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di Rossella Gemma
Sono circa 100 milioni le persone nel mondo che convivono con le conseguenze di patologie cerebrospinali o di traumi al cervello e al midollo a seguito di incidenti. Tra queste la spasticità e il dolore correlato sono una complicanza comune e debilitante a lungo termine. Si stima che questa colpisca il 65-78% dei pazienti con lesioni croniche del midollo spinale e il 25% degli individui che hanno avuto un ictus grave. Ad oggi i trattamenti convenzionali prevedono interventi chirurgici invasivi, come l’uso di pompe di baclofene che devono essere inserite nella cavità addominale per erogare il farmaco dall’interno, o il ricorso alla rizotomia dorsale selettiva, una tecnica neurochirurgica che consiste nell’interruzione della connessione tra alcuni nervi e il midollo spinale. Sono possibili anche trattamenti per via orale, meno invasivi, ma anche questi hanno efficacia limitata e sono spesso accompagnati da effetti collaterali indesiderati. I ricercatori dell’IRCCS Sacro Cuore Don Calabria di Negrar hanno invece, ora, definito un nuovo protocollo sperimentale per il trattamento non invasivo, più conservativo e a bassa tossicità della spasticità per mezzo della radiochirurgia stereotassica che prevede l’impiego della radioterapia per agire sui nervi spinali selezionati bloccando la conduzione elettrica responsabile degli spasmi.
“La spasticità è una condizione caratterizzata da un aumento eccessivo e anomalo del tono muscolare. In particolare, consiste in spasmi di uno solo o di più muscoli scheletrici che possono provocare rigidità durante il movimento con disagio o dolore e difficoltà motorie ai quattro arti, nella respirazione e nel riposo notturno – spiega Elena Rossato, direttore del Servizio di Medicina Fisica e Riabilitazione dell’IRCCS di Negrar - La spasticità ha quindi un grande impatto negativo sulla qualità di vita dei pazienti e interferisce fortemente con la loro capacità di compiere attività quotidiane come ad esempio il trasferimento dalla sedia a rotelle. Per questo motivo, la spasticità ha diverse conseguenze sociali e riabilitative con un alto tasso di procedure infermieristiche, ricoveri ospedalieri e costi”, sottolinea.
“Quello che è stato avviato all’IRCCS di Negrar è un protocollo che prevede l'utilizzo della radiochirurgia stereotassica per trattare pazienti affetti da spasmi invalidanti – afferma Luca Nicosia, radioterapista oncologo dell’IRCCS di Negrar -. I trattamenti ad oggi disponibili per questa condizione prevedono l'utilizzo di farmaci, gravati da effetti collaterali e da una progressiva perdita di efficacia, o di interventi chirurgici che, oltre a richiedere una specifica competenza, sottopongono pazienti molto fragili a operazioni importanti con potenziali conseguenze debilitanti. L'infusore di baclofene richiede, ad esempio, un intervento che potrebbe esporre i pazienti a complicazioni, inoltre deve essere ricaricato periodicamente e può essere soggetto a infezioni – dichiara -. In aggiunta a ciò, i pazienti potrebbero diventare progressivamente resistenti al trattamento. Altre terapie come l’iniezione della tossina botulinica intramuscolare o le iniezioni perineurali di alcol sono limitate nella dose e devono essere ripetute nel tempo, mentre soluzioni come la neurolisi chirurgica, le neurotomie selettive e le rizotomie sono caratterizzate da sessioni chirurgiche prolungate, complicazioni e richiedono un'équipe esperta – aggiunge -. La radiochirurgia stereotassica rappresenta, invece, una opzione non invasiva e con una elevata precisione che prevede una singola seduta di trattamento della durata di 40 minuti. Il trattamento è definitivo sulle sedi trattate e ha la capacità di ridurre o eliminare la spasticità. Il trattamento può essere ripetuto, ma solo su altre sedi. La radiochirurgia stereotassica è tipicamente utilizzata per intervenire su tumori solidi primari e metastatici e per il trattamento di malattie non oncologiche come l'oftalmopatia di Graves, le aritmie cardiache e la nevralgia del trigemino".
