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di Rossella Gemma

L’emicrania è una patologia neurologica disabilitante che, nonostante il suo impatto sulla vita delle persone che ne soffrono e sulla società, resta ad oggi sotto diagnosticata e spesso non adeguatamente trattata. Diverse le cause, su tutte la poca informazione e la difficoltà di una corretta diagnosi e di accesso ad un centro specializzato sul territorio. Si è affrontato questo tema dal punto di vista di pazienti, clinici e istituzioni, durante l’evento “Emicrania: nuove prospettive per il paziente tra innovazione, ricerca e opportunità normative”, organizzato da Lundbeck Italia a Roma presso il Palazzo Theodoli e moderato da Raffaella Cesaroni, giornalista di Sky TG24.

“Secondo i dati dell'Organizzazione Mondiale della Sanità, l'emicrania rappresenta la terza patologia più frequente e la seconda più disabilitante. Colpisce circa il 14-15% degli adulti in tutto il mondo con una prevalenza tre volte maggiore nelle donne”, ricorda Paolo Calabresi, Direttore dell’Unità Operativa Complessa Neurologia, Professore Ordinario dell’Istituto di Neurologia Fondazione Policlinico Gemelli IRCCS e Past President della Società Italiana Studio Cefalee (SISC). Colpisce anche le fasce più giovani e nonostante il suo impatto sia elevatissimo da ogni punto di vista (umano, sociale ed economico), ancora oggi viene definita patologia 'invisibile'.  L’emicrania è causa di assenteismo a scuola e al lavoro, comporta difficoltà nelle relazioni sociali e di coppia, può generare solitudine, ansia e associarsi a depressione.

L’emicrania episodica è una malattia neurologica ad alto rischio di cronicizzazione se non curata in modo adeguato. Quando poi si presenta in forma cronica, comporta grave disabilità, elevati costi e rischio di uso eccessivo di farmaci sintomatici. Questo uso eccessivo di farmaci rappresenta una malattia nella malattia. “Le conseguenze della terapia inadeguata, evidenziate dal Registro Italiano dell’Emicrania – spiega Piero Barbanti, Direttore dell'Unità per la Cura e la Ricerca su Cefalee e Dolore, IRCCS San Raffaele, Roma; Professore Associato di Neurologia, Università San Raffaele, Roma; Presidente dell’Associazione Italiana per la Lotta contro le Cefalee - sono nomadismo sanitario (ovvero pazienti che vagano per centri cefalee alla ricerca di una cura); visite specialistiche frequenti, ma inutili (una media di 18 specialisti diversi per chi abbia almeno 25 giorni di emicrania al mese); esami diagnostici non necessari o erronei nel 95% dei casi, di cui 8-9 volte su 10 a carico del Servizio Sanitario Nazionale”.

In questo contesto, “l’arrivo di anticorpi monoclonali anti-CGRP – afferma il Prof. Barbanti - sta cambiando in maniera rapida ed irreversibile la terapia perché permette di ridurre il numero di attacchi, diminuendone anche intensità e durata”. Ma anche in questo campo l’innovazione è ancora in corso. Dopo la disponibilità delle formulazioni sottocutanee è stato di recente autorizzato in Italia il primo anticorpo monoclonale anti-CGRP a somministrazione endovenosa. Con la determina 440 del 20 giugno 2023, l’Agenzia Italiana del Farmaco (Aifa) ha riconosciuto la rimborsabilità per questo trattamento per la profilassi dell’emicrania nei pazienti adulti.  “Presenta alcune rilevanti specificità - precisa il Prof. Barbanti - permette una somministrazione in 30 minuti, 4 volte all’anno, ovvero una ogni 3 mesi (12 settimane). Ha una particolare rapidità di insorgenza dell’effetto profilattico, correlabile al peculiare profilo farmacocinetico dovuto alla via di somministrazione endovenosa, e un effetto preventivo sostenuto nel tempo. La sua efficacia preventiva è stata provata sia per l’emicrania episodica che cronica, in presenza o meno di uso eccessivo di analgesici e di fallimenti di precedenti terapie antiemicraniche preventive”. Inoltre, aggiunge il Prof. Barbanti, “il favorevole profilo di tollerabilità e sicurezza di eptinezumab è stato provato anche nel lungo termine, come mostrano i dati, fino a 2 anni dall’inizio del trattamento”.

“Secondo l’OMS, l'emicrania da sola è la causa principale di disabilità in tutto il mondo in pazienti di età inferiore a 50 anni. La sua fisiopatologia - afferma Alessandro Padovani, Professore Ordinario di Neurologia dell'Università di Brescia e Presidente eletto della Società Italiana di Neurologia (SIN) - è complessa. Tuttavia, è ormai chiaro il ruolo centrale dell’attivazione delle vie trigemino-vascolari, che provoca il rilascio di sostanze vasodilatatrici, proinfiammatorie e neuropeptidi divenuti i target principali nel trattamento della patologia. Infatti, negli ultimi anni sono stati sviluppati farmaci che agiscono sul peptide CGRP (peptide correlato al gene della calcitonina). Gli anticorpi monoclonali e i gepanti neutralizzano il CGRP oppure bloccano il suo recettore e, di conseguenza, agiscono antagonizzando un meccanismo centrale nella patogenesi dell’emicrania. Grazie a questi farmaci e all’utilizzo della tossina botulinica – prosegue il Prof. Padovani - si è aperta una nuova era nel campo delle cefalee, creando le condizioni per trattamenti precisi e personalizzati per la prevenzione dell’emicrania, con miglioramento dell’efficacia e del profilo di sicurezza e tollerabilità”.

L’emicrania, definita anche malattia ‘invisibile’, ha effetti però molto concreti sia sulle persone che ne sono affette che indirettamente sui loro familiari, influenzandone la qualità di vita. Inoltre, quando diventa cronica, l’emicrania è associata a un maggiore onere economico globale dovuto alla perdita di produttività lavorativa e all’aumento delle spese sanitarie. “Guardando all’Italia - afferma Francesco Saverio Mennini, Research Director Eehta del Ceis, Facoltà di Economia, Università degli Studi di Roma “Tor Vergata” e Presidente della Società Italiana di Health Technology Assessment (Sihta) - i dati di letteratura stimano un costo annuo complessivo per paziente (costi diretti e perdite di produttività) equivalente a circa € 11.300, più alto rispetto a pazienti con diabete (circa € 8.300) o di pazienti con insufficienza renale cronica (range € 7.000-9.600). Il costo diretto annuale di chi ha la forma cronica è 4,8 volte superiore a quello di chi ne soffre in modo episodico (€ 2.037 contro € 427).  Le giornate di ridotta capacità produttiva incidono per il 64,6% sul totale dei costi indiretti. La consapevolezza dei costi di una patologia così invalidante – aggiunge Mennini - dovrebbe essere, per la politica e le istituzioni, motivo per prendere decisioni informate sul modello assistenziale e sulle risorse da destinare per supportare percorsi di cura adeguati, presa in carico precoce dei pazienti, senza dimenticare i bisogni ancora insoddisfatti che, se non affrontati per tempo e con terapie adeguate, determineranno un ulteriore incremento dei costi tanto per il welfare che per i pazienti e i caregiver”.

