo specialista in alcune situazioni cliniche, oltre ai pazienti arruolati nello studio immaginiamo ad esempio all’esordio in pazienti molto scompensati, ma potrebbe rappresentare anche uno strumento per il superamento dell’inerzia terapeutica nella titolazione della terapia insulinica e la riduzione dei rischi di ipoglicemia che sono elevati in corso di terapia insulinica e spesso rappresentano una barriera alla piena aderenza del paziente alla terapia prescritta. Restano da verificare – conclude Di Bartolo – la sostenibilità economica di tali soluzioni, in Italia sono oltre 600.000 i pazienti in terapia insulinica, e l’attitudine nelle diverse fasce di età delle persone con paziente con diabete di tipo 2 all’impiego di tali tecnologie, in Italia solo il 11 % di tale popolazione ha una età inferiore ai 55 anni”.

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di Rossella Gemma

In Italia, ogni anno, per malattie cardiovascolari muoiono più di 224.000 persone: di queste, circa 47.000 sono imputabili al mancato controllo del colesterolo. Il colesterolo, infatti, rappresenta uno tra i più importanti fattori di rischio cardiovascolare, causando per il servizio sanitario nazionale un impatto clinico, organizzativo ed economico enorme. La spesa sanitaria diretta e indiretta è quantificabile in circa 16 miliardi euro l’anno. Nonostante questo scenario, su oltre 1 milione di pazienti a più alto rischio l’80% non raggiunge il target indicato dalle più recenti linee guida internazionali. In questa area fortunatamente le terapie a disposizione, tutte estremamente efficaci, hanno portato evidenze scientifiche robuste e consolidate negli anni sul loro valore preventivo e curativo sia in prevenzione primaria sia in prevenzione secondaria, ma oggi è necessario intervenire ulteriormente perché ci sono bisogni insoddisfatti.

Su questo tema e sulle possibilità di potenziare e migliorare il percorso di prevenzione, diagnosi e cura delle malattie cardiovascolari si sono interrogati gli esperti all’evento “PNRR, IPERCOLESTEROLEMIA, RISCHIO CARDIOVASCOLARE TRA BISOGNI IRRISOLTI, INNOVAZIONE E NUOVE NECESSITÀ ORGANIZZATIVE, organizzato da Motore Sanità con il contributo incondizionato di Daiichi-Sankyo.

“Il tema dell’eccesso di colesterolo e delle relative azioni da mettere in campo per ridurlo è proprio il classico tema che costituisce una sfida importante in un settore di programmazione che possa dare dei risultati a lungo termine - ha spiegato Carlo Picco, Direttore Generale ASL Città di Torino -. In una grande ASL come la nostra, dove attorno ai presidi ospedalieri di primo e secondo livello c'è un territorio piuttosto vasto in cui le malattie croniche vengono affrontate con i Pdta anche in maniera multidisciplinare, un occhio alla prevenzione è assolutamente fondamentale. Sappiamo che l'equilibrio tra la spesa farmaceutica e il beneficio di avere una minore possibilità di sviluppare complicanze in ambito cardiovascolare, in particolare ma non solo, ci mette sempre in una condizione di difficile contesto perché vorremmo vedere i risultati subito. Tuttavia stiamo lavorando sugli stili di vita e ad un progetto di attività fisica prescritta dai sanitari, a livello di Azienda Zero, che possa essere gestita dagli enti del territorio, pubblici e privati, in un contesto di prezzo calmierato che potrebbe dare a molti l'occasione di utilizzare le varie strutture sul territorio per lavorare su stili di vita sani. Inoltre stiamo portando avanti gli studi di sostenibilità e i piani di fattibilità della spesa farmaceutica, abbiamo già presentato alcune proposte al settore regionale. Insomma, siamo impegnati in questo contesto che deve avere un occhio di riguardo alla macro economia regionale e un occhio alla clinica e ai benefici clinici. Abbiamo i professionisti per tutte e due queste visioni e quindi le metteremo insieme per cercare di fare bene”.

