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di Rossella Gemma

In merito all’andamento della situazione epidemiologica da Covid-19, il Ministero della Salute specifica che nella settimana 11-17 gennaio 2024 si registrano:
 
• 9.675 nuovi casi positivi con una variazione di -53,8% rispetto alla settimana precedente (n: 20.945)
• 258 deceduti con una variazione di -27,3% rispetto alla settimana precedente (n: 355)
• 180.932 tamponi effettuati  con una variazione di -20,1% rispetto alla settimana precedente (n: 226.569)
• Tasso di positività del 5,3% con una variazione di -3,9% rispetto alla settimana precedente (9,2%)
 
Il tasso di occupazione in area medica al 17/01/2024 è pari al 6% (3723  ricoverati), rispetto all’8,2% (5.131 ricoverati) del 10/01/2024.
 
Il tasso di occupazione in terapia intensiva al 17/01/2024 è pari all’1,9% (167 ricoverati), rispetto al 2,4% (213 ricoverati) del 10/01/2024.
 
“Si consolida ulteriormente la decrescita del contagio da Sars-CoV-2. L’impegno di tutto il sistema e l’attenzione che i cittadini hanno posto e stanno ponendo nell’affrontarlo con gli strumenti che abbiamo imparato a conoscere e, quindi, ad usare, hanno determinato questo risultato. Il Ministero e gli istituti collegati continuano il proprio lavoro di monitoraggio di tutte le patologie a carattere respiratorio tipiche della stagione”. Così il Direttore Generale della Prevenzione Sanitaria del Ministero della Salute, Francesco Vaia.  
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di Rossella Gemma

I vaccini sono salvavita per gli over 65 che hanno più paura di ammalarsi che di vaccinarsi. Con l’imminente arrivo tra Natale e inizio anno del picco di influenza stagionale e il rialzo dei decessi per Covid, tutti a carico degli over 80, è necessario, ora più che mai, mettere in campo tutte le forze e le strategie possibili per aumentare le coperture vaccinali tra gli anziani. È l’appello che arriva dagli esperti della Società Italiana di Gerontologia e Geriatria (Sigg) che all’invito a vaccinarsi, aggiungono anche quello di farlo per più vaccini insieme nella stessa seduta. 

A dare una spinta in più contro la stanchezza e l’esitazione vaccinale sono i risultati di un recente studio coordinato dall’ospedale San Martino di Genova e pubblicato su Frontiers, che ha misurato l’impatto tra gli over 65 dell’aumento dell’adesione alla vaccinazione antinfluenzale, in termini di mortalità correlata all’influenza. I ricercatori hanno confrontato il numero di decessi degli over 65 con le coperture vaccinali registrate in 103 province e 110 città metropolitane di 14 regioni, durante 17 stagioni consecutive dal 2003 al 2019. Attraverso un sofisticato modello matematico, aggiustato per variabili sia cliniche che sociodemografiche e ambientali, hanno dimostrato che a fronte dell’aumento dell’1% della copertura vaccinale si ha una riduzione dello 0.6% delle morti legate all’influenza. “Si tratta di un risultato particolarmente importante – sottolinea Andrea Ungar, presidente Sigg e ordinario di Geriatria all’Università di Firenze -. Poiché in Italia muoiono ogni anno oltre 9000 persone a causa dell’influenza e della polmonite a essa associata, il dato significa che ogni punto percentuale in più della copertura vaccinale può salvare quasi 60 persone e, raggiungendo dal 56,8% il tasso minimo di copertura vaccinale del 75%, si potrebbero risparmiare 1500 vite ogni anno. Tutto questo indica che la longevità è un traguardo che si raggiunge anche grazie al contributo delle vaccinazioni. Massimizzare le protezioni offerte, innalzando le coperture vaccinali degli over 65 ai livelli auspicabili minimi, se non ottimali, raccomandati dalle istituzioni sanitarie nazionali e internazionali, è dunque un obiettivo prioritario e una scelta di sanità pubblica fondamentale e irrinunciabile”.  

L’aumento della copertura vaccinale contro l’influenza è cruciale anche perché in grado di promuovere il booster aggiornato contro le più recenti varianti di Covid-19, da rilanciare fortemente in questa fase facilitandone la somministrazione nel corso della stessa seduta del vaccino antinfluenzale. Infatti, il Covid sta rialzando la testa e, secondo i dati del Ministero della Salute elaborati dalla Fondazione Gimbe, nell’ultimo mese sono raddoppiati i decessi, con 881 casi tutti a carico degli over 80. “Numeri allarmanti – mette in guardia Ungar - che dovrebbero convincere gli ultra 80enni a mantenere alta la copertura con richiami ripetuti. Invece, i grandi anziani si tengono alla larga dalla quarta e quinta dose del vaccino: solo il 7% degli over80 e meno del 6% di chi è tra i 69 e i 79 anni, ha fatto il richiamo. Tutto ciò, nonostante i recenti dati del Centro europeo per la prevenzione delle malattie dovrebbero spingere gli anziani a ‘scoprire il braccio’. Lo studio ha testato, infatti, l’efficacia della quinta dose tra gli over80 in Portogallo e in Belgio, registrando un’efficacia protettiva del vaccino rispetto al pericolo di morte del 72%”.

La vaccinazione è lo strumento salvavita per la popolazione anziana non solo per Covid e influenza, ma anche contro la polmonite da pneumococco e l’herpes zoster, due patologie che presentano elevati livelli di ricoveri e mortalità negli over 65. “La polmonite pneumococcica in Italia fa registrare ogni anno 630mila nuovi casi tra gli anziani e oltre 8mila decessi afferma Ungar. Il batterio è inoltre responsabile di circa 10.000 ospedalizzazioni l’anno negli over 65 e rappresenta anche un fattore di rischio per la diffusione di antibiotico-resistenza, dal momento che nel 30% dei casi i patogeni che causano questa malattia non rispondono ai trattamenti farmacologici. La vaccinazione pneumococcica può essere simultanea a quella antinfluenzale e va fatta una sola volta nella vita”.

L’orizzonte della profilassi vaccinale per gli anziani è ancora più ampio e comprende anche la vaccinazione contro l’herpes zoster, meglio conosciuto come fuoco di Sant’Antonio, causato dalla riattivazione del virus della varicella che negli anziani provoca ogni anno circa 5000 ricoveri per complicanze ed è responsabile in 1 caso su 5 di una dolorosa nevralgia post‐erpetica invalidante.