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di Rossella Gemma

Il 41,8% dei giovani chirurghi italiani sta pensando di abbandonare la professione a causa di turni massacranti, scarsa formazione e contenziosi. È il principali risultato emerso dalla survey targata ACOI Giovani e presentata durante la sessione dal titolo ‘Il chirurgo nel 2023: una razza in via di estinzione’, in occasione del 41esimo Congresso nazionale dell’Associazione Chirurghi Ospedalieri Italiani (ACOI) che si chiuso a Roma presso il Centro Congressi ‘La Nuvola’ dell’Eur. L’indagine, esposta dai dottor Alberto Molteni e Daniele Delogu, è stata condotta su 237 giovani chirurghi di tutta Italia che lavorano tra ospedali pubblici e privati convenzionati.
 
“Oggi i giovani chirurghi hanno raccontato le loro storie, alcuni sono ancora in formazione altri sono già specialisti che si stanno inserendo nel mondo della formazione. Ho ascoltato una situazione pericolosa- ha commentato il presidente di ACOI, Marco Scatizzi- c’è un allarme, un grido di aiuto che proviene da loro per una serie di problematiche e inadempienze delle scuole di specializzazione. Purtroppo dobbiamo dirlo, perché sono loro a testimoniarcelo attraverso questionari che sono stati diffusi con centinaia di risposte. Noi dobbiamo assolutamente prendere dei provvedimenti e stimolare le istituzioni a far sì che cambi il sistema di formazione e che le scuole di specializzazione si modifichino. È necessario che per la formazione sia affiancato molto più spazio agli ospedali e poi, ovviamente, dobbiamo fare molto di più anche a livello contrattuale”.
 
Nel corso dell’incontro è stato proiettato anche un video con testimonianze di giovani chirurghi che hanno abbandonato la professione. “A chiosa di tutte le testimonianze dei colleghi, che loro malgrado e con grande sofferenza hanno lasciato la chirurgia, la vera sfida è rimanere per seguire la nostra passione che ci accomuna- ha commentato Anna Guariniello, del Comitato scientifico di ACOI- Però per resistere, per superare questa grandissima impasse, bisogna agire su tre ordini di livelli: formativo, riconoscendo a tutti gli effetti gli ospedali come cardine della formazione per il chirurgo, perché sappiamo tutti che questo non trova ad oggi un riconoscimento formale; bisogna poi sensibilizzare le istituzioni e le aziende sanitarie per assumere e stabilizzare i giovani colleghi e garantire ai dipendenti condizioni di lavoro accettabili; il terzo punto è tutelarli e supportarli non solo dal punto di vista medico-legale, che è fondamentale, ma anche da quello psicologico, cruciale per il chirurgo, perché sappiamo che è pane quotidiano fronteggiare gli eventi avversi. La soluzione non è mandare allo sbaraglio i neo specialisti, ma concepire insieme un piano d’attacco- ha concluso- individuando i punti cardine e coinvolgendo appunto istituzioni e aziende”.
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di Rossella Gemma

Arriva in Italia la prima e unica immunoterapia antitumorale in adiuvante per il trattamento del tumore al polmone non a piccole cellule (NSCLC) in fase iniziale: l'anticorpo monoclonale atezolizumab sviluppato da Roche è ora disponibile per questa indicazione anche nel nostro Paese, a seguito dell'autorizzazione alla rimborsabilità da parte di AIFA - Agenzia Italiana del Farmaco, pubblicata in Gazzetta Ufficiale a luglio. E' quanto scrive nella nota l'azienda farmaceutica Roche.
 
L'approvazione italiana, che segue quella europea dello scorso anno, si basa sullo studio globale di fase III, multicentrico, open-label, randomizzato IMpower010, i cui risultati hanno dimostrato che il trattamento con atezolizumab in adiuvante, dopo resezione completa e chemioterapia a base di platino, ha ridotto il rischio di recidiva della malattia o di morte del 57% nei pazienti con NSCLC in stadio II-IIIA (secondo il sistema di stadiazione UICC/AJCC, settima edizione) con alta espressione di PD-L1 e in assenza di mutazioni di EGFR o riarrangiamenti di ALK, rispetto alle migliori terapie di supporto. A fronte di un alto tasso di recidive, con circa il 60% dei pazienti in stadio II e il 75% dei pazienti in stadio III che presentano una ricaduta a 5 anni dall'intervento, la gestione del paziente con NSCLC in stadio precoce era fin ad oggi una sfida ancora aperta per ricercatori e clinici.
 
"La recidiva è un evento frequente anche per i pazienti in stadio precoce completamente resecati e un momento devastante nel percorso di cura. Con l'obiettivo di rendere questi stadi di malattia realmente guaribili, la ricerca punta pertanto alla riduzione della percentuale di recidive, sempre nel rispetto della qualità di vita del paziente. L'immunoterapia si è rivelata un ottimo mezzo per raggiungere questo scopo- dichiara Silvia Novello, Professore ordinario di Oncologia Medica, Università degli Studi di Torino e Presidente WALCE Onlus- Poter disporre ora dell'innovazione di atezolizumab come prima immunoterapia approvata in adiuvante contribuisce a 'ridurre significativamente il rischio di recidiva e ad ampliare le prospettive di cura per i pazienti". Fondamentale in questo contesto che la presa in carico ‘ottimale’ del paziente con NSCLC in stadio precoce avvenga da parte di un team multidisciplinare che, insieme all'oncologo, si riunisce per ‘discutere, valutare insieme la situazione e’ garantire la scelta del trattamento migliore.
 
"Attualmente radiologi, medici nucleari, pneumologi interventisti e chirurghi toracici valutano l'operabilità o meno dei tumori polmonari NSCLC negli stadi precoci, considerando che la chirurgia con intento curativo è ad oggi l'opzione standard di trattamento per una prognosi migliore- spiega Filippo de Marinis, Direttore della Divisione di Oncologia Toracica dell'Istituto Europeo di Oncologia (IEO) di Milano e Presidente AIOT (Associazione Italiana Oncologia Toracica)- Dopo l'intervento, il patologo identifica lo stadio della malattia resecata che guida l'indicazione agli eventuali trattamenti adiuvanti di chemioterapia. Con la rimborsabilità di atezolizumab, il patologo può eseguire il test del PD-L1. Se presente un'iperespressione di PD-L1, negli stadi patologici II-III selezionati si potrà praticare dopo 2 mesi di chemio standard, un'immunoterapia per 1 anno. Questa opzione consente di ridurre il rischio di morte di oltre il 58% e di aumentare la sopravvivenza a 5 anni del 18% rispetto alla sola chemio".
 