“L'ipercolesterolemia è uno dei fattori di rischio cardiovascolari più importanti, ma tra i più correggibili con specifiche terapie, anche se non sempre si assiste ad una buona aderenza terapeutica. Ecco perché la medicina di iniziativa con la prevenzione primaria e secondaria è fondamentale per strutturare una risposta sanitaria di medicina personalizzata e di precisione anche in questo settore – ha spiegato Alessandro Stecco Presidente IV Commissione regionale Sanità e Assistenza sociale, Regione Piemonte -. Si deve puntare sempre di più all'integrazione ospedale-territorio, e il DM77 con il PNRR che vede l’organizzazione delle Case di Comunità e delle COT, sono opportunità per intraprendere una svolta anche in questo settore, vedendo al centro la collaborazione tra medici di medicina generale e specialisti ambulatoriali”.

Secondo Alessandro Stecco “è necessario basarsi anche sui cardini fondamentali rappresentati da prossimità, innovazione, digitalizzazione, ricerca e competenze professionali, che in Regione Piemonte, su nostra proposta legislativa approvata, abbiamo voluto inserire tra le funzioni di Azienda Zero, una super azienda sanitaria che si occuperà del coordinamento di funzioni strategiche per la sanità regionale come queste”.

I farmacisti nell’erogazione del farmaco, in ospedale o sul territorio, possono essere un anello importante per affrontare il problema della scarsa aderenza alla terapia e la telemedicina può venire in aiuto. “L’ipercolesterolemia soprattutto in pazienti ad alto rischio cardiovascolare, in questo momento rappresenta una patologia sicuramente paradigmatica proprio per il tema della terapia che è sempre di più personalizzata. I nuovi farmaci vengono erogati dalle farmacie ospedaliere in distribuzione diretta e questo ci coinvolge, come farmacisti ospedalieri, sempre di più. Oggi quindi stiamo lavorando per cercare di rendere sempre più fluido il percorso di presa in carico dei pazienti dal punto di vista della terapia proprio perché dobbiamo cercare il più possibile di garantire la corretta aderenza del paziente a questi trattamenti che, sappiamo, possono portare dei grossi benefici di efficacia, di riduzione importantissima di rischio cardiovascolare e di esiti infausti, ma devono essere ben assunti dai pazienti” ha spiegato Paola Crosasso, Direttore SC Farmacie Ospedaliere, ASL Città di Torino. “Credo che per controllare l’aderenza del paziente alle terapie la telemedicina abbia un ruolo importante dal momento che queste terapie sono di prossimità”.

“ll tema di oggi è sicuramente caldo perché parliamo di sostenibilità e credo che tra i vari determinanti della sostenibilità forse uno di quelli su cui bisognerà fare molti ragionamenti in futuro è proprio la parte dei farmaci perché è quella più complessa da controllare in quanto le procedure che portano poi all'utilizzo del farmaco sono un po' meno complesse rispetto ad altri setting – ha spiegato Franco Ripa, Responsabile Programmazione Sanitaria e Socio-sanitaria, Vicario Direzione Sanità e Welfare Regione Piemonte -. Quindi dobbiamo stringere un'alleanza tra tutti, tra chi si occupa più di aspetti manageriali e clinici per cercare di trovare un modello che deve essere assolutamente legato all'innovazione perché ci permette di curare meglio e di aumentare la qualità della vita”.