Alla luce di questi dati, risulta quindi fondamentale rafforzare l’invito alla vaccinazione della popolazione anziana, favorendo la co-somministrazione di più vaccini per aumentare la copertura ed evitare un grande numero di ospedalizzazioni e decessi. L’attenzione ai vaccini negli over65 – prosegue Ungar - è anche uno degli obiettivi stabiliti dalle Nazioni unite e dall’Organizzazione mondiale della sanità nel piano della Decade of Healthy Ageing 2021-2030, reso pubblico qualche settimana fa. Il piano invita i governi allo sviluppo di programmi di immunizzazione concentrati sulle persone anziane che possano garantire un accesso equo alla vaccinazione, l'ottimizzazione dei canali e delle strategie di comunicazione sanitaria per combattere l'esitazione vaccinale e promuovere la conoscenza dei vaccini, ma anche la sorveglianza e il monitoraggio della copertura immunologica e della diffusione delle infezioni”.

 

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di Rossella Gemma

Dopo la carne, è tempo di riconsiderare anche il ruolo dello zucchero nella lotta al cancro. Uno studio condotto da un gruppo di ricercatori dello Shanghai Chest Hospital e dell’Università Jiao Tong di Shanghai ha rivelato che il fruttosio – uno zucchero semplice, contenuto naturalmente nella frutta, nel miele e, in forma di additivo, in alcuni alimenti dolci – può essere un alleato prezioso del nostro sistema immunitario nel contrastare il tumore. I risultati dello studio sono stati pubblicati sulla rivista Cell Metabolism* e commentati in un editoriale riportato su Nature Immunology*. “Che il fruttosio sia associato alla crescita di alcuni tumori, come quelli intestinali, e delle mestastasi lo sapevamo da tempo – commenta Paolo Ascierto, presidente della Fondazione Melanoma e oncologo al Pascale di Napoli –. Quello che fino ad oggi risultava ancora poco chiaro è il suo impatto sulla risposta immunitaria anti-tumorale. Il nuovo studio colma in parte questa lacuna e mostra che una dieta ricca di fruttosio è in grado di rafforzare la risposta immunitaria contro il cancro, controllandone la crescita. Il fruttosio alimentare dunque promuove l’immunità antitumorale delle cellule”. 

Nello studio i ricercatori hanno nutrito un gruppo di topolini con melanoma con una dieta ricca di fruttosio e un altro con una dieta normale. Ebbene, dopo già due settimane i topi alimentati con una dieta ad alto contenuto di fruttosio hanno registrato una significativa riduzione della crescita tumorale e della letalità indotta dal tumore, rispetto a quelli del gruppo di controllo. Anche uno studio precedente condotto su topi con carcinoma polmonare ha dimostrato che nutrire gli animali con una dieta ad alto contenuto di fruttosio ha ridotto le dimensioni del tumore e aumentato la sopravvivenza. “Nel nuovo studio i ricercatori cinesi hanno osservato che il fruttosio alimentare aumenta la risposta immunitaria dei linfociti T denominati CD8+, che hanno la funzione di identificare e uccidere le tumorali, controllando così la progressione della malattia – sottolinea Ascierto –. In particolare, il consumo di fruttosio ha innescato la produzione di leptina, l’ormone prodotto dal tessuto adiposo che segnala al cervello la sensazione di sazietà, sia nel sangue che nel tessuto tumorale. L’aumento della leptina è associato all'incremento dell’attività dei linfociti T antitumorali, potenziandone così la risposta immunitaria contro il cancro”.

Inoltre, i ricercatori hanno anche rilevato che i livelli più elevati di leptina nel plasma sono correlati con l’aumentata attività delle cellule T antitumorali nei pazienti con cancro ai polmoni. “Ma attenzione: lo studio non indica che fare incetta di zuccheri aiuti automaticamente a contrastare il tumore – conclude Ascierto –. Piuttosto i risultati suggeriscono che, come per la carne che contiene un ingrediente chiave (TVA) in grado di potenziare l’immunoterapia, anche per lo zucchero, in particolare per il fruttosio, potrebbe non essere tutto bianco o nero. Sono dunque necessari ulteriori studi che ci aiutino a comprendere se e come possiamo sfruttare il fruttosio per rafforzare l’azione del nostro sistema immunitario contro il cancro”.

 

*https://www.cell.com/cell-metabolism/fulltext/S1550-4131(23)00367-4?_returnURL=https%3A%2F%2Flinkinghub.elsevier.com%2Fretrieve%2Fpii%2FS1550413123003674%3Fshowall%3Dtrue 

 

*https://www.nature.com/articles/s41590-023-01730-8 

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di Rossella Gemma

Ministero della Salute, istituzioni regionali, Istituto superiore di sanità e le principali società scientifiche del mondo cardio, cerebro e vascolare (ANMCO, GISE, SIC e SICVE) insieme per discutere e confrontarsi sull'urgenza di avere un Piano Nazionale per le Malattie Cardio, Cerebro e Vascolari. Sullo sfondo il lavoro di Meridiano Cardio, la piattaforma sulle patologie cardio, cerebro e vascolari di The European House- Ambrosetti, che ha proposto l'attivazione di un gruppo di lavoro da parte del ministero della Salute per l'elaborazione di un Piano Nazionale.
 
Dopo diversi Piani di patologia licenziati dal ministero della Salute, dedicati alla malattia diabetica, ai tumori, alla salute mentale, alle malattie rare, un Piano specifico per le malattie cardio, cerebro e vascolari non è più rinviabile considerato l'elevato burden ad esse associato. Si parla di patologie che continuano a rappresentare la prima causa di mortalità e di ricovero ospedaliero e tra le principali cause di disabilità nel nostro Paese.
 
Sono stati infatti più di 226.000 i decessi legati a queste patologie nel 2020, con un tasso di mortalità standardizzato che varia dal 23,2 per 10.000 abitanti della Sardegna ai 36,9 della Campania. Il burden economico associato è invece quantificabile in 42 miliardi di euro considerando i costi diretti e indiretti, tra cui la perdita di produttività, l'assistenza informale e I costi sociali. A livello di costo pro capite l'Italia è seconda solo alla Germania tra i principali Paesi europei (726 vs. 903 euro).
 