L'indicazione richiede quindi un aggiornamento della strategia di cura e del percorso del paziente oncologico polmonare con un ruolo chiave giocato dalle diverse figure dell'equipe multidisciplinare, compreso il chirurgo, che dovrà inserire questo nuovo passaggio nel percorso diagnostico per valutare l'eleggibilità del paziente al trattamento.
 
"Nel trattamento dei pazienti con tumore al polmone in stadio iniziale assume un ruolo sempre più centrale la Lung Unit che contribuisce alla presa in carico del paziente, in modo che si possa valutare fin da subito la fattibilità della terapia in adiuvante- sottolinea Federico Rea, Direttore Divisione Chirurgia toracica e Centro trapianto polmone del Policlinico Universitario di Padova- Oggi il percorso di questi pazienti prevede infatti un'integrazione dei trattamenti e un aggiornamento del percorso diagnostico per l'esecuzione dei test PD-L1, EGFR e ALK. La novità di atezolizumab segna proprio un cambio di passo, come dimostrano gli studi clinici per cui l'immunoterapia in adiuvante permette risultati più efficaci, indipendentemente dal tipo di intervento chirurgico effettuato sul paziente, presentando al contempo una tollerabilità al farmaco migliore rispetto alla sola chemioterapia".
 
"L'impatto delle recidive in oncologia è notevole anche in termini organizzativi per il Sistema Sanitario e poter ridurre il tasso di ripresa di malattia, in questo caso nel tumore del polmone, comporta benefici in primo luogo per i pazienti ma anche per il Sistema in ottica di sostenibilità", aggiunge Saverio Cinieri, Presidente Nazionale AIOM (Associazione Italiana di Oncologia Medica). Atezolizumab è frutto dell'impegno di Roche nella ricerca, nello studio e nello sviluppo di opzioni terapeutiche innovative per fornire trattamenti efficaci per ogni persona con diagnosi di tumore al polmone.
 
"Nel mondo ogni 14 secondi viene diagnosticato un tumore al polmone, che è uno dei più diffusi e dei più aggressivi. Quanto prima si interviene con una diagnosi precoce, quanto più si possono migliorare, con i trattamenti, gli outcome clinici e la qualità di vita dei pazienti. E' per questo che molti degli sforzi in ricerca e sviluppo di Roche si stanno concentrando proprio su questo setting, dove la chirurgia e le eventuali terapie associate hanno come ambizione la cura- dichiara Anna Maria Porrini, Direttore medico di Roche Italia- L'approvazione da parte di AIFA rappresenta un importante riconoscimento, perché rende ora rimborsabile anche in Italia la prima immunoterapia per il trattamento del tumore al polmone non a piccole cellule con espressione di PD-L1 = 50% in fase iniziale e alto rischio di recidiva dopo resezione chirurgica e chemioterapia. Accanto agli avanzamenti terapeutici, è necessario anche ottimizzare gli attuali percorsi di diagnosi e cura, nel loro complesso. Nasce con questo obiettivo il programma LungLive. Attraverso sinergie e partnership con la comunità scientifica, le associazioni di pazienti e tutti gli attori del Sistema Salute, vogliamo contribuire a ridefinire insieme il tumore al polmone, dando priorità ad alcuni ambiti di intervento quali: la prevenzione primaria, lo screening polmonare, la diagnosi precoce e l'accesso all'oncologia di precisione".
 
Il regime di rimborsabilità per atezolizumab, in classe H, nelle formulazioni da 1200 mg per infusione, soggetto a prescrizione da parte di Centri utilizzatori specificamente individuati dalle Regioni e a registro di monitoraggio, è stato stabilito dalla determina AIFA pubblicata in Gazzetta Ufficiale lo scorso 19 luglio.
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di Rossella Gemma

Tra pochi giorni oltre 8 milioni di bambini e ragazzi torneranno sui banchi di scuola e riprenderanno le normali attività quotidiane: come aiutarli ad affrontare al meglio il rientro? Secondo i Pediatri di Famiglia della Federazione Italiana Medici Pediatri (FIMP) grande attenzione va riservata alla qualità e durata del sonno, all’alimentazione e alla condivisione di quality time in famiglia.

Dormire il giusto numero di ore e bene è fondamentale per ripristinare l’energia, migliorare l’umore e avere una buona concentrazione in classe e durante lo svolgimento di altre attività come fare sport o dedicarsi a un hobby. Per questo, non bisogna sottovalutare gli effetti negativi della privazione dal sonno sull’organismo e l’importanza della regolarità nell’andare a dormire e nello svegliarsi.

“Con la scuola alle porte, è tempo per bambini e ragazzi di riprendere i ritmi sonno-veglia pre-estivi”, spiega Giuseppe Di Mauro, Segretario Nazionale FIMP per le Attività Scientifiche ed Etiche. “Il consiglio per i genitori è di anticipare la sveglia nei giorni che precedono il rientro a scuola, impostandola sull’orario di inizio delle lezioni, e prestare attenzione all’orario di addormentamento, puntando a creare una routine che possa equilibrare il riposo dei propri figli. Inoltre, dovrebbe essere vietato l’utilizzo di dispositivi come smartphone o tablet prima di andare a dormire. È ampiamente dimostrato che l’esposizione alla luce blu inibisca il processo di produzione della melatonina determinando difficoltà ad addormentarsi e una cattiva qualità del sonno. Infine, è bene ricordare che più il bambino è piccolo, più ha bisogno di dormire: si raccomandano 10-13 ore di sonno tra 3-5 anni, 9-11 ore nella fascia d’età 6-13 anni e non meno di 8-9 ore per i ragazzi tra i 14-17 anni”.

Ripristinare le corrette abitudini alimentari è altrettanto importante per aiutare bambini e ragazzi ad affrontare gli impegni scolastici e sportivi nelle migliori condizioni psico-fisiche. “È opportuno dedicare particolare attenzione alla colazione che costituisce il pasto più importante della giornata e, come tale, deve fornire il giusto apporto di tutti quegli elementi - carboidrati, proteine, vitamine e grassi - che contribuiscono a dare energia e favoriscono la concentrazione durante l’arco della giornata - aggiunge Di Mauro. Più in generale, un’alimentazione regolare deve prevedere cinque pasti al giorno (colazione, spuntino di metà mattino, pranzo, merenda e cena), preparati secondo i principi della Dieta Mediterranea, e gli orari dei pasti devono pian piano allinearsi con quelli che accompagnano la routine scolastica”.