IL PROTOCOLLO SPERIMENTALE
“Il nostro è il primo centro al mondo a proporre questo trattamento innovativo all'interno di un progetto di ricerca multidisciplinare che coinvolge oltre alla radioterapia oncologica anche la fisiatria, la neurologia e l'anestesia per provarne l'efficacia – riprende Nicosia -. Nel 2022 abbiamo trattato 4 pazienti affetti da spasticità con uso della radiochirurgia stereotassica, ottenendo risultati importanti con una riduzione o risoluzione della spasticità e nessuna tossicità correlata al trattamento, come riportato nello studio pubblicato su Radiotherapy and Oncology. Gli esiti positivi raggiunti ci hanno portato ad avviare l’attuale sperimentazione che prevede di arruolare 10 pazienti adulti, affetti da spasticità diffusa e non trattabile con le terapie tradizionali”. “L'obiettivo primario dello studio sarà quello di stimare la riduzione della frequenza e dell’intensità degli spasmi dopo il trattamento monitorandola a 1, 3, 6 e 12 mesi dopo la radiochirurgia stereotassica – conclude Rossato -. Tra gli obiettivi secondari, inoltre, ci saranno anche quelli di valutare la tossicità acuta e tardiva, il tasso di ricaduta della spasticità e descrivere la variazione nella qualità di vita del paziente dopo il trattamento e il miglioramento del carico di lavoro dei caregiver”.
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Sono circa 100 milioni le persone nel mondo che convivono con le conseguenze di patologie cerebrospinali o di traumi al cervello e al midollo a seguito di incidenti. Tra queste la spasticità e il dolore correlato sono una complicanza comune e debilitante a lungo termine. Si stima che questa colpisca il 65-78% dei pazienti con lesioni croniche del midollo spinale e il 25% degli individui che hanno avuto un ictus grave. Ad oggi i trattamenti convenzionali prevedono interventi chirurgici invasivi, come l’uso di pompe di baclofene che devono essere inserite nella cavità addominale per erogare il farmaco dall’interno, o il ricorso alla rizotomia dorsale selettiva, una tecnica neurochirurgica che consiste nell’interruzione della connessione tra alcuni nervi e il midollo spinale. Sono possibili anche trattamenti per via orale, meno invasivi, ma anche questi hanno efficacia limitata e sono spesso accompagnati da effetti collaterali indesiderati. I ricercatori dell’IRCCS Sacro Cuore Don Calabria di Negrar hanno invece, ora, definito un nuovo protocollo sperimentale per il trattamento non invasivo, più conservativo e a bassa tossicità della spasticità per mezzo della radiochirurgia stereotassica che prevede l’impiego della radioterapia per agire sui nervi spinali selezionati bloccando la conduzione elettrica responsabile degli spasmi.
“La spasticità è una condizione caratterizzata da un aumento eccessivo e anomalo del tono muscolare. In particolare, consiste in spasmi di uno solo o di più muscoli scheletrici che possono provocare rigidità durante il movimento con disagio o dolore e difficoltà motorie ai quattro arti, nella respirazione e nel riposo notturno – spiega Elena Rossato, direttore del Servizio di Medicina Fisica e Riabilitazione dell’IRCCS di Negrar - La spasticità ha quindi un grande impatto negativo sulla qualità di vita dei pazienti e interferisce fortemente con la loro capacità di compiere attività quotidiane come ad esempio il trasferimento dalla sedia a rotelle. Per questo motivo, la spasticità ha diverse conseguenze sociali e riabilitative con un alto tasso di procedure infermieristiche, ricoveri ospedalieri e costi”, sottolinea.