Si tratta di malattie caratterizzate da una molteplicità di fattori di rischio, modificabili e non, tra cui l'età è uno dei più significativi: l'evoluzione del contesto demografico, con una popolazione over-65 destinata a crescere dal 24,1% del 2023 al 34,9% del 2050, fa sì che queste patologie saranno sempre più una priorità di sanità pubblica.
 
'Analizzando l'attuale gestione dei pazienti cardio, cerebro e vascolari, Meridiano Cardio ha individuato 6 ambiti di intervento su cui è importante agire- ha affermato Daniela Bianco, Partner e Responsabile dell'Area Healthcare di The European House- Ambrosetti. Per ciascuno di questi ambiti sono stati individuati 1 obiettivo specifico e un piano di azione per un totale di 30 interventi. Va sottolineato come sia fondamentale agire anche sulle difformità regionali al fine di ridurre le disuguaglianze negli outcome di salute e garantire l'equità nelle cure, uno dei pilastri del nostro Ssn che quest'anno compie 45 anni'.
 
Con riferimento alla prevenzione primaria e secondaria e diagnosi precoce, va sottolineato come l'80% dei decessi legati a queste malattie sia prevenibile. Contestualmente, il 98% della popolazione è esposto ad almeno un fattore di rischio e l'82% dei maggiorenni non ha uno stile di vita sano. Guardando alla prevenzione secondaria, l'82% dei pazienti in prevenzione secondaria ancora non raggiunge il target di colesterolo LDL< 55mg/dL previsto dalle più recenti linee guida EAS/ESC. Gli screening cardiovascolari permettono una diagnosi precoce e l'implementazione di interventi tempestivi: in 10 piccoli comuni, lo screening di oltre 1.000 over-65 ha permesso di rilevare una prevalenza delle patologie valvolari nelle forme lieve e moderata 3 volte superiore rispetto a dati non di real world.
 
L'accesso all'innovazione tecnologica e farmacologica ha permesso, tra il 1990 e il 2020, una riduzione del tasso di mortalità per queste patologie, ma il nostro Paese presenta ancora alcune criticità rilevanti. Solo per citare alcuni esempi, il 60% dei pazienti candidabili non ha avuto accesso alle TAVI, I PCSK9i rappresentano solo lo 0,5% del consumo dei farmaci ipolipemizzanti, solo 3 regioni hanno un riconoscimento ad hoc per la procedura di chiusura dell'auricola (prevenzione dell'ictus). A questo si aggiunge la burocrazia che rallenta l'attività clinica e 'scoraggia' l'accesso alle terapie più innovative: secondo una recente analisi, se ogni medico prescrittore dedicasse alle visite anche solo metà del tempo impiegato nella compilazione dei Registri, ciascuna delle quali può richiedere fino a 40 minuti, si potrebbero effettuare circa 53.000 visite in più, con impatti positivi in termini finanziari ma anche organizzativo-gestionali, a partire dal problema delle liste d'attesa.
 
L'aderenza alle terapie e alle prestazioni, oltre a impattare direttamente sugli outcome di salute, ha anche ripercussioni importanti sulla sostenibilità del Ssn: secondo i dati del Centro Studi SIC Sanità in Cifre di FederAnziani una migliore aderenza alla terapia può far risparmiare al Ssn fino a 11,4 miliardi di euro annui, in termini di minori eventi avversi, inferiori accessi ai pronto soccorso e ospedalizzazioni e una minore spesa farmaceutica. Secondo i più recenti dati di Aifa, il 43% dei cittadini presenta un'alta aderenza ai farmaci ipolipemizzanti e il 52% presenta un'alta aderenza agli anticoagulanti e ai farmaci per l'ipertensione e lo scompenso cardiaco. L'aderenza diminuisce al crescere dell'età ed è più bassa nelle regioni del sud.
 
La telemedicina e gli altri strumenti di sanità digitale non solo contribuiscono a una più efficace gestione dei pazienti, ma promuovono un vero e proprio cambio di paradigma nell'erogazione delle cure. Il nostro Paese in questo ambito presenta una scarsa interconnessione e interoperabilità tra i sistemi informativi, dei limiti oggettivi alla condivisione e all'utilizzo dei dati sanitari a causa della normativa privacy e una carenza di competenze informatiche del personale sanitario. Solo 8 regioni prevedono il riconoscimento amministrativo e il rimborso del tele-monitoraggio dei dispositivi impiantabili e sono isolati i casi di regioni che prevedono il rimborso per la tele-visita cardiologica/cardiochirurgica di controllo.
 
Le malattie cardio, cerebro e vascolari rendono sempre più manifesta la necessità di rivedere il rapporto tra ospedale e territorio, di dotare il sistema di risorse umane, infrastrutturali e tecnologiche adeguate ai bisogni di salute e di rendere i servizi socio-sanitari sempre più integrati e prossimi al cittadino: la continuità di cura tra i diversi setting assistenziali riveste quindi un ruolo cruciale. Oggi esiste ancora un gap evidente tra la mortalità a 30 giorni e a 1 anno sia per l'Infarto miocardico acuto (7% vs. 9,1%) che per l'ictus (10,5% vs. 17%). A impattare negativamente sulla mortalità a 1 anno è anche la bassa percentuale di soggetti impegnati in programmi di riabilitazione: il 70% dei pazienti che ne hanno avuto indicazione non svolge alcun tipo di riabilitazione cardiologica. Sul fronte della multidisciplinarità, secondo una survey di Cittadinanzattiva sul paziente cardiovascolare, solo il 7,4% dei medici dichiara di far parte di percorsi strutturati con interazione costante tra specialisti e MMG.
 
I pazienti diventano sempre più attori protagonisti del proprio percorso di cura ed è quindi necessario investire nel coinvolgimento e nell'empowerment del paziente. Oggi però il livello di health literacy dei cittadini italiani è più basso rispetto alla media europea (il 23% ha un livello di health literacy inadeguato vs. una media europea del 13%). In aggiunta c'è uno scarso livello di consapevolezza della propria condizione di salute, basti pensare che il 52% è inconsapevole di essere iperteso (34%) o ne è consapevole ma non si cura (18%).
 