Da non trascurare anche l’impatto positivo che piccoli momenti di condivisione in famiglia possono avere sui più piccoli: un suggerimento è quello di sfruttare la colazione come occasione di incontro per tutta la famiglia, prima di immergersi ognuno nei propri impegni quotidiani. Un ulteriore consiglio dei pediatri per preparare i ragazzi al ritorno a scuola e alleviare lo stress che questo può generare, è coinvolgerli in prima persona nell’acquisto dei materiali necessari per la ripresa delle attività scolastiche come zaino, quaderni, diario, libri.

“Come Pediatri di Famiglia, è per noi molto importante guidare i genitori nell’impostazione di una corretta routine con i propri figli, e aiutarli a creare armonia all’interno del nucleo familiare soprattutto in un momento ‘critico’ come quello del ritorno a scuola che coincide con un maggior carico di lavoro e di stress per i genitori”, commenta Antonio D’Avino, Presidente Nazionale FIMP. “In un’epoca di grandi trasformazioni dei modelli familiari, è importante costruire abitudini di vita quotidiana in grado di esercitare benefici diretti sulla salute fisica e psicologica di tutta la famiglia. Fa parte di questo percorso la condivisione di semplici ma essenziali regole per una crescita in salute come mangiare in maniera equilibrata, riposare in modo adeguato e avere uno stile di vita attivo attraverso lo sport o altre attività che tengano allenati la mente e il corpo”.  

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di Rossella Gemma

Le tecnologie immersive e l’intelligenza artificiale saranno le armi del futuro contro il tumore del colon-retto, che con 48.000 nuovi casi l’anno è il secondo tumore più frequente nel nostro Paese e anche il secondo fra i più letali con oltre 21.000 decessi l’anno (dato Fondazione Veronesi). Ma anche per le neoplasie localmente più avanzate la chirurgia, trova comunque indicazione come cura e la percentuale di sopravvivenza dopo 5 anni è di oltre il 60%, grazie ai programmi di screening, e all’evolversi delle tecniche chirurgiche con il supporto delle nuove tecnologie. Per affrontare il tumore del colon-retto, che colpisce l’ultimo tratto dell’apparato digerente e gastrointestinale, i chirurghi si affidano e si affideranno sempre più spesso al digitale. A sottolinearlo i massimi chirurghi europei e italiani, riuniti per il congresso Internazionale di chirurgia oncologica del retto organizzato dalla Chirurgia Generale dell’IRCCS Sacro Cuore Don Calabria di Negrar, diretta dal dottor Giacomo Ruffo, concluso di recente a Verona. Gli esperti hanno spiegato che l’intelligenza artificiale può guidare la scelta degli interventi, la realtà aumentata può renderli più efficaci e il metaverso può migliorare la formazione dei chirurghi ma anche aumentare la qualità degli interventi e l’accesso dei pazienti alle cure.

L’intelligenza artificiale può essere applicata alla chirurgia del colon-retto in varie fasi prima, durante e dopo gli interventi – spiega il dottor Giacomo Ruffo, direttore della Chirurgia Generale dell’IRCCS Negrar – Per esempio, può essere utile alla formazione dei chirurghi attraverso l’impiego di assistenti virtuali che possono affiancare i medici fornendo materiali didattici o anche utilizzando tecnologie di realtà aumentata che possano progettare scenari clinici per simulazioni chirurgiche che integrino immagini mediche e cartelle cliniche elettroniche. Un esempio è la radiomica in cui le immagini diagnostiche vengono analizzate dall’intelligenza artificiale che è in grado di elaborare una quantità enorme di dati prodotti da Tac e risonanza magnetica. Ciò consente di ricavare informazioni in grado di predire se un tumore possa rispondere con successo o meno a una determinata terapia, permettendo al paziente di accedere da subito al trattamento più indicato.L’analisi avanzata dei dati clinici con metodologie di intelligenza artificiale - aggiunge l’esperto - migliora la chirurgia del colon retto, riducendo per esempio il tasso di incidenza delle complicanze post-operatorie fino al 6%”.

L'intelligenza artificiale sta diventando uno strumento sempre più importante anche in chirurgia e i modelli predittivi e le applicazioni intraoperatorie stanno aprendo la strada verso una chirurgia personalizzata, sempre più spesso anche grazie all’impiego dei robot. Il progetto SARAS (Smart Autonomous Robotic Assistant Surgeon) dell’Unione europea, per esempio, sta sviluppando la prossima generazione di sistemi robotici chirurgici che consentiranno a un singolo chirurgo di eseguire la chirurgia robotica minimamente invasiva senza la necessità di un assistente chirurgo esperto. Già oggi la chirurgia robotica, con 1,5 milioni di procedure nel mondo, è ampiamente utilizzata ma i tassi di crescita medi sono del 17% annui: gli algoritmi di intelligenza artificiale sono parte fondamentale dello sviluppo della robotica perché aiutano a riconoscere tessuti sani e malati con una maggiore accuratezza e aiuteranno a rendere la robotica sempre più accurata e riproducibile, dando ai chirurghi ‘super-abilità’ nello svolgere i loro compiti. 

Senza contare le prospettive possibili grazie all’arrivo del metaverso in sala operatoria: “Con i visori dedicati che permettono di immergersi nel metaverso virtuale tridimensionale, per esempio, è possibile connettersi e condividere contenuti da qualunque parte del mondo per abbattere le barriere di distanza, consentendo quindi una maggiore equità di accesso alle cure ai pazienti che vivono anche nelle aree più remote, distanti dagli ospedali e dai centri di riferimento – osserva Ruffo -  I chirurghi nel metaverso possono poi ‘allenarsi’ su modelli virtuali specifici realizzati a partire dai dati anatomici e clinici del singolo caso, migliorando così le loro competenze senza mettere a rischio la sicurezza del paziente ma soprattutto l’accuratezza diagnostica e la qualità chirurgica; la realtà aumentata già oggi sta mostrando, sebbene su casistiche limitate, una buona capacità di miglioramento degli esiti oncologici grazie a una maggiore personalizzazione dell’intervento, all’ottimale visione tridimensionale, a un miglioramento considerevole della formazione chirurgica e può perfino, se utilizzata con i pazienti nel preoperatorio, ridurre l’ansia preoperatoria. Il metaverso potrà anche ridurre i costi di erogazione delle cure, di formazione medica e di gestione dei dati, creando anche nuove opportunità di archiviazione, condivisione e accesso ai dati stessi, ma sarà anche una preziosa occasione di prevenzione”.