“Quello che è stato avviato all’IRCCS di Negrar è un protocollo che prevede l'utilizzo della radiochirurgia stereotassica per trattare pazienti affetti da spasmi invalidanti – afferma Luca Nicosia, radioterapista oncologo dell’IRCCS di Negrar -. I trattamenti ad oggi disponibili per questa condizione prevedono l'utilizzo di farmaci, gravati da effetti collaterali e da una progressiva perdita di efficacia, o di interventi chirurgici che, oltre a richiedere una specifica competenza, sottopongono pazienti molto fragili a operazioni importanti con potenziali conseguenze debilitanti. L'infusore di baclofene richiede, ad esempio, un intervento che potrebbe esporre i pazienti a complicazioni, inoltre deve essere ricaricato periodicamente e può essere soggetto a infezioni – dichiara -. In aggiunta a ciò, i pazienti potrebbero diventare progressivamente resistenti al trattamento. Altre terapie come l’iniezione della tossina botulinica intramuscolare o le iniezioni perineurali di alcol sono limitate nella dose e devono essere ripetute nel tempo, mentre soluzioni come la neurolisi chirurgica, le neurotomie selettive e le rizotomie sono caratterizzate da sessioni chirurgiche prolungate, complicazioni e richiedono un'équipe esperta – aggiunge -. La radiochirurgia stereotassica rappresenta, invece, una opzione non invasiva e con una elevata precisione che prevede una singola seduta di trattamento della durata di 40 minuti. Il trattamento è definitivo sulle sedi trattate e ha la capacità di ridurre o eliminare la spasticità. Il trattamento può essere ripetuto, ma solo su altre sedi. La radiochirurgia stereotassica è tipicamente utilizzata per intervenire su tumori solidi primari e metastatici e per il trattamento di malattie non oncologiche come l'oftalmopatia di Graves, le aritmie cardiache e la nevralgia del trigemino".
IL PROTOCOLLO SPERIMENTALE
“Il nostro è il primo centro al mondo a proporre questo trattamento innovativo all'interno di un progetto di ricerca multidisciplinare che coinvolge oltre alla radioterapia oncologica anche la fisiatria, la neurologia e l'anestesia per provarne l'efficacia – riprende Nicosia -. Nel 2022 abbiamo trattato 4 pazienti affetti da spasticità con uso della radiochirurgia stereotassica, ottenendo risultati importanti con una riduzione o risoluzione della spasticità e nessuna tossicità correlata al trattamento, come riportato nello studio pubblicato su Radiotherapy and Oncology. Gli esiti positivi raggiunti ci hanno portato ad avviare l’attuale sperimentazione che prevede di arruolare 10 pazienti adulti, affetti da spasticità diffusa e non trattabile con le terapie tradizionali”. “L'obiettivo primario dello studio sarà quello di stimare la riduzione della frequenza e dell’intensità degli spasmi dopo il trattamento monitorandola a 1, 3, 6 e 12 mesi dopo la radiochirurgia stereotassica – conclude Rossato -. Tra gli obiettivi secondari, inoltre, ci saranno anche quelli di valutare la tossicità acuta e tardiva, il tasso di ricaduta della spasticità e descrivere la variazione nella qualità di vita del paziente dopo il trattamento e il miglioramento del carico di lavoro dei caregiver”.
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di Rossella Gemma
Debolezza muscolare, ridotta coordinazione dei movimenti e propensione alla caduta, sono fra i principali fattori di rischio delle fratture da fragilità che, inevitabilmente, aumentano nei soggetti più anziani. In occasione della Giornata Mondiale dei Nonni e degli Anziani, che si celebra in tutto il mondo il 28 luglio, la Società Italiana di Ortopedia e Traumatologia, SIOT ribadisce l’importanza della prevenzione dei rischi cadute nei soggetti più a rischio e della diagnosi precoce per il trattamento dell'osteoporosi.
Nel periodo estivo, poi, complice l’afa e altri fattori dovuti all’età come problemi di vista, perdita di equilibrio o altre patologie, la possibilità di subire una frattura può aumentare. In generale, le donne, soprattutto dopo la menopausa, sembrano avere un rischio più alto di trauma rispetto agli uomini. Basti pensare che in Italia, secondo i dati dell’International Osteoporosis Foundation, si stima che la prevalenza dei soggetti osteoporotici over 50 corrisponda al 23,1% nelle donne e al 7,0% negli uomini.