'L'Italia, in analogia con quanto accade a livello europeo- ha dichiarato l'onorevole Francesco Ciancitto, Componente della Commissione Affari Sociali della Camera dei Deputati- è chiamata ad agire per ridurre il burden di queste patologie che ad oggi non sono mai state oggetto di un Piano programmatico di settore. Con la mozione di fine luglio, chiediamo al Governo di impegnarsi ad attivare entro l'anno un tavolo di lavoro per l'elaborazione di un Piano Nazionale per le malattie cardio, cerebro e vascolari che si ponga in continuità e coerenza con il Piano Nazionale della Prevenzione, il Piano Nazionale Cronicità e i lavori di Agenas e dell'Alleanza per le Malattie cardio-cerebrovascolari'.
 
'Come Presidente dell'Intergruppo Parlamentare per le malattie cardio, cerebro e vascolari- ha aggiunto la senatrice Elena Murelli, presidente dell'Intergruppo Parlamentare per le malattie cardio, cerebro e vascolari e Componente della Commissione Affari sociali, sanità, lavoro pubblico e privato, previdenza sociale del Senato- condivido appieno la necessità di un tavolo su queste patologie il cui coordinamento deve essere fatto dal Ministero della Salute e a cui dovranno essere coinvolti tutti gli stakeholders, professionisti e associazioni dei pazienti tenendo in considerazione anche le best practice adottate in altri Paesi europei'.
 
Dopo la Spagna con la 'Estrategia en Salud Cardiovascular del Sistema Nacional de Salud', l'Italia potrebbe essere il secondo grande Paese europeo a dotarsi di un Piano nazionale. Si consideri che in Europa le malattie cardiovascolari sono 1 delle 3 aree di focalizzazione, insieme a salute mentale e malattie rare, dei Paesi che si stanno alternando alla Presidenza del Consiglio dell'Unione Europea a partire da giugno 2023 (Spagna, Belgio e Ungheria) e che la Commissione Europea ha stanziato 53 milioni di euro per il programma quadriennale JACARDI, lanciato a novembre 2023 per ridurre il carico delle malattie cardiovascolari, del diabete e dei fattori di rischio a essi correlati. Il momento per agire è quanto mai propizio, considerate anche le risorse disponibili del Pnrr.

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di Rossella Gemma

Si stima che entro il 2035 metà della popolazione mondiale sarà in sovrappeso od obesa raggiungendo i 3,36 miliardi. L’obesità è una malattia che provoca importanti patologie cardiovascolari. Sono almeno 400.000 gli italiani con obesità e scompenso cardiaco, due patologie legate a doppio filo ed entrambe in continua crescita nel nostro Paese, dove gli obesi sono circa 6 milioni e i pazienti con insufficienza cardiaca oltre 1 milione. I chili di troppo sono spesso il primo passo sulla strada che porta allo scompenso e si stima che fino all’80% dei pazienti con scompenso cardiaco e frazione di eiezione preservata, pari alla metà dei casi, sia anche obeso. La combinazione è molto pericolosa, perché può aumentare fino all’85% il rischio di eventi cardiovascolari fatali, ‘rubando’ almeno 6 anni di aspettativa di vita. Lo ricordano gli esperti in occasione dell’84° Congresso Nazionale della Società Italiana di Cardiologia (SIC), a Roma fino al 17 dicembre, sottolineando che l’aspettativa di vita e quella di salute dei pazienti obesi sono più basse rispetto a chi è normopeso. Il paradosso è nato perché l’indice di massa corporea non è l’indicatore più adeguato della reale obesità che si misura meglio con un metro: il girovita deve essere meno di 88 cm nelle donne e 102 cm negli uomini, ma soprattutto deve misurare meno di metà dell’altezza, per la salute del cuore e non solo. Il 2023 è stato però l’anno della svolta per le terapie: è ora possibile trattare i pazienti con scompenso cardiaco con un farmaco specifico anti-obesità, semaglutide, ottenendo un miglioramento dei sintomi e della funzionalità oltre che una riduzione significativa del peso corporeo.

“Scompenso cardiaco e obesità sono due epidemie in rapidissima crescita: l’insufficienza cardiaca oggi colpisce oltre un milione di italiani e si stima un incremento del 30% dei casi entro il 2030 –osserva Pasquale Perrone Filardi, presidente SIC e direttore della scuola di specializzazione in malattie dell’apparato cardiovascolare dell’Università Federico II di Napoli - L’aumento dei casi è trainato in parte dall’incremento dell’aspettativa di vita, perché la prevalenza della patologia raddoppia a ogni decade di età e dopo gli 80 anni lo scompenso colpisce il 20% della popolazione. Tuttavia l’insufficienza cardiaca ha anche l’obesità fra le sue cause principali perché i chili in eccesso comportano, fra le altre cose, un incremento dell’infiammazione generale, un maggiore stress su metabolismo e sistema cardiovascolare e un aumento del grasso viscerale anche a livello cardiaco”. 

“È proprio il grasso viscerale e addominale il più pericoloso e quello che dovrebbe essere realmente misurato: la semplice valutazione dell’indice di massa corporea e quindi del rapporto fra peso e altezza non basta - aggiunge Ciro Indolfi, past-president della Società Italiana di Cardiologia e ordinario di cardiologia all’Università degli Studi “Magna Grecia” di Catanzaro -. È necessario valutare la distribuzione del grasso e non soltanto l’indice di massa corporea così ogni possibile vantaggio di sopravvivenza per gli obesi sparisce. L’obesità infatti fa male al cuore: la probabilità di avere un infarto, un ictus o un evento cardiovascolare fatale aumenta dal 67 all’85% rispetto a chi è normopeso, tanto che i chili in eccesso ‘rubano’ fino a 6 anni di vita, secondo un recente studio pubblicato su Jama”.