 

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di Rossella Gemma

Quest’inverno, dopo due anni di scarsa circolazione virale a causa delle misure di prevenzione legate alla pandemia che ha portato un minor allenamento delle difese immunitarie da parte di bambini e ragazzi, ci si aspettava una maggiore facilità ad ammalarsi. E la presenza, oltre al virus influenzale, di altri virus parainfluenzali, del virus respiratorio sinciziale, anch’esso quest’anno comparso in anticipo, e del Covid 19 comporta come conseguenza un sovraccarico dei Pronto Soccorsi. Dai pediatri SIP, Società Italiana di Pediatria, arriva un appello rivolto ai genitori: vaccinare i bimbi contro l’influenza, un’arma efficace e sicura per proteggere i più piccoli nei confronti dei virus influenzali per i quali si prevede la maggiore circolazione. “Se non lo si è fatto ancora-spiega la Presidente della Società italiana di Pediatria, Annamaria Staiano- non si perda tempo: questo è il momento giusto per vaccinare il proprio bimbo, anche se senza patologie croniche o fragilità. Ricordiamo che la vaccinazione è particolarmente raccomandata per tutti i bambini di età compresa tra 6 mesi e 6 anni, e per tutti i soggetti di ogni età con patologie croniche che aumentano il rischio di complicanze in corso di influenza. È importante sottolineare che proteggendo i più piccoli si proteggono anche i fragili di tutte le età e gli anziani in famiglia: in vista delle Feste questo è un altro fattore da non trascurare”.

Oltre alla vaccinazione la SIP ricorda alcune semplici regole che possono aiutare a prevenire l’influenza: evitare luoghi affollati, lavare frequentemente le mani, evitare il contatto con persone ammalate, in caso di tosse o starnuti, coprire naso e bocca con l’incavo del gomito, ventilare gli ambienti di lavoro e casalinghi aprendo le finestre. Nei luoghi affollati le mascherine, che abbiamo imparato a usare con il Covid, restano un presidio di prevenzione anche per altri virus, tra cui l’influenza.

 

Le 6 cose da sapere sull’influenza

  1. Come si manifesta l’influenza?

L’influenza si manifesta solitamente con febbre, brividi, cefalea, dolori muscolari, inappetenza e sintomi respiratori come tosse, mal di gola, congestione nasale.  Nei lattanti si osservano invece vomito e diarrea. È importante, però, consultare il proprio Pediatra di fiducia in presenza di sintomi per escludere altre malattie che possono esordire con sintomi simili.

  1. Quanti giorni dura l’influenza?

Il periodo d’incubazione del virus è di solito di 1-5 giorni. La durata della malattia è variabile da bambino a bambino, ma generalmente è di 5-10 giorni con risoluzione spontanea nella maggior parte dei casi.

  1. Quali sono le possibili complicanze?

L’influenza può causare serie complicanze come polmonite e miocardite, più frequenti nei soggetti con particolari fattori di rischio (quali malattie croniche cardiache, polmonari, neurologiche, renali, epatiche, immunodepressione). E’ opportuna una rapida valutazione se il bambino presenta comorbilità, se molto piccolo, se sta molto male, se rifiuta di mangiare e bere.

  1. Il bambino coninfluenza deve rimanere a casa? 

Il bambino con l’influenza deve rimanere a casa finché non è totalmente guarito, sia per ottenere una ripresa ottimale ed evitare ricadute ma anche per non contagiare i compagni di classe. Non basta l’assenza di febbre per definire il bambino guarito: occorre valutare se vi è ancora malessere generale o tosse insistente. In sostanza, non bisogna avere fretta e occorre consultare sempre il Pediatra in caso di dubbi.

  1. Per curare l’influenza è necessaria la terapia antibiotica?

Tenere il proprio bambino a casa, idratarlo e confortarlo sono le tre regole base che favoriscono la guarigione. L’antibiotico non serve per curare l’influenza ma per trattare eventuali sovrainfezioni batteriche. Va quindi somministrato solo in alcuni casi, su indicazione del Pediatra. Mentre per alleviare i sintomi del bambino, può essere utile la somministrazione di paracetamolo o ibuprofene in caso di febbre e/o cefalea, lavaggi nasali in caso di raffreddore.