A confermarlo le più recenti Linee Guida “Diagnosi, stratificazione del rischio e continuità assistenziale delle Fratture da Fragilità” dell’Istituto Superiore di Sanità, in collaborazione con SIOT e altre Società scientifiche.
“Con l’avanzare dell’età – evidenzia Alberto Momoli, Presidente SIOT e Direttore UOC Ortopedia e Traumatologia Ospedale San Bortolo, Vicenza - la massa ossea diminuisce e la possibilità di subire una frattura aumenta. L’attività fisica, in particolare esercizi personalizzati di rinforzo muscolare, di rieducazione all’equilibrio e alla deambulazione, hanno mostrato di ridurre sia il rischio di cadute che di traumi correlati. Una strategia di prevenzione delle cadute in soggetti anziani che includa esercizi fisici e un adeguato apporto di vitamina D, la cui prescrizione va sempre preceduta da un’attenta visita medica, è altamente raccomandabile. Importante poi è la valutazione dell’ambiente domestico, ove possono esservi ostacoli o pericoli modificabili quali scarsa illuminazione, fili o tappeti a terra, scarpe inadeguate e presenza di animali domestici”.
Come emerge dalle Linee Guida, è stato stimato che le fratture da fragilità siano responsabili di oltre 9 milioni di fratture ogni anno in tutto il mondo e possano causare eventi avversi (quali l’aumentata morbosità e mortalità), e contribuire in modo rilevante alla spesa sanitaria, pertanto, costituiscono un serio problema di salute pubblica. In Italia, a causa del continuo invecchiamento della popolazione, ci si attende che le persone più anziane, con età pari o superiore a 85 anni, superino il 12% dell'intera popolazione entro l'anno 2050. In questa prospettiva, malattie cronico-degenerative, tra cui l'osteoporosi, rappresentano una sfida non solo per gli operatori sanitari e i decisori politici, ma anche per gli individui stessi, in quanto compromettono l’invecchiamento in buona salute, l’indipendenza e la qualità della vita.
Inoltre, il numero totale di tutte le fratture da fragilità, sempre secondo i dati, nei cinque maggiori Paesi dell’UE quali Francia, Germania, Italia, Spagna e Regno Unito, e in più la Svezia, aumenterà da 2,7 milioni nell'anno 2017 a 3,3 milioni nel 2030 con un aumento del 23,3%. In particolare, per la frattura del femore prossimale e della colonna vertebrale, gli aumenti previsti sono del 28% e il 23%, rispettivamente.
I fattori di rischio dell’osteoporosi, però, non sono solo l’età e il sesso: anche una precedente frattura da fragilità è, per entrambi i sessi, un importante campanello d’allarme per ulteriori fratture. Gli individui che hanno già subìto una frattura da fragilità sono maggiormente a rischio di ulteriori fratture sia nello stesso sito che in un altro sito osseo; inoltre, il rischio aumenta al crescere del numero e della severità delle precedenti fratture. Spesso, tuttavia, i pazienti non ricevono né un corretto inquadramento diagnostico, né un adeguato trattamento farmacologico, come riportato dalla Commissione Intersocietaria per l’Osteoporosi, e una consistente porzione di soggetti dopo un anno dalla diagnosi di frattura da fragilità presenta un’aderenza alla terapia non superiore al 50%.
In particolare, le donne dai 50 agli 80 anni, a seguito di una prima frattura da fragilità, hanno un maggior rischio di sviluppare una seconda frattura cinque volte maggiore entro l’anno rispetto a coloro che non hanno avuto una precedente frattura o nei due anni successivi (International Osteoporosis Foundation). Nonostante ciò, il 60-85% delle donne over 50 con osteoporosi non riceve un trattamento.