Il grasso corporeo in eccesso comporta ipertensione, sindrome metabolica, diabete, fibrillazione atriale, tutte patologie che si associano poi all’insufficienza cardiaca. Oltre la metà dei pazienti con scompenso ha il cuore che non è in grado di riempirsi correttamente e di questi si stima che fino all’80% sia obeso. “La buona notizia è che il 2023 è stato un anno di svolta perché l’obesità è diventata per la prima volta un target farmacologico per combattere lo scompenso cardiaco. Oggi, finalmente si può intervenire con una terapia mirata all’obesità. Nello studio SELECT pubblicato di recente sul New England Journal of Medicine, condotto su oltre 17.000 pazienti in sovrappeso od obesi con malattia cardiovascolare ischemica, ma non diabetici, dimostra che il trattamento con semaglutide sottocute una volta alla settimana riduce del 20% il rischio di mortalità cardiovascolare, infarto e ictus rispetto ai pazienti in trattamento con placebo. Questa è una evidenza destinata a impattare significativamente sul contrasto del rischio cardiovascolare. Il farmaco ha mostrato anche ottimi risultati sull’insufficienza cardiaca a frazione di eiezione preservata, – sottolinea Perrone Filardi - dove ha dimostrato di migliorare la qualità di vita e la capacità di esercizio dei pazienti. 

“Semaglutide inoltre riduce l'infiammazione (-43.5% dei valori di proteina C reattiva) e comporta una maggiore perdita di peso (-13% vs. 2.6%) rispetto al placebo. Si tratta perciò di una strategia di trattamento che incide in maniera positiva sulla perdita di peso ma anche direttamente sul profilo infiammatorio che accompagna spesso le malattie cardiovascolari ischemiche e lo scompenso. Ciò avrà probabilmente un impatto significativo sulla pratica clinica, soprattutto perché vi è una carenza di terapie efficaci in questo gruppo di pazienti vulnerabili”, conclude Gianfranco Sinagra, direttore del Dipartimento Cardiotoracovascolare Asugi e Università di Trieste.

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di Rossella Gemma

Aumentare l’aderenza alla terapia contro il colesterolo con farmaci da assumere a intervalli sempre più lunghi, efficaci e sicuri. Una sfida sanitaria molto seria se si considera che fino al 50% degli individui abbandona la terapia tradizionale con le statine a un anno dalla prescrizione e che la stragrande maggioranza degli italiani over 50 presenta valori molto al di sopra di quelli consigliati, responsabili di circa 50.000 decessi l’anno, con una spesa sanitaria che arriva a 16 miliardi per costi diretti e indiretti. una prospettiva di miglioramento viene dal nuovo farmaco a mRNA, disponibile in Italia da poco più di un anno, in ragione dei primi dati di efficacia registrati da Cholinet. Si tratta di uno studio multicentrico italiano, il primo e più ampio mai realizzato sulla sicurezza ed efficacia di Inclisiran, la nuova molecola capace di “spegnere” l’mRNA che porta le informazioni utili alla proteina PCSK9, implicata nel trasporto e nella distruzione dei recettori che catturano il colesterolo. 

L’indagine condotta in 30 centri italiani dal gruppo di ricerca guidato dal professor Pasquale Perrone Filardi, presidente SIC e direttore della scuola di specializzazione in malattie dell’apparato cardiovascolare dell’Università Federico II di Napoli, ha coinvolto 311 pazienti seguiti in ambulatorio per un anno, a cui è stata somministrata la prima dose del nuovo farmaco, in aggiunta alla terapia orale standard. “I pazienti arruolati, al momento della prima somministrazione, avevano valori di colesterolo LDL in media di 112 mg/dl, raggiungendo 50 mg/dl al primo controllo a 3 mesi commenta Perrone Filardi -. I pazienti hanno presentano dunque, una riduzione media dei livelli del colesterolo del 55% che si è mantenuta stabile fino all’ultima osservazione a 10 mesi, con una aderenza record del 100% spiegabile sostanzialmente con la scarsa quantità di effetti collaterali rispetto alle statine e una modalità di somministrazione meno impegnativa, con due iniezioni sottocutanee l’anno anziché una pillola al giorno”.

Ma l’aspetto sicuramente più importante dello studio riguarda l’efficacia del farmaco. “Se questa terapia viene data in aggiunta alle terapie orali convenzionali, circa due terzi dei pazienti ad alto rischio cardiovascolare riescono a raggiungere il target stabilito dalle linee guida correnti, cioè un colesterolo LDL inferiore a 55mg/dl”, evidenzia Perrone.

“Si tratta di un fatto molto importante poiché una delle sfide della prevenzione cardiovascolare è proprio il raggiungimento dei livelli di colesterolo raccomandati dalle linee guida per il proprio livello di rischio - aggiunge Ciro Indolfi, past-president della Società Italiana di Cardiologia e ordinario di cardiologia all’Università degli Studi “Magna Grecia” di Catanzaro -. Non esistono infatti livelli di colesterolo normali in quanto più è alto il livello di rischio individuale del paziente, tanto più basso deve essere il valore di colesterolo LDL”.

In futuro un’altra applicazione della terapia genica a mRNA potrebbe battere il colesterolo ‘genetico’, cioè la lipoproteina a, una forma particolare di colesterolo che, a differenza di altre, è influenzata principalmente dalla genetica, cosa che rende difficile il suo controllo attraverso diete o stile di vita. Sono infatti in fase avanzata di studio nuovi farmaci capaci di abbattere i livelli di lipoproteina a di oltre il 94% con effetti che si protraggono per quasi un anno. Un risultato straordinario considerando che attualmente non esistono trattamenti specifici per la lipoproteina a.  Se gli studi in corso confermeranno l’efficacia nel ridurre i principali eventi cardiovascolari e la sicurezza, questi farmaci costituiranno un passo avanti e una speranza per milioni di persone affette da questa condizione genetica genetico ad alto rischio di malattie cardiovascolari.

 

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di Rossella Gemma

I virus dell'epatite, in particolare la C e la Delta, sono da sempre nemici giurati della salute del fegato. Da qualche tempo, però, le conquiste della ricerca scientifica stanno consentendo progressi insperati nelle terapie. Farmaci che, tuttavia, per avere efficacia devono essere usati in tempo ingaggiando una lotta col virus per stanarlo nelle fasce di popolazione in cui si può annidare. Il tema è stato trattato a Firenze, durante un simposio che si è svolto durante il congresso della Società Italiana di Malattie Infettive e Tropicali, SIMIT. Il filo conduttore del contrasto epidemiologico ai due sottotipi di epatite è indubbiamente il ruolo cruciale degli screening, come strategia di salute pubblica, ma con variabili e peculiarità da tenere bene a mente. Ad esempio, come spiega Maurizia Brunetto, direttore dell'unità operativa Epatologia dell'Azienda ospedaliero-universitaria di Pisa, "l'epatite Delta è una malattia rara, perché si genera nei soggetti portatori del virus dell'epatite B che hanno una coinfezione o una superinfezione con il virus dell'epatite Delta. Si stima essere prevalente, a livello italiano, in circa il 7-8% di portatori di HBV".