  1. Vaccino iniettivo o spray: che differenza c’è? 

Il vaccino tradizionale è un quadrivalente che contiene virus inattivati (cioè uccisi e frammentati), somministrato per via intramuscolare. Il vaccino con spray intranasale è un vaccino sempre quadrivalente, ma vivo attenuato. Contiene microrganismi vivi ma attenuati e resi innocui. Entrambi i vaccini sono efficaci e sicuriL’indicazione su quale prodotto usare, se sotto forma di spray o di puntura, oltre che in base all’età (il vaccino spray è indicato nella fascia 2-6 anni) e alla disponibilità delle dosi, dipende dalla decisione del medico. 

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di Rossella Gemma

Positivi ma asintomatici al coronavirus, nuove regole nella circolare del ministero della Salute che aggiorna le indicazioni sulla gestione dei casi Covid-19 e dei contatti stretti di caso Covid-19. ''Le persone risultate positive ad un test diagnostico molecolare o antigenico per SARS-CoV-2 - si sottolinea in una nota - sono sottoposte alla misura dell’isolamento, con le modalità di seguito riportate: per i casi che sono sempre stati asintomatici e per coloro che non presentano comunque sintomi da almeno 2 giorni, l’isolamento potrà terminare dopo 5 giorni dal primo test positivo o dalla comparsa dei sintomi, a prescindere dall’effettuazione del test antigenico o molecolare; Per i casi che sono sempre stati asintomatici l’isolamento potrà terminare anche prima dei 5 giorni qualora un test antigenico o molecolare effettuato presso struttura sanitaria/farmacia risulti negativo. Per i casi in soggetti immunodepressi, l’isolamento potrà terminare dopo un periodo minimo di 5 giorni, ma sempre necessariamente a seguito di un test antigenico o molecolare con risultato negativo''.

''Per gli operatori sanitari, se asintomatici da almeno 2 giorni, l’isolamento potrà terminare non appena un test antigenico o molecolare risulti negativo. I cittadini che abbiano fatto ingresso in Italia dalla Repubblica Popolare Cinese nei 7 giorni precedenti il primo test positivo, potranno terminare l’isolamento dopo un periodo minimo di 5 giorni dal primo test positivo, se asintomatici da almeno 2 giorni e negativi a un test antigenico o molecolare. E’ obbligatorio, a termine dell’isolamento, l’uso di dispositivi di protezione delle vie respiratorie di tipo FFP2 fino al 10mo giorno dall’inizio della sintomatologia o dal primo test positivo (nel caso degli asintomatici), ed è comunque raccomandato di evitare persone ad alto rischio e/o ambienti affollati. Queste precauzioni possono essere interrotte in caso di negatività a un test antigenico o molecolare''.

''A coloro che hanno avuto contatti stretti con soggetti confermati positivi al SARS-CoV-2 è applicato il regime dell’autosorveglianza, durante il quale è obbligatorio di indossare dispositivi di protezione delle vie respiratorie di tipo FFP2, al chiuso o in presenza di assembramenti, fino al quinto giorno successivo alla data dell’ultimo contatto stretto. Se durante il periodo di autosorveglianza si manifestano sintomi suggestivi di possibile infezione da Sars-Cov-2, è raccomandata l’esecuzione immediata di un test antigenico o molecolare per la rilevazione di SARS-CoV-2. Gli operatori sanitari devono eseguire un test antigenico o molecolare su base giornaliera fino al quinto giorno dall’ultimo contatto con un caso confermato''.

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di Rossella Gemma

Janssen, azienda farmaceutica del gruppo Johnson & Johnson, ha presentato al XIII congresso nazionale dell’IG-IBD, Italian Group for the study of Inflammatory Bowel Disease nuovi dati di Real World Evidence sull’utilizzo di ustekinumab nei pazienti con Malattia di Crohn e Colite Ulcerosa, che colpiscono circa 250.000 persone in Italia.

Secondo i dati di Real World Evidence provenienti dall’esperienza spagnola (Registro ENEIDA) in Colite Ulcerosa, si evince un tasso di risposta clinica del 53% e un tasso di remissione clinica del 35% alla settimana 16. Sempre dalla stessa esperienza si riscontra che il 59% dei pazienti è ancora in trattamento con ustekinumab alla settimana 72.