“Una diagnosi appropriata e una corretta terapia – aggiunge Alberto Momoli - risultano essenziali per il trattamento della fragilità ossea e, di conseguenza, per ridurre il rischio di ulteriori fratture. Attraverso specifici esami del sangue e la mineralometria ossea computerizzata, MOC è possibile ottenere una corretta valutazione della fragilità ossea che permette quindi di identificare precocemente i soggetti ad alto rischio di sviluppare esiti negativi, consentendo l’implementazione tempestiva di contromisure preventive/terapeutiche. Raccomandiamo, in generale, visite specialistiche alle donne over 50 e agli uomini dai 65 anni in su per valutare lo stato della propria salute ossea e prevenire la comparsa di fratture”.
Le fratture da fragilità sono attualmente nel mondo la quarta principale causa di morbosità associata alle malattie croniche, mentre erano solo al sesto posto nel 2009 (International Osteoporosis Foundation), e in particolare, per le fratture del femore prossimale è stata dimostrata una rilevante mortalità a 1 mese e 1 anno, rispettivamente pari a 5% e 20%.
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di Rossella Gemma
Sono molti i cibi che promettono di venire in aiuto delle prestazioni maschili, migliorando la funzionalità e la salute sessuale, ma anche di contrastare l’infertilità, un problema attualmente in crescita che, ad oggi, colpisce tra il 15 e il 20% delle coppie a livello globale. Dalla noce moscata ai chiodi di garofano, dallo zenzero al melograno, uno studio italiano guidato dall’Istituto di Farmacologia Traslazionale del CNR, presentato al recente congresso nazionale della Società Italiana di Andrologia (SIA), e pubblicato lo scorso novembre su Current Research in Food Science quantifica, ora, per la prima volta l’effetto di una dieta sana come quella mediterranea nel migliorare i livelli di testosterone e combattere l’infertilità.
“Le cause dell’infertilità maschile possono essere diverse – spiega Alessandro Palmieri, Presidente SIA e Professore di Urologia all’Università Federico II di Napoli -. Lo stile di vita, i fattori ambientali, lo stress e le condizioni socio-economiche sono fattori significativi, e fondamentale è la dieta che rappresenta un elemento chiave nella capacità riproduttiva dell'uomo. Pratiche dietetiche scorrette, sovrappeso e obesitàpossono infatti causare squilibri ormonali e modificare direttamente la funzione e la composizione molecolare degli spermatozoi”.
“Una dieta scorretta può, infatti, accentuare gli effetti deleteri e pro-ossidanti dello stress e dell’inquinamento e causare la frammentazione del DNA negli spermatozoi, uno dei fattori alla base dell’infertilità maschile, che, negli uomini che ne sono colpiti, riduce notevolmente le probabilità di concepire naturalmente o attraverso procedure come l’inseminazione intrauterina e la fecondazione in vitro – puntualizza Palmieri -. Ridurre lo stress ossidativo è pertanto fondamentale per aumentare le possibilità di concepimento di una coppia. Lo spermatozoo, essendo una cellula molto piccola, è più soggetta ai danni che ne derivano e una dieta ricca di antiossidanti potrebbe migliorare le prospettive di fertilità maschile. Ed è proprio questo ciò che è emerso dallo studio che ha verificato come la dieta mediterranea biologica possa contrastare l’effetto pro-ossidante degli inquinanti e possa avere benefici negli uomini con bassa fertilità, raddoppiando la secrezione di testosterone e riducendo del 47% la presenza di spermatozoi con DNA frammentato”.