Nel 2022 la Società Coreana di Colonproctologia per esempio ha avviato una campagna di sensibilizzazione sul tumore del colon-retto attraverso una piattaforma nel metaverso, rivolta ai più giovani per aumentare la loro consapevolezza sul tumore. “Un obiettivo importante, visto che l’incidenza di questo tumore aumenta di circa il 2% all'anno negli individui di età pari o inferiore a 50 anni, soprattutto nelle donne, e dell'1% all'anno in quelli di età compresa tra 50 e 64 anni, mentre diminuisce in quelli di età pari o superiore a 65 anni. I pazienti con insorgenza precoce hanno anche più spesso una malattia avanzata, il 27% ha metastasi a distanza rispetto al 21% dei pazienti più anziani: fare informazione, sfruttando anche canali digitali come il metaverso più utilizzati dalle fasce d’età più giovani, è perciò utile e necessarioNaturalmente la tecnologia resta al servizio del chirurgo al quale non può mai sostituirsi e cui spetta sempre l’interpretazione delle informazioni ricevute dai vari supporti tecnologici” conclude il dottor Ruffo.

 

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di Rossella Gemma

Può essere genetica o l’effetto collaterale di un intervento chirurgico, l’accumulo patologico di liquido linfatico nei tessuti può dipendere da diverse cause. Il linfedema, infatti, non è altro che la formazione di ingorghi in uno o più punti delle “autostrade linfatiche” che attraversano il nostro corpo e che possono causare gonfiore a mani, braccia e gambe. Talvolta il gonfiore è così grave da portare ad “arti d'elefanti”, dolorosi e ingombranti che rendono difficoltosa una qualsiasi azione semplice, come vestirsi o lavarsi.  Si tratta di una patologia in drammatico aumento. Si stima che nel mondo siano 350 milioni le persone con lifedema, 2 milioni solo in Italia. Numeri in forte crescita, nel nostro Paese circa 40mila in più all’anno. La buona notizia è che il linfedema può essere curato e addirittura prevenuto. Con specifici test genetici e la scintigrafia linfatica è infatti possibile mappare il rischio che si formino linfedemi e quindi si ha la possibilità di giocare d’anticipo. Questi saranno alcuni dei temi al centro del 29esimo Congresso Mondiale dell’International Society of Lymphology, che si terrà a Genova dall'11 al 15 settembre. Con oltre 100 relatori provenienti da tutto il mondo, nell’ambito dell’evento si terranno, convegni, corsi di aggiornamento e formazione dedicati in generale alla “Best Clinical Practice”, oltre a corsi specifici di aggiornamento tecnologico in campo medico, fisico e chirurgico per le patologie linfatiche di vario tipo, comprese le malattie rare su base malformativa, le malattie oncologiche e le complicanze linfatiche del trattamento dei tumori maligni, con le importanti implicazioni clinico-terapeutiche di tipo preventivo. Saranno inoltre trattate le patologie linfatiche distrettuali, non solo degli arti, ma anche dell’addome (vasi linfatici chiliferi) e del torace (dotto toracico). Al centro del congresso mondiale anche il lipoma o il flebolinfedema.

“Il convegno prenderà in esame le novità tecnologiche relative alle procedure di ‘imaging’ adottate per la diagnosi ed il trattamento medico, fisico e chirurgico delle malattie linfatiche, nonché i progressi raggiunti nella strumentazione relativa all’impiego del microscopio operatorio e dello strumentario microchirurgico, comprese le nuove tecniche di liposuzione per la patologia linfatica”, afferma Corrado Campisi, presidente del Congresso Mondiale di Linfologia e docente di Chirurgia Plastica all'Università di Catania -. Faremo il punto sui geni associati alle patologie linfatiche e che sono all'origine di sindromi rare e della predisposizione a deficit linfatici. Con la scintigrafia linfatica e le nuove applicazioni della linfografia a fluorescenza possiamo inoltre mappare specifiche sedi cruciali e ottenere informazioni preziose in vista di un intervento chirurgico. Ad esempio, se a un paziente oncologico viene raccomandata la rimozione chirurgica di un linfonodo ‘sospetto’ o in via preventiva, con la mappa delle 'autostrade linfatiche' è possibile prevedere il rischio di insorgenza di linfedema e, quindi, suggerire alternative più sicure o interventi terapeutici preventivi”. 

Sessioni specifiche verranno dedicate alle tecniche chirurgiche mini-invasive e all’uso di trattamenti a base di onde d’urto capaci di “sciogliere” gli ingorghi più duri e rendere il lavoro con il bisturi più semplice e più efficace. Tra le finalità del Congresso c’è anche quella offrire una panoramica mondiale della Linfologia Clinica, con l’aggiornamento biennale, in particolare, del “Consensus Document” della Società Internazionale di Linfologia sulla Diagnosi e la Terapia del Linfedema, che rappresenta l’espressione epidemiologicamente, socialmente e clinicamente  più rilevante nell’ambito delle malattie linfatiche.

 

 

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di Rossella Gemma

Il rischio di infarto e ictus in età adulta è strettamente correlato al tempo trascorso da sedentari durante l’infanzia. Uno studio condotto dall’Università della Finlandia orientale ha rivelato che le ore di inattività fisica accumulate da bambini sono legate a danni cardiaci osservabili in età adulta, anche in soggetti con peso e pressione sanguigna normali. “Questo significa che trascorrere troppo tempo seduti da piccoli, magari davanti lo schermo di uno smartphone o di un tablet, può arrivare a raddoppiare il rischio di avere un infarto o un ictus da adulti”, sottolinea Pasquale Perrone Filardi, presidente della Società Italiana di Cardiologia (SIC), professore ordinario di Cardiologia e direttore della Scuola di Specializzazione in Malattie dell’Apparato Cardiovascolare all’Università di Napoli Federico II. I risultati dello studio verranno presentati in occasione del congresso annuale dell’European Society of Cardiology che si terrà ad Amsterdam dal 25 al 28 agosto.

In Italia la sedentarietà è una vera e propria emergenza giovanile. Secondo i dati Istati sarebbero circa 2 milioni i bambini che nel nostro paese non praticano sport e né attività fisica. I dati del sistema di sorveglianza Okkio alla Salute mostrano che, nel 2019, il 20,3% dei bambini non ha svolto alcuna attività fisica il giorno precedente l’indagine; il 43,5% ha ancora la TV nella propria camera da letto e il 44,5% trascorre più di 2 ore al giorno davanti a tv, tablet e cellulare. “Nel nuovo studio i ricercatori hanno rilevato che l’eccessiva sedentarietà, oggi molto diffusa nei bambini e negli adolescenti, appesantisce letteralmente il cuore - spiega Perrone Filardi -. Studi precedenti condotti su adulti hanno dimostrato che un cuore più pesante da adulti aumenta le probabilità di infarto e ictus. I bambini e gli adolescenti quindi dovrebbero muoversi di più per proteggere la loro salute cardiaca futura”.