Ovvero, appunto, dell'hepatitis B virus. "Quindi- aggiunge- si tratta di un numero relativamente modesto di soggetti. Il problema, però, è che la coinfezione, ma soprattutto la superinfezione induce un danno epatico severo a rapida evoluzione. Questo vuol dire che abbiamo soggetti con cirrosi e complicanze prima dei 50 anni, quindi siamo dinanzi a una malattia davvero molto severa con un impatto sull'aspettativa di vita del paziente coinfetto molto drammatica". Le linee guida europee non possono che essere stringenti e suggerire, di rimando, a tutti i pazienti positivi all'epatite B di sottoporsi,ì almeno una volta nella loro vita, a un test per individuare gli anticorpi specifici per la Delta.

"Purtroppo i dati di sorveglianza ci dicono che questo non succede- ammette Brunetto- una percentuale variabile, in Italia per fortuna non molto elevata ma comunque del 20-25%, dei soggetti interessati non viene sottoposta a screening. Questo significa che l'eventuale infezione non viene identificata. In altre nazioni europee la situazione è ben più grave". La fascia di popolazione più a rischio ha una media di 50-60 anni, in sostanza una coda demografica dell'epidemia sviluppatasi in Italia a cavallo fra gli anni '70 e '80, ma attualmente, fa sapere ancora Brunetto, "più del 50% dei casi, almeno nella mia esperienza, riguarda stranieri che hanno un'età media di 35 anni: il 70% di loro ha cirrosi". La silver linings, il risvolto positivo, è che negli ultimi tempi l'approccio terapeutico ha conosciuto un balzo in avanti. Merito di una nuova molecola, la bulevirtide, in grado di bloccare l'ingresso del virus e la sua diffusione nel fegato. Arrivata prima in modalità compassionevole e, successivamente, fornita dallo Stato, un recente studio mostra risultati lusinghieri.

"È un farmaco molto innovativo- spiega ancora la specialista- perché dopo 6-12 mesi di trattamento in oltre il 70% dei pazienti trattati abbiamo visto una importante caduta dei livelli del virus, pari a 2 logaritmi, ma soprattutto un abbattimento della transaminasi". Risultati ancora più apprezzabili, considerato che si tratta di studi di pratica clinica "condotti in pazienti con malattia in fase avanzata e che dimostrano un miglioramento clinico della sintesi epatica, dei livelli delle piastrine e sul carico della malattia". Un cambio di paradigma che risalta ancora di più se si considera l'opzione terapeutica d'elezione: l'interferone in presenza di cirrosi diventa molto difficile da dosare, lasciando dunque "orfani" di una cura.

Non è questo il rischio che corrono i pazienti colpiti da epatite C che, ormai da anni, possono contare su un farmaco in grado di spazzare via il virus. Il problema, in questo frangente, è andare a caccia della carica virale dove si può nascondere: in alcune popolazioni target, ovvero fra tossicodipendenti e detenuti in carcere, ma anche nella popolazione generale. Il vero silver bullet- il proiettile magico, in particolare per centrare il traguardo dell'eradicazione in Italia e nel mondo nel 2030- è una volta di più lo screening. In Italia con un decreto del 2020 è stato attivato un fondo specifico dal valore di 71,5 milioni per testare i soggetti a rischio, ma anche alcune fasce della popolazione, facendo emergere circa 10 mila nuovi casi con infezione attiva.

"L'Italia è a buon punto- racconta Loreta Kondili, ricercatrice del centro nazionale per la salute globale dell'Istituto Superiore di Sanità- possiamo dire che i risultati sono soddisfacenti, anche se in Italia sono 14 le Regioni che hanno attivato lo screening per la popolazione generale e quasi 18 Regioni lo hanno fatto o lo stanno facendo per le popolazioni chiave". Farà la differenza, dunque, insistere sul monitoraggio e sull'indagine prorogando il fondo oltre il 2023 ed estendendo lo screening all'intera popolazione. Attività da affiancare, ad avviso di Kondili, a un'efficace azione di sensibilizzazione da parte delle Regioni verso i pazienti, ma anche nei confronti dei medici specialisti.

 
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di Rossella Gemma

Non c’è più tempo per attendere che altri bambini muoiano, o vadano incontro a disabilità grave, quando potrebbero essere salvati da una diagnosi precocissima e dalle terapie disponibili. Sono sessantacinque, tra associazioni e federazioni, le realtà che hanno sottoscritto una lettera-appello indirizzata al Presidente del Consiglio Giorgia Meloni, al Ministro della Salute Orazio Schillaci e al Sottosegretario alla Salute Marcello Gemmato. La richiesta è chiara: rendere operativo lo Screening Neonatale anche per le nove patologie che sono state ritenute ammissibili dal Gruppo di Lavoro sullo SNE, nominato dal Ministero stesso.

Parliamo di Atrofia muscolare spinale (SMA), Mucopolisaccaridosi tipo 1 (MPS I), Immunodeficienze combinate gravi (Deficit di adenosina deaminasi (ADA-SCID) e Deficit di purina nucleoside fosforilasi (PNP-SCID)), Adrenoleucodistrofia X-linked (X-ALD), Iperplasia surrenalica congenita (SAG), Sindrome Adrenogenitale, Malattia di PompeMalattia di Fabry (X-linked) e Malattia di Gaucher. Sono le patologie, citate nella lettera, che hanno ottenuto parere positivo all’inserimento nel panel di screening dal Gruppo di Lavoro istituito dal Ministero della Salute nell’estate 2021. Sono passati oltre due anni, ma dell’ampliamento ancora nessuna conferma né formalizzazione.

L’iniziativa è stata promossa da AIAF – Associazione Italiana Anderson-Fabry APS, associazione che aderisce all’Alleanza Malattie Rare, e che ha trovato subito il sostegno di moltissime altre realtà legate al mondo delle malattie rare e della disabilità.