In base ai dati di Real World Evidence provenienti dai registri Francesi (GETAID) e dalle esperienze italiane si conferma nei pazienti con Malattia di Crohn trattatati con ustekinumab l’efficacia nei pazienti bio-naive e bio-experienced, il profilo di sicurezza, una immunogenicità molto bassa, l’efficacia nelle manifestazioni extra-intestinali e la durable remission. Quest’ultimo è un aspetto cruciale per una buona qualità della vita a lungo termine.

“Questi dati confermano quanto già emerso dagli studi registrativi UNITI per la Malattia di Crohn e UNIFI per la Colite Ulcerosa, ovvero l’ottimo profilo di efficacia nel breve e nel lungo termine e la sicurezza nell’utilizzo di ustekinumab nei pazienti con malattie infiammatorie croniche intestinali”, commenta Edoardo Savarino, Professore associato di Gastroenterologia, Dipartimento di chirurgia, oncologia e gastroenterologia presso l'Università di Padova - Azienda Ospedaliera di Padova.

Ustekinumab è indicato per il trattamento di pazienti adulti affetti da Malattia di Crohn attiva di grado da moderato a grave, che hanno avuto una risposta inadeguata, hanno perso la risposta o sono risultati intolleranti alla terapia convenzionale o ad un antagonista del TNFα o che hanno controindicazioni mediche per tali terapie e per il trattamento di pazienti adulti con Colite Ulcerosa attiva di grado da moderato a grave che hanno avuto una risposta inadeguata, hanno perso la risposta o sono risultati intolleranti alla terapia convenzionale o ad una terapia biologica oppure che presentano controindicazioni mediche a tali terapie.

Ustekinumab è il capostipite della nuova classe di anticorpi monoclonali attivi contemporaneamente su due interleuchine – IL-12 e IL-23 -, importanti nel processo infiammatorio responsabile delle MICI.

La gestione delle MICI è complessa; le aspettative e le prospettive dei pazienti sono a volte non completamente soddisfatte”, spiega Maurizio Vecchi, Direttore UO Gastroenterologia ed Endoscopia, Fondazione IRCCS Ca'Granda Ospedale Maggiore Policlinico, Milano. “L’impatto della malattia sulla qualità della vita dei pazienti è notevole, sia dal punto di vista fisico, che psicologico, sociale, familiare, emozionale e lavorativo. Per questo servono terapie efficaci rapidamente, con un buon profilo di sicurezza e che possano dare una remissione duratura dei sintomi più invalidanti come l’urgenza evacuativa, il sanguinamento e la diarrea”.

In tutto il mondo ci sono milioni di persone che convivono con Malattia di Crohn e Colite Ulcerosa. Molto spesso queste persone, oltre a dover convivere con sintomi debilitanti tipici di queste malattie, devono fare i conti con lo stigma, l’isolamento e l’impossibilità di vivere con serenità la quotidianità. Proprio per questo c’è bisogno di opzioni terapeutiche che forniscano una remissione di lunga durata”, ha concluso Elisabetta Grillo, Therapeutic Area Medical Manager Immunology di Janssen Italia. “Come Janssen siamo presenti da molto tempo nel campo delle MICI, ridefinendo il paradigma di trattamento di queste patologie. Lavoriamo ogni giorno affinché anche le MICI diventino un ricordo del passato”.

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di Rossella Gemma

Le patologie oncoematologiche hanno visto una grande evoluzione in termini di ricerca e di innovazione prodotta. Un esempio è quello del mieloma multiplo: neoplasia ematologica caratterizzata dalla proliferazione di cellule maligne nel midollo osseo, che rappresenta l’1,3% di tutti i tumori nella donna e l’1,2% nell’uomo (dati AIRTUM), con incidenza di 5.759 nuovi casi all’anno (report AIOM 2020). L'età è il principale fattore di rischio: oltre il 60% delle diagnosi di mieloma riguardano persone di età superiore ai 65 anni e solo l’1% riguardano persone al di sotto dei 40 anni.