Lo studio è parte del progetto Children of the 90s dell’Università di Bristol, iniziato nel 1990/1991 ed è il primo ad aver indagato l’effetto cumulativo del tempo sedentario valutato attraverso l’utilizzo di smartwatch. In totale sono stati coinvolti 766 bambini, di cui il 55% erano femmine e il 45% maschi. All’età di 11 anni, ai partecipanti è stato fatto indossare per sette giorni uno smartwatch per tracciarne le attività. La stessa cosa è stata ripetuta poi a 15 anni e di nuovo a 24 anni. I ricercatori hanno misurato il peso del ventricolo sinistro del cuore mediante ecocardiografia a 17 e 24 anni di età e i valori sono stati riportati in grammi rispetto all'altezza. In questo modo è stato possibile analizzare l’associazione tra il tempo sedentario tra gli 11 e i 24 anni e le misurazioni del cuore tra i 17 e i 24 anni, tenuto conto anche di altri fattori come età, sesso, pressione sanguigna, grasso corporeo, fumo, attività fisica e status socioeconomico. I dati indicano che a 11 anni i bambini erano sedentari per una media di 362 minuti al giorno, salita a 474 minuti al dì nell’adolescenza (15 anni) e a 531 minuti al giorno in giovane età adulta (24 anni). “Ciò significa che il tempo trascorso in modo sedentario è aumentato in media di 169 minuti (2,8 ore) al giorno tra l’infanzia e la prima età adulta – afferma Ciro Indolfi, past president della SIC -. I risultati dello studio mostrano che ogni minuto di tempo trascorso in modo sedentario dagli 11 ai 24 anni di età è associato ad un aumento di 0,004 grammi rispetto all'altezza (g/m 2) della massa ventricolare sinistra tra i 17 e i 24 anni di età. Se moltiplicato per 169 minuti di inattività aggiuntiva si arriva a un aumento giornaliero di 0,7 g/m 2, l'equivalente di un aumento di 3 grammi della massa ventricolare sinistra tra le misurazioni ecocardiografiche all’aumento di altezza medio”. Uno studio precedente sugli adulti aveva rilevato che un aumento simile della massa ventricolare sinistra in un periodo di sette anni è associato a un rischio raddoppiato di malattie cardiache, ictus e morte. 

“Nello studio i bambini sono risultati sedentari per più di sei ore al giorno e questo numero è aumentato di quasi tre ore al giorno fino al raggiungimento dell’età adulta – concludono Perrone Filardi e Indolfi -. I risultati della ricerca indicano che l’accumulo di tempo inattivo è correlato al danno cardiaco indipendentemente dal peso corporeo e dalla pressione sanguigna. I genitori dovrebbero quindi incoraggiare i bambini e gli adolescenti a muoversi di più e a limitare il tempo trascorso sui social media e sui videogiochi. Perché il modo in cui si trascorrono le giornate da piccoli può influenzare in maniera determinante la salute cardiaca futura”.

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di Rossella Gemma

Perdere peso con l’aiuto della chirurgia bariatrica può avere un impatto importante anche sul rischio di ammalarsi e di morire di tumore. Uno studio condotto dall’Università dello Utah, a Salt Lake City (Usa), pubblicato oggi sulla rivista Obesity, ha infatti dimostrato che i pazienti con obesità grave sottoposti all’intervento chirurgico hanno un rischio inferiore del 25% di sviluppare tumori, compresi quelli non correlati all’obesità. Le donne sottoposte all’intervento hanno addirittura un rischio inferiore del 41% di sviluppare tumori correlati all’obesità. Lo studio ha anche dimostrato che le donne che hanno perso peso grazie al bisturi hanno un rischio più basso del 47% di morire per cancro, rispetto alle donne obese non sottoposte a chirurgia. I molteplici vantaggi della chirurgia bariatrica saranno al centro della 26esima edizione del congresso mondiale dell’International Federation for the Surgery of Obesity and Metabolic Disorders (IFSO), che si svolgerà a Napoli dal 30 agosto al 1° settembre, sotto la guida del presidente mondiale, l’italiano Luigi Angrisani, professore associato in Chirurgia Generale all’Università Federico II Napoli.

“Sebbene ci siano numerosi studi che hanno già stabilito un’associazione positiva tra l’indice di massa corporea e l'incidenza del cancro, fino ad oggi non era esattamente chiaro se la riduzione del peso corporeo tramite chirurgia portasse a una riduzione del rischio di cancro – commenta Angrisani -. Questo perchè è difficile ottenere una perdita di peso significativa e prolungata in popolazioni numerose e quindi statisticamente significative. Ma il nuovo studio mostra chiaramente che con una perdita di peso sostanziale e duratura, come quella che si può ottenere con la chirurgia bariatrica, è possibile ottenere una riduzione importante del rischio di ammalarsi e di morire per tumore, rispetto ai pazienti obesi che non ricorrono al bisturi. Questa ricerca dunque è un’altra importante conferma dei benefici a lungo termine della chirurgia per la perdita di peso nella prevenzione del cancro”.

Lo studio si basa sul confronto fra incidenza e mortalità per cancro. I dati sono stati stratificati per tipo di tumore, sesso, stadio del cancro e tipo di intervento chirurgico. Sono stati coinvolti quasi 22mila pazienti sottoposti a chirurgia bariatrica che sono stati abbinati per fare un confronto con persone obese ma non operate. Il periodo di riferimento considerato è piuttosto lungo: parte dal 1982 ed arriva fino al 2019. Le procedure chirurgiche a cui sono stati sottoposti i pazienti sono: bypass gastrico, bendaggio gastrico, gastrectomia a manica o altri interventi di “switch” duodenale. 

“Il nuovo studio ha dato un altro importante contributo alla nostra comprensione della relazione tra obesità e cancro – evidenzia Angrisani -. I risultati aggiungono nuove evidenze alla letteratura scientifica, indicando che la significativa perdita di peso osservata con la chirurgia bariatrica riduce il rischio di diversi tipi di cancro. Il rischio del cancro nelle donne, che rappresentano la maggior parte delle persone sottoposte a chirurgia bariatrica, risulta notevolmente ridotta. Le persone con obesità e i medici dovrebbero prendere in seria considerazione questi benefici quando valutano e discutono con i propri pazienti l’opportunità di sottoporsi a chirurgia bariatrica”.