“Da sempre AIAF sostiene l’importanza dell’allargamento dello Screening Neonatale in modo omogeneo in tutta Italia, senza differenze regionali – spiega Stefania Tobaldini, Presidente dell’Associazione Italia Anderson-Fabry Aps – Anche per la Malattia di Fabry la diagnosi alla nascita può evitare compromissioni multiorgano estremamente debilitanti e permettere una buona qualità di vita. Sapere che esiste una lista di malattie rare, tra cui la Fabry, già pronte per essere inserite nel panel di Screening Neonatale Esteso (SNE), ma in stallo da due anni per lungaggini burocratiche, rappresenta davvero qualcosa di inaccettabile. Per questo, insieme ad altre 64 tra associazioni e federazioni abbiamo deciso di sollecitare un’accelerazione da parte del Ministero della Salute perché recepisca l’intera lista inserita nelle raccomandazioni del Gruppo di Lavoro sullo SNE”.

"Crediamo che questa battaglia delle associazioni meriti il massimo della visibilità – dichiara Ilaria Ciancaleoni Bartoli, Direttrice di Osservatorio Malattie Rare – si tratta di una norma disattesa, di un diritto negato. Ci auguriamo che tutti i media vogliano supportare le associazioni in questa loro legittima richiesta e con noi insistano per far pressione sui decisori, che purtroppo stanno esercitando molto bene l'arte di non decidere".

 

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di Rossella Gemma

C’è una “relazione pericolosa” fra la miopia, un problema in aumento esponenziale soprattutto fra i giovani, e il distacco di retina, un evento grave che è una delle cause più frequenti di perdita della vista. La miopia, specialmente se elevata e quindi superiore a 6/8 diottrie, indebolisce l’occhio e fa salire il rischio di distacco retinico, che nel nostro Paese si stima riguardi 50mila casi l’anno. L’epidemiopia, ovvero l’epidemia di miopia che sta dilagando nel mondo con 2,6 miliardi di persone colpite, più del doppio dell’obesità, rischia di portare anche a un’epidemia di distacchi di retina. Dal 2009 al 2016, stando a recenti dati raccolti in Olanda e pubblicati su Jama Ophthalmology, il numero di casi è cresciuto del 44% e ciò non si può spiegare solo con l’incremento della popolazione, pari al 3%, ma proprio con la crescita continua dei casi di miopia. Il 30% della popolazione globale è costretto già oggi a portare gli occhiali per vedere da lontano, ma le previsioni degli Oms stimano che entro il 2050 si arriverà al 50%. Tutto questo preoccupa gli esperti che, in occasione dell’11esimo congresso internazionale Floretina ICOOR, a Roma da oggi al 3 dicembre con il patrocinio di Fondazione Policlinico universitario Agostino Gemelli IRCCS, hanno lanciato l’allarme: occorre prevenire la miopia e soprattutto far sì che le persone con questo difetto della vista si sottopongano a controlli regolari e siano informate dei sintomi del distacco di retina a cui prestare attenzione, così da rivolgersi subito allo specialista. 

L’incremento dell’incidenza dei distacchi di retina del 44% osservato fra il 2009 e il 2016 dal Dutch Rhegmatogenous Retinal Detachment Study, non spiegabile attraverso l’aumento della popolazione o anche del numero di interventi chirurgici oftalmologici come la cataratta, porta a temere che l’epidemia di miopia possa provocare anche un’epidemia di distacchi di retina nel prossimo futuro – osserva Stanislao Rizzo, presidente di Floretina ICOOR, direttore del dipartimento di oculistica del Policlinico A. Gemelli IRCCS e Ordinario di oculistica presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore –. Uno studio statunitense pubblicato di recente su Scientific Reports  ha confermato i timori: analizzando i dati di oltre 85 milioni di persone si è verificato che in chi ha una miopia elevata il rischio di distacco retinico cresce di ben 39 volte, nei miopi più lievi è comunque triplo rispetto alla norma. L’occhio miope è infatti più fragile perché molto allungato, le trazioni interne che si creano possono contribuire ad aumentare il pericolo di distacco retinico”.

Il distacco di retina si ha quando uno strato di questo tessuto si solleva da quello sottostante, che fornisce nutrimento e ossigeno alle cellule retiniche: queste in breve tempo iniziano a morire, comportando una grave perdita di capacità visiva. La retina non ha recettori per il dolore, ma subito prima del distacco retinico si hanno sintomi evidenti fra cui, come spiega Francesco Faraldi, Direttore della Divisione di Oculistica dell’Azienda Ospedaliera Ordine Mauriziano – Umberto I di Torino , “le miodesopsie, ovvero corpi fluttuanti come macchie, punti neri, ‘mosche’ che offuscano la visione. Si possono poi avere lampi di luce improvvisi nella zona periferica del campo visivo o la visione di un’ombra scura. In questi casi è fondamentale rivolgersi prima possibile a un’oculista; è inoltre opportuno che chi è miope, per valutare lo stato di salute della propria retina, si sottoponga annualmente a una visita di controllo. Questo vale fin da giovanissimi: il distacco di retina non è appannaggio esclusivo degli adulti e fino al 6% dei casi riguarda la popolazione pediatrica con meno di 12 anni. Nella maggior parte dei casi si tratta di eventi successivi a traumi, ma nel 15% la colpa è di una miopia elevata, come indicano recenti dati dell’American Academy of Ophthalmology§. Anzi, come ha dimostrato un recente studio su Clinical Ophthalmology§§, è proprio la presenza di una miopia elevata ad associarsi a distacchi retinici in età più giovane: la maggioranza dei casi avviene fra i 45 e i 60 anni, ma prima accade l’evento, più è probabile la concomitanza di una miopia elevata, presente nel 40% dei distacchi di retina under 50 e soltanto nel 13% degli over 50. Con l’andare degli anni, quindi, il ‘peso’ della miopia sulla fragilità della retina si riduce ed è perciò importante fare controlli regolari e prestare attenzione ai segnali d’allarme”, conclude Faraldi.