Le cause del mieloma multiplo non sono ancora del tutto note, anche se recenti studi hanno evidenziato la presenza di anomalie nella struttura dei cromosomi e in alcuni specifici geni nei pazienti affetti dalla patologia. Dopo la diagnosi è indispensabile definire lo stadio del mieloma, in base al quale si ottengono anche indicazioni sulla prognosi della malattia e sulle scelte terapeutiche. L’innovazione in questi ultimi anni ha prodotto una notevole quantità di opzioni terapeutiche per questi pazienti e ha segnato per molti di loro una maggiore sopravvivenza libera da progressione con un aumento della qualità di vita attesa. Ma l’organizzazione è pronta ad accogliere questo cambio di scenario continuo verso la cronicizzazione di malattia?

Per risponde a questa e ad altre domande ancora, Motore Sanità ha promosso l’evento: “INNOVAZIONE NEI PERCORSI DI CURA IN EMATOLOGIA. L’ESEMPIO DEL MIELOMA MULTIPLO - COME EFFICIENTARE LA FILIERA E VALORIZZARE IL TERRITORIO? FOCUS TRENTINO-ALTO ADIGE”, con il contributo incondizionato di Janssen pharmaceutical companies of Johnson&Johnson e IT-MeD.

Così Atto Billio, Direttore Ematologia e Centro di Trapianto Midollo Osseo ASAA Bolzano: “La qualità della vita del paziente con mieloma multiplo è inficiata da diversi fattori, tra i quali sono preminenti il dolore osseo e la “fatigue”. Il trapianto autologo di midollo è stata la prima grande innovazione nello scenario terapeutico del mieloma multiplo. Le nuove terapie innovative a base di farmaci di cui disponiamo oggi hanno consentito di migliorare la curva di sopravvivenza rispetto agli anni antecedenti al 2000. Alla fine del 2023 arriveranno le CAR-T: grande tecnologia di frontiera della terapia cellulare, immunologica e genica, che permette di riconoscere e centrare le cellule tumorali. La gestione della terapia con CAR-T necessita di un team multidisciplinare (ematologo, trasfusionista, intensivista, neurologo, specialista delle malattie infettive, farmacista) per far fronte ai bisogni assistenziali e alle eventuali complicanze post infusionali delle CAR-T. L’ematologia di Bolzano è già qualificata per l’uso delle CAR-T ed è in attesa del rinnovo dell’accreditamento del Centro Trapianti da parte del Centro Nazionale Trapianti per avviare la fase operativa sul paziente”.

“Il tema del mieloma multiplo mi tocca da vicino”, ha chiosato Gianna Zamaro, Direzione centrale salute, politiche sociali e disabilità Regione Friuli Venezia Giulia: “Per il Friuli Venezia Giulia si contano 120 nuovi casi all’anno. La terapia è stata rivoluzionante: abbiamo un aumento dell’aspettativa di vita notevole. La spesa è impattante e conta 1milione e 200mila euro nel servizio di ematologia. È un problema da affrontare. A fronteggiare questo impatto abbiamo un progetto pilota importante e stiamo ripercorrendo una fase di riorganizzazione su quella che è l’ematologia e l’oncoematologia di prossimità”.

Antonio Ferro, Direttore Generale APSS Trento ha sottolineato invece quanto: “Abbiamo preparato una riforma territoriale innovativa reinserendo i Distretti, dove il personale è gestito da 6 Dipartimenti, e superando l’ottica dei silos. In questo ambito si colloca lo sviluppo della rete oncologica. Il mieloma multiplo è una patologia che deve avere tutta la nostra attenzione e siamo molto coinvolti nella sua gestione. Il costo dei farmaci incide sul nostro bilancio in maniera importante e, per fare fronte a questo, la Regione Trentino Alto Adige ha fatto rete con Bolzano anche per il protocollo diagnostico e terapeutico del mieloma multiplo”.  