 

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di Rossella Gemma

Anche se il numero di procedure di cardiologia interventistica è in aumento, i livelli di accesso alle terapie sono ancora indeguati rispetto ai fabbisogni epidemiologici. Così solo poco più di 4 italiani candidabili su 10 hanno avuto accesso nel 2022 alla procedura di impianto percutaneo transcatetere della protesi valvolare aortica (TAVI) e solo 2 su 10 beneficia della procedura di riparazione percutanea della valvola mitralica. Altrettanto scarso è l’accesso a procedure di intervento mini-invasive per la prevenzione dell’ictus. Infatti solo al 2% degli italiani potenzialmente candidabili alla procedura di chiusura percutanea dell'auricola sinistra ne ha beneficiato. Parliamo di pazienti che non possono assumere, in alternativa, anticoagulanti orali (indicati in chi soffre di fibrillazione atriale non valvolare); mentre solo 1/3 dei pazienti candidabili all'intervento percutaneo di chiusura del forame ovale pervio (PFO) ne ha beneficiato; infine solo l’1%  ha avuto accesso al trattamento percutaneo dell'embolia polmonare (PE), che consente di rimuovere il coagulo di sangue grazie ad un intervento mininvasivo che aiuta a risolvere i casi più seri e ad alto rischio con controindicazione alla trombolisi. Sono in sostanza pazienti, oltre 155 mila, esclusi dalle procedure minivasive. Questi sono alcuni dei dati relativi raccolti ed elaborati dagli esperti della Società Italiana di Cardiologia Interventistica (GISE), l'unica realtà italiana dotata di un Registro dell’attività di 273 Laboratori di emodinamica e cardiologia interventistica italiani. Il Report è stato discusso a Roma, presso il Ministero della Salute, durante il congresso GISE Think Heart, a cui hanno preso parte il Ministro Orazio Schillaci e AGENAS.

“Il Report di GISE rappresenta uno strumento importante per disporre di dati utili a migliorare la programmazione e l’assistenza. La sinergia isituzionale è una leva essenziale per accelerare il processo di efficientamento del servizio sanitario nazionale in un’ottica di maggiore resilienza e sostenibilità che il Ministero della Salute è impegnato a portare avanti. Le innovazioni scientifiche e tecnologiche in questo senso giocano un ruolo fondamentale soprattutto per superare le disuguaglianze ancora esistenti e fare in modo che tutti i cittadini possano accedervi. Su questo anche GISE con il suo contributo può costituire un valido alleato”, osserva il Ministro della Salute On. Orazio Schillaci.

Angioplastica, TAVI, riparazione della valvola mitrale e gli interventi mini-invasivi di prevenzione dell'ictus, come la chiusura dell'auricola sinistra e la chiusura del PFO hanno raggiunto e hanno addirittura superato i livelli pre-Covid, ad esclusione dell'angioplastica. Nel 2022 per esempio sono state eseguite 11.476 TAVI a fronte delle 10.103 registrate nel 2021 e delle 6.888 del 2018 o delle 8.255 del 2019. Gli interventi di riparazione della valvola mitrale sono state 1.451 nel 2022 a fronte dei 1.325 del 2021 e 1.105 del 2018 o 1.224 del 2019. Le procedure di chiusra dell'auricola sinistra eseguite nel 2022 sono state 1.878, quando nel 2021 erano 1.561 e nel 2018 solo 989. Allo stesso modo gli interventi di chiusura del PFO esguiti nel 2022 sono stati 3.978 a fronte dei 3.608 dell'anno prima e ai 3.192 del 2018. Discorso a parte per le angioplastiche: 149.993 quelle eseguite nel 2022 a fronte delle 158.689 del 2018 e 160.018 del 2019.

"Dal confronto con il panorama internazionale appare evidente come in Italia la penetrazione di alcune importanti innovazioni scientifiche e tecnologiche nel campo dell’interventistica cardiovascolare risulti inadeguata sia in termini di numero di pazienti trattati rispetto al fabbisogno, sia di disomogeneità tra le varie aree geografiche del Paese - commenta Giovanni Esposito, Presidente GISE e Direttore della UOC di Cardiologia, Emodinamica e UTIC dell’Azienda Ospedaliera Universitaria Federico II di Napoli -. Uno dei principali obiettivi istituzionali di GISE è quello di presentare un piano di azione concreto che ci consenta di garantire l’accesso su tutto il territorio nazionale a cure ormai ritenute standard  secondo le raccomandazioni delle principali linee guida internazionali. Questo documento è incentrato su 4 principali ambiti di cura dell’interventistica cardiovascolare: il trattamento transcatetere della stenosi valvolare aortica, la riparazione percutanea della valvola mitrale, la prevenzione dell’ictus cardio-embolico mediante chiusura percutanea dell’auricola sinistra nei pazienti con fibrillazione atriale non valvolare e l’ottimizzazione della rivascolarizzazione coronarica con ausilio dello studio funzionale delle lesioni coronariche. Lo scopo del documento è quello di descrivere il profilo clinico e l’impatto economico delle suddette metodiche, le attuali barriere cliniche, organizzative e gestionali per l’accesso alle cure sul territorio nazionale e le possibili soluzioni per il superamento di suddette barriere”

Il GISE si propone dunque, ancora una volta, come “alleato” strategico per lo sviluppo della cardiologia interventistica.

Fondamentale è anche la collaborazione tra GISE e AGENAS. “I nostri obiettivi comuni sono molti e diversi - spiega Esposito -: dal miglioramento dei flussi informativi e all’introduzione di soluzioni evolute volte all’assistenza dei pazienti affetti da malattie cardiovascolari; dallo sviluppo di indicatori di esito e di processo in grado di cogliere in modo più puntuale l’appropriatezza, l’efficacia e la qualità delle cure, nonché l’efficienza dei processi alla valorizzazione dei dati dei registri clinici per approfondimenti specifici su ambiti assistenziali di interesse cardiologico; fino alla valutazione dell’impatto di procedure interventistiche sugli outcome, anche al fine di identificare potenziali fattori di rischio modificabili, e all'elaborazione di documenti di indirizzo evidence-based su ambiti di incertezza clinica”.

“Ci attendono sfide importanti per il prossimo futuro - prosegue Esposito -. La sostenibilità e la resilienza del sistema sanitario passa inevitabilmente dalla capacità di programmare correttamente le risorse, garantire l’utilizzo delle tecnologie che permettono non solo il miglioramento degli outcome clinici ma anche di rispondere ai bisogni del sistema nel suo complesso. È diventato quantormai urgente affrontare e risolvere il problema della scarsità di personale e di strutture per fare fronte al maggior carico assistenziale seguito alla pandemia (es. liste attesa, mancate diagnosi). Infine - conclude - riteniamo che una corretta rilevazione di indicatori di processo, organizzativi e di outcome saranno fondamentali per la programmazione delle attività e la valutazione multidisciplinare delle tecnologie che aumentano la capacità del sistema e che saranno fondamentali per vincere queste sfide”.