LA DIETA MEDITERRANEA
“È indubbio che la dieta mediterranea sia universalmente riconosciuta come benefica per il mantenimento della salute generale e per ridurre l'incidenza delle principali malattie croniche – prosegue Fabrizio Palumbo, Dirigente Medico presso l’UOC Urologia Ospedale Di Venere di Bari -. Questa dieta è caratterizzata da un elevato consumo di verdura, frutta, olio d'oliva, cereali, latticini e noci, con un apporto molto basso di carne rossa e un consumo moderato di pesce e vino. È caratterizzata da un grande consumo di fibre che hanno un impatto positivo sul microbiota intestinale, portando a un miglioramento complessivo dell’infertilità maschile. Inoltre, gli acidi grassi insaturi e gli acidi grassi monoinsaturi nei cibi che ne fanno parte sono in grado di ridurre lo stress ossidativo e il colesterolo, prevenendo la frammentazione del DNA spermatico, con una conseguente migliore qualità degli spermatozoi. Infine, i polifenoli contenuti nella dieta mediterranea esercitano effetti antiossidanti che hanno proprietà antinfiammatorie e che prevengono l’agglutinazione spermatica che avviene quando gli spermatozoi aderiscono tra di loro formando dei veri e propri cumuli che ne impediscono il movimento”.
LO STUDIO
Per valutare la dieta mediterranea sono stati seguiti 50 uomini di età compresa tra i 35 e i 45 anni, normopeso, non fumatori e che non facevano consumo abituale di alcolici, senza malattie croniche o varicocele, da novembre 2020 a ottobre 2021, che avevano deciso di seguire una dieta pre-concezionale. Ai 50 individui è stato assegnato un regime dietetico con precise linee guida nutrizionali: consumo per l'80% di alimenti biologici; assunzione quotidiana di cereali integrali e di alimenti a basso indice glicemico; eliminazione o riduzione dei latticini; consumo quotidiano di alimenti fermentati come yogurt o kefir e di frutti rossi; assunzione giornaliera di verdure a foglia verde e di frutta a guscio; consumo frequente di legumi, verdure crucifere, pesce azzurro e uova; eliminazione delle carni lavorate, dei prodotti confezionati e consumo di frutta non superiore ai 300 g al giorno; uso frequente di spezie come zenzero, curcuma, coriandolo, rosmarino, basilico, aglio, cipolla e prezzemolo. A un sottogruppo di 20 partecipanti dei 50 iniziali sono state, inoltre, date istruzioni aggiuntive per ridurre l'assunzione di carboidrati al 35% dell'apporto calorico giornaliero. I partecipanti hanno seguito la dieta per un periodo di 3 mesi prima di sottoporsi a un test del testosterone e a un test di frammentazione del DNA spermatico.
“È stato osservato che i soggetti, a 3 mesi dall’inizio della dieta, hanno registrato un aumento del 116% dei livelli di testosterone che è più che raddoppiato passando da 3,2 ng/ml a 6,92 ng/ml. Contemporaneamente, il gruppo di uomini che ha aderito a una dieta con una riduzione dell’apporto di carboidrati e un aumento di antiossidanti attraverso il consumo giornaliero di frutti rossi e un minimo di 3 porzioni di verdure fresche al giorno, ha riportato una riduzione nella percentuale di spermatozoi con DNA frammentato che è scesa al 23,2% rispetto al 44,2% iniziale”, spiega Veronica Corsetti, biologa nutrizionista, ricercatore del CNR, Presidente dell’Associazione “Fertilelife” e prima autrice dello studio.
“Con questo studio siamo riusciti a dimostrare per la prima volta che gli uomini che aderiscono alla dieta mediterranea e riducono l'assunzione di carboidrati sperimentano una minore frammentazione del DNA spermatico e un aumento dei livelli di testosterone - conclude Corsetti -. Il contributo maschile alla fertilità di una coppia è fondamentale e i risultati di questo studio sottolineano l'importanza della variazione della dieta e dell'inclusione di alimenti biologici per raggiungere questo obiettivo”.
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di Rossella Gemma
Riuscire a offrire soluzioni più efficaci per quella parte, minoritaria, di pazienti con artrite reumatoide che non ottengono la remissione dalla malattia nonostante i diversi trattamenti a disposizione, tra cui molti farmaci avanzati biotecnologici, focalizzandosi sullo studio dell’infiammazione del tessuto sinoviale (la membrana che riveste le articolazioni), in grado di predire la remissione indotta dalle differenti cure e come essa possa essere mantenuta nel tempo. È questo l’obiettivo di alcune recenti ricerche scientifiche in corso, che stanno modificando l’approccio alla gestione di questa impattante patologia. L’Artrite Reumatoide è una malattia infiammatoria cronica che provoca dolore e gonfiore articolare, interessando circa l’1% della popolazione. Se non identificata e trattata tempestivamente, può condurre a deformità articolari e disabilità irreversibile.