La miopia è la difficoltà di vedere da lontano. I miopi hanno il bulbo oculare “a palla da rugby”, più lungo della norma: ciò fa sì che gli oggetti distanti non vengano messi a fuoco esattamente sulla retina – spiega Rizzo -. L’allungamento del bulbo oculare è dovuto in parte a cause genetiche e in parte, prevalente, all’eccessiva visione da vicino, che costringe l’occhio a spostare la messa a fuoco”. Questa condizione, spesso sottovalutata, può portare ad alterazioni gravi come il distacco di retina, ma anche all’aumento del rischio di glaucoma e maculopatie. Per 500 milioni di persone colpite da miopia elevata, questa sarà causa secondo l’Oms di cecità irreversibile. Eppure, mai come oggi, nei casi che non dipendono da ereditarietà, è possibile prevenirla o rallentarne l’evoluzione per evitare pericolose conseguenze.

In aumento esponenziale tra bambini e giovani, la miopia, a differenza che in passato, insorge ormai intorno ai 10 anni anziché a 13-15 e si stabilizza a 30 anni e non più a 18 – aggiunge Rizzo -. Per prevenirla è dunque necessario ridurre l’uso eccessivo di tablet e smartphone, più dannosi della tv, e trascorrere un paio di ore al giorno all’aria aperta”. 

Se in passato le uniche armi per la miopia erano le lenti correttive e l’intervento di chirurgia refrattiva di rimodellamento della cornea, adesso ci sono rimedi che permettono di rallentarne la progressione. “Tra i più efficaci, un collirio a base di atropina estremamente diluita, che agisce su alcuni recettori dei tessuti dell’occhio. Sebbene il meccanismo esatto dell'atropina nel controllo della miopia non sia noto, si ritiene che l'atropina agisca direttamente o indirettamente sulla retina o sulla parete oculare, contrastando quindi la crescita dell'occhio”.

Da qualche anno, poi – aggiunge l’esperto – sono arrivate delle lenti a defocalizzazione periferica, cioè una messa a fuoco perfetta al centro, come le lenti tradizionali, e l’inserimento nella parte esterna di una serie di microlenti di circa 1 millimetro che hanno un fuoco spostato in avanti. In questo modo creano meno stimolo e meno allungamento del bulbo oculare, con un’efficacia del 50% nel rallentamento della velocità di progressione della miopia”, conclude Rizzo.

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di Rossella Gemma

"Sulla fecondazione in vitro è urgente impiegare con maggiore sistematicità le nuove metodologie che oggi vengono adottate per migliorarne il successo, considerato che le problematiche relative alla sterilità di coppia hanno assunto una notevole rilevanza sociale, in un Paese a crescita zero e con un saldo negativo tra nascite e morti. Attualmente, in Italia la fecondazione in vitro contribuisce al 3% circa delle nascite, vale a dire circa 11mila nati, mentre nel mondo sono nati più di 5 milioni di bambini". È l'allarme lanciato dal professor Ermanno Greco, presidente della Società Italiana della Riproduzione (S.I.d.R.), in occasione del Congresso Nazionale della Società che si è aperto oggi a Roma. L'evento, in programma fino a domani presso la sede dell'Università Medica Internazionale UniCamillus di Roma, è organizzato insieme alla Società Italiana Policistosi Ovarica (SIPO) per affrontare, in un dibattito diffuso con medici e ricercatori, le tante tematiche del settore.

 Secondo Greco, occorre "un'attenta riflessione anche sull'età delle donne" che decidono di affrontare questo tipo di percorso. "Oggi- ha precisato- l'età media di accesso della donna a un Centro di fecondazione assistita è superiore ai 38 anni e ciò determina notevoli ripercussioni sulle percentuali di successo dell'intervento, che sono del 15% a fresco e del 35% cumulativo". Il Congresso ha messo allora in luce le tecniche da "adottare in questa fascia di pazienti- ha spiegato Greco- dai protocolli di stimolazione ormonale a quelli utilizzati per scegliere l'embrione migliore da trasferire all'interno della cavità uterina, con un focus particolare sulla tecnica di diagnosi genetica preimpianto". Il Congresso ha quindi permesso di approfondire temi complessi come la fecondazione in vitro, il ruolo della diagnosi genetica preimpianto e quello relativo alle patologie oncologiche, ginecologiche e dell'endometriosi. È stata inoltre l'occasione per parlare delle tecniche di preservazione della fertilità, del ruolo dell'infertilità maschile e delle disfunzioni sessuali, ma anche delle strategie di supporto alla Procreazione Medicalmente Assistita (PMA) nella donna con la Sindrome dell'ovaio policistico, con un nuovo approccio green alle tecniche di procreazione assistita.
 
Ampio spazio al Congresso è stato assegnato alle tecniche di preservazione della fertilità femminile, che rivestono un'importanza strategica in una società in cui la donna cerca la gravidanza sempre più tardi. Ad aprire dibattiti e problematiche è però anche l'infertilità maschile, che oggi è in costante aumento, tanto da arrivare a costituire il 50% delle infertilità di coppia. In questa prospettiva, ha detto Greco, assumono un rilievo "sempre maggiore sia la diagnosi sia le terapie in grado di migliorare la capacità fecondante dello spermatozoo a base di ormoni o di integratori naturali". L'inquinamento atmosferico comporta "drammatiche" ricadute sulla fertilità umana ed è "essenziale" mantenere uno stile di vita sano, grazie soprattutto a un regime alimentare che vede nella Dieta Mediterranea un punto di riferimento fondamentale.
 
"L'alto livello di agenti inquinanti nell'aria di molte città italiane- ha sottolineato Greco- è infatti una delle principali cause dell'infertilità maschile e femminile, e dell'insorgenza di malattie genetiche. In un periodo di ecosostenibilità non sfugge neanche la fecondazione in vitro, soprattutto con l'incremento del numero dei cicli in Italia (nel 2020 circa 90mila) e a livello mondiale (circa un milione e mezzo). Al riguardo, occorre sviluppare meglio le strategie da adottare per diminuire l'impatto sull'ambiente delle tecniche di fecondazione assistita".
 
Tra i tanti temi del Congresso, infine, anche la fecondazione eterologa, possibile in Italia dal 2014 grazie a una sentenza specifica della Corte Costituzionale. Questa tecnica è in "costante aumento- ha aggiunto Greco- e sempre minore è il numero di pazienti che si reca all'estero per praticarla. Sono circa 11mila le coppie che nel 2021 si sono sottoposte a tale procedura, con una percentuale di nati vivi intorno al 30%, pari a circa 3.000 bambini nati", ha concluso.