“Come noto l’Agenzia, su mandato del Ministero della Salute, realizza ed aggiorna annualmente il Programma nazionale per la valutazione dei processi e degli esiti dell’assistenza sanitaria (PNE) – spiega il Direttore Generale di AGENAS Dr. Domenico Mantoan -. Il PNE, nella sua veste di osservatorio permanente sull’efficacia, l’appropriatezza clinico-organizzativa e l’equità di accesso alle cure, rappresenta un importante punto di riferimento per tutti i professionisti del Servizio Sanitario Nazionale. Nell’ambito del PNE, da diverso tempo si è intensificato il dialogo con il mondo scientifico, grazie alla sottoscrizione di specifici accordi di collaborazione e ricerca. In particolare, con la Società Italiana di Cardiologia Interventistica (GISE) è stata sottoscritta una convenzione volta a sviluppare metodologie di analisi delle performance assistenziali, anche attraverso l’integrazione di dati clinici con le informazioni desunte dai sistemi informativi sanitari. Specifica attenzione è riservata alla valutazione di impatto delle procedure interventistiche sulle valvole cardiache, anche in ragione del fatto che a tutt’oggi non è possibile distinguere dai dati della scheda di dimissione ospedaliera (SDO) gli interventi cosiddetti open da quelli per via transcatetere (TAVI). A tal proposito, sono allo studio specifiche proposte per la revisione delle linee guida per la codifica della SDO”, conclude Mantoan. 
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di Rossella Gemma

Seguire l’evoluzione del tumore al cervello più diffuso e aggressivo, il glioblastoma, fin dalla comparsa delle prime cellule maligne, per aprire la strada a nuove possibilità di cura grazie a informazioni sullo sviluppo della malattia finora inaccessibili con le tecniche di indagine sperimentale convenzionali. Tutto questo oggi è possibile grazie a un ‘codice a barre’ genetico, che rende ogni cellula tumorale tracciabile e identificabile nel tempo e nello spazio, così da poter seguire passo passo la crescita della massa tumorale in un modello sperimentale nel topo. Grazie a tecniche di biologia molecolare avanzate, come l’analisi del trascrittoma, e a modelli computazionali che hanno consentito di simulare al computer l’evoluzione del tumore, è stato possibile studiare i fattori che ne influenzano la crescita, come le dinamiche di diversificazione e selezione che si instaurano fra i diversi cloni di cellule neoplastiche. L’innovativo approccio, che apre la strada a nuove scoperte e possibilità nella ricerca e nella cura del glioblastoma, è stato messo a punto da un team di ricercatori dell’IRCCS Ospedale Policlinico San Martino di Genova e del Dipartimento di Medicina Sperimentale dell'Università di Genova, guidato dal Prof Paolo Malatesta con il principale contributo di Davide Ceresa. I risultati ottenuti sono di tale rilievo da essere stati appena pubblicati su Cancer Cell, una delle riviste più importanti del settore.

Il glioblastoma, con circa 1500 nuovi casi all’anno in Italia, è il tumore cerebrale più diffuso ma anche il più aggressivo e ancora oggi poco conosciuto nelle fai iniziali. Più frequente negli uomini che nelle donne (1.6 a 1) e nella fascia d’età fra i 45 e i 75 anni, rappresenta il 45% di tutti i tumori che si sviluppano nel cervello. Le radiazioni ionizzanti, come raggi X e gamma, sono riconosciute come fattore di rischio per la comparsa del glioblastoma, che dà sintomi quando la massa tumorale, espandendosi, aumenta la pressione e dilata i vasi sanguigni provocando disturbi come mal di testa a intensità crescente, vomito, attacchi epilettici. La terapia è estremamente complessa e, sfortunatamente, non offre ancora una soluzione definitiva - osserva Paolo Malatesta, coautore dello studio, responsabile del Programma di NeuroOncologia Sperimentale del IRCCS San Martino di Genova e professore di Biologia Molecolare presso l'Università di Genova - Attualmente, l'aspettativa di vita per i pazienti affetti da glioblastoma rimane inferiore a tre anni; il miglioramento delle cure potrebbe passare tuttavia da una maggiore comprensione dello sviluppo del tumore, che è molto eterogeneo dal punto di vista cellulare ed è poco conosciuto nelle sue fasi iniziali”.

Proprio per comprendere meglio l’evoluzione della malattia fin dai primissimi stadi, i ricercatori del San Martino hanno messo a punto un modello di glioblastoma in cui fosse possibile tracciare ogni singola cellula neoplastica, nel tempo e nello spazio. “Abbiamo introdotto nelle cellule da monitorare una sorta di ‘codice a barre’, una particolare stringa di DNA che oltre a indurre la malattia consente anche di tracciare successivamente le cellule tumorali, seguendole grazie a sofisticate tecniche di sequenziamento – spiega Davide Ceresa, coautore dello studio e ricercatore al San Martino –Monitorando l’evoluzione delle cellule neoplastiche abbiamo per esempio osservato che entro il primo mese dalla mutazione in senso tumorale la maggior parte dei cloni di cellule neoplastiche scompaiono; confrontando i dati sulla crescita tumorale reale con quelli ottenuti grazie a modelli computazionali in grado di simularla in differenti scenari e condizioni, abbiamo verificato l’esistenza di fortissima selezione clonale  primi stadi di sviluppo del glioblastoma, che si mantiene anche in fasi successive. Le dinamiche di competizione cellulare sembrano perciò giocare un ruolo primario nel determinare lo sviluppo del glioblastoma, anche in stadi più avanzati della sua crescita. In sostanza, attraverso sofisticati programmi che ci permettono di simulare la crescita del tumore abbiamo potuto testare le nostre ipotesi confrontando le simulazioni con il reale sviluppo della neoplasia”. 

Grazie all’analisi del trascrittoma, ovvero dell’insieme dei geni trascritti, a livello di singola cellula, i ricercatori hanno anche identificato nel gene Myc, già noto per il suo ruolo in altri tumori, uno dei maggiori responsabili di questo processo di selezione clonale. “La diminuzione dell’espressione di Myc è sufficiente a iniziare dinamiche di competizione fra cloni di cellule maligne anche in gliomi impiantati nel cervello di animali da esperimento, confermandone l’importanza nell’evoluzione della malattia – aggiunge Malatesta –. Questo nuovo approccio, che fonde tecniche di biologia molecolare innovative con l’uso di modelli computazionali avanzati, ha permesso di raccogliere informazioni importanti sul glioblastoma ma soprattutto apre la strada a una migliore comprensione dei meccanismi di sviluppo di questo tumore: capirne a fondo l’evoluzione fin dai primissimi stadi era finora impossibile, utilizzando le tecniche convenzionali che permettono di studiarlo solo retrospettivamente, ma il tracciamento clonale e le tecniche di analisi trascrittomica potranno ora fornire nuove e importanti informazioni che serviranno a conoscerlo e combatterlo meglio”.