 

 

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di Rossella Gemma

Rara, ma estremamente visibile; non contagiosa, eppure ghettizzante. La vitiligine è una malattia autoimmune che colpisce la pelle, provocando l'insorgere di macchie più chiare rispetto al resto dell'incarnato. Per quanto l'incidenza sia bassa- appena l'1,6% della popolazione europea, lo 0,5-2% di quella globale- la visibilità della patologia rende difficile la vita di chi ne è affetto, portando anche a episodi depressivi gravi o moderati. È questo lo scenario emerso dal convegno "Sveliamo il vero volto della vitiligine" tenutosi a Milano. Patrocinato da Incyte Italia, l'evento non ha illustrato solo una malattia di cui si parla poco, ma anche nuovi percorsi terapeutici che puntano a migliorare la qualità della vita dei pazienti, costretti ad affrontare ingenti costi per contrastare la patologia.

Le cifre sono importanti, come evidenziato da uno studio diretto dal dottor Francesco Saverio Mennini dell'università di Roma Tor Vergata. "Il costo medio per pazienti è pari a 1.653 euro e il ricovero ospedaliero rappresenta il 50% della spesa" - spiega Mennini- "ma a incidere è anche la presenza di altre patologie. Se in loro assenza l'onere medio si assesta sui 1.389 euro, in caso di comorbidità si arriva fino a 5.058 Euro".

È quindi fondamentale ridurre la compresenza di patologie differenti. Il professor Mauro Picardo, coordinatore della task force europea dedicata al contrasto di questa malattia, specifica quelle più ricorrenti in associazione alla vitiligine. "Può presentarsi insieme al diabete autoimmune o all'artrite reumatoide. Lo sviluppo della patologia dipende in parte da una predisposizione genetica: il 25-30% dei pazienti ha una storia familiare di vitiligine".

La malattia può manifestarsi in qualsiasi momento, anche se l'incidenza più alta si registra nella fascia tra i 20 e i 40 anni. A causare la vitiligine è un processo in cui il sistema immunitario attacca i melanociti, cellule della pelle che secernono la melanina, sostanza che dona alla cute il suo colorito. La morte cellulare fa sì che il paziente manifesti in varie zone del corpo macchie biancastre che spesso provocano forti disagi a chi ne è affetto. Tre persone su 5 lamentano problemi di autostima, mentre addirittura 9 su 10 lottano contro lo stigma della malattia.

"L'aspetto psicologico non deve essere sottovalutato, perché incide molto sulla qualità di vita", afferma Ugo Viora, presidente dell'Associazione nazionale Amici per la pelle, che ha il compito di indirizzare i pazienti verso i dermatologi sul territorio per evitare l'auto cura. Per quanto negli ultimi anni ci sia stato uno sdoganamento della vitiligine, con casi di body positivity come quello della top model canadese di origini giamaicane Winnie Harlow, permane una certa diffidenza soprattutto se il paziente lavora a contatto con il pubblico. "Ciò che pesa di più sulla psiche è l'assenza di trattamenti specifici che fino a oggi migliorassero le condizioni di chi ne soffre. Per fortuna la ricerca sta cambiando lo scenario", aggiunge Viora.

Quali sono i nuovi trattamenti? "Innanzitutto c'è la fototerapia, che riattiva i melanociti, ma non è sempre efficace", spiega Picardo. "Negli ultimi decenni, però, la ricerca ha prodotto risultati interessanti: negli Stati Uniti è già in commercio una crema che inibisce le Janus chinasi, per esempio". I fattori che determinano la risposta alla terapia sono molti e comprendono la localizzazione delle lesioni, l'età del paziente e la durata della patologia. "Circa il 40-50% di chi intraprende la fototerapia può sperimentare nuova depigmentazione anche in aree trattate con successo", puntualizza Picardo, "ma i dati su chi è in cura con l'inibitore delle Janus chinasi da due anni ci mostrano come la condizione clinica migliori con il passare del tempo". Non una cura definitiva, ma una nuova speranza.