“Nonostante i numerosi farmaci disponibili, inclusi quelli biotecnologici, non tutti i pazienti riescono a raggiungere uno stato di remissione clinica sostenuta. Le terapie attuali, pur riducendo disabilità e mortalità, mostrano tassi di remissione insoddisfacenti: i farmaci convenzionali garantiscono remissione nel 40-50% dei pazienti, mentre i biologici nel 40% dei restanti. Inoltre, solo il 10-20% dei pazienti riesce ad ottenere una remissione prolungata senza farmaci per più di 2 anni” spiega il Dott. Stefano Alivernini, ricercatore in Reumatologia presso la Fondazione Policlinico Universitario A. Gemelli IRCCS di Roma e membro del Comitato Scientifico di FIRA. “Una delle principali sfide nella gestione dell’Artrite Reumatoide è l’eterogeneità biologica dei pazienti, la diversa reattività alla malattia e ai trattamenti, che rende complessa la scelta del trattamento più efficace”.
Attualmente, la scelta terapeutica è guidata da raccomandazioni internazionali basate su caratteristiche immunologiche, dati di imaging e comorbidità, che però offrono una limitata accuratezza predittiva. La ricerca scientifica si è concentrata su questo problema e negli ultimi due decenni è cresciuto l'interesse per lo studio del tessuto sinoviale, il principale bersaglio dell’infiammazione in Artrite Reumatoide.
“Studi recenti hanno dimostrato che diversi profili di infiammazione sinoviale sono associati a differenti risposte ai trattamenti farmacologici. In particolare, analisi di coorti di pazienti in Italia e Inghilterra hanno evidenziato che il grado di sinovite al momento della prima valutazione medica è correlato alla risposta al methotrexate, una delle terapie di prima linea” continua Alivernini.
Le analisi istologiche del tessuto sinoviale permettono di quantificare l’infiammazione in modo oggettivo, mentre tecniche di laboratorio avanzate possono analizzare la firma genetica delle singole cellule, fornendo informazioni dettagliate sulla loro localizzazione spaziale.
Altri due studi controllati randomizzati hanno recentemente dimostrato l’efficacia della biopsia sinoviale come strumento prognostico per guidare la scelta terapeutica nei pazienti con Artrite Reumatoide. “Questi risultati aprono la strada a nuovi strumenti per affrontare l’eterogeneità della malattia, avvicinandosi sempre di più la medicina di precisione nella gestione di questa patologia” sottolinea Alivernini.
Un nuovo studio multicentrico che coinvolge diverse Università di Italia, tra cui il Policlinico Gemelli di Roma, Spagna e Regno Unito è in corso e sta valutando il potere predittivo dell’analisi multimodale del tessuto sinoviale in pazienti con Artrite Reumatoide in remissione clinica. “L’obiettivo di questa ricerca è guidare la scelta terapeutica per eliminare il rischio di ricorrenza della malattia quando il trattamento farmacologico viene ridotto o interrotto. Lo sviluppo di procedure mininvasive per la raccolta del tessuto sinoviale ha rivoluzionato la ricerca sull’Artrite Reumatoide, permettendo l’identificazione di nuovi meccanismi patogenetici e aprendo nuove prospettive di cura” conclude Alivernini.
“Se negli ultimi anni molti passi avanti sono stati fatti nella gestione delle malattie reumatologiche, ottenendo risultati impensabili solo vent’anni fa, è anche vero che continuiamo a spostare sempre più in là i nostri obiettivi, cercando di ridurre quel margine di casi non ancora pienamente di successo. Lo studio del profilo molecolare oggi reso possibile dalle tecniche più avanzate costituisce un importante strumento per giungere a cure sempre più personalizzate, e quindi più efficaci, che siamo fiduciosi potranno presto essere traslate dall’ambito della ricerca alla cura dei pazienti” sottolinea il prof. Carlomaurizio Montecucco, Presidente di FIRA e ordinario di Reumatologia dell’Università di Pavia al Policlinico San Matteo.
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Il sistema per diagnosticare e gestire l'obesità non può più basarsi solo sull'indice di massa corporea (BMI), che esclude molte persone che trarrebbero beneficio dal trattamento dell'obesità. Un nuovo schema per la diagnosi, la stadiazione e la gestione dell'obesità negli adulti, lanciato oggi dall'European Association for the Study of Obesity (EASO) e pubblicato su Nature Medicine, proporrà di modernizzare la diagnosi e il trattamento dell'obesità tenendo conto di tutti gli ultimi sviluppi nel campo, compresa la nuova generazione di farmaci per l'obesità.
Nonostante l'ampio riconoscimento dell'obesità come una malattia multifattoriale, cronica, recidivante e non trasmissibile, caratterizzata da un accumulo anormale e/o eccessivo di grasso corporeo, la diagnosi di obesità è ancora in molti contesti basata esclusivamente sui valori di soglia del BMI e non riflette il ruolo della distribuzione e della funzione del tessuto adiposo nella gravità della malattia.
Il Gruppo di Lavoro EASO, composto da esperti tra cui gli attuali e i precedenti Presidenti dell'Associazione, ha redatto una serie di dichiarazioni sulla diagnosi, la stadiazione e il trattamento dell'obesità che allineeranno la gestione della condizione con le più recenti conoscenze e sviluppi scientifici.
Gli autori affermano: “Una novità importante del nostro schema riguarda la componente antropometrica della diagnosi. La base di questo cambiamento è il riconoscimento che il solo BMI è insufficiente come criterio diagnostico e che la distribuzione del grasso corporeo ha un effetto sostanziale sulla salute. Più specificamente, l'accumulo di grasso addominale è associato ad un aumento del rischio di sviluppare complicazioni cardiometaboliche ed è un determinante più forte dello sviluppo della malattia rispetto al BMI, anche in individui con un livello di BMI inferiore ai valori di soglia standard per la diagnosi di obesità (BMI di 30)".
Il nuovo schema chiarisce che l'accumulo di grasso addominale (viscerale) è un importante fattore di rischio per il deterioramento della salute, anche in persone con BMI basso e ancora prive di manifestazioni cliniche evidenti. Il nuovo schema include persone con BMI basso (≥25–30 kg/m2) ma accumulo di grasso addominale aumentato e presenza di eventuali compromissioni mediche, funzionali o psicologiche nella definizione di obesità, riducendo quindi il rischio di sottotrattamento in questo particolare gruppo di pazienti rispetto all'attuale definizione di obesità basata sul BMI.
Gli autori chiariscono che i pilastri del trattamento delle persone con obesità nelle loro raccomandazioni aderiscono sostanzialmente alle linee guida attualmente disponibili. Le modifiche comportamentali, inclusa la terapia nutrizionale, l'attività fisica, la riduzione dello stress e il miglioramento del sonno, sono stati concordati come i principali capisaldi della gestione dell'obesità, con la possibile aggiunta di terapia psicologica, farmaci per l'obesità e procedure metaboliche o bariatriche (chirurgiche ed endoscopiche).
Tuttavia, per queste ultime due opzioni, il comitato direttivo ha discusso il fatto che le attuali linee guida si basano su evidenze cliniche derivanti da studi clinici, in cui i criteri di inclusione erano per lo più basati su valori di soglia antropometrici piuttosto che su una valutazione clinica completa. Nella pratica attuale, l'applicazione rigorosa di questi criteri basati su evidenze preclude l'uso di farmaci per l'obesità o procedure metaboliche/bariatriche in pazienti con un sostanziale carico di malattia da obesità ma valori di BMI bassi.
Pertanto, i membri del comitato direttivo hanno proposto che, in particolare, l'uso di farmaci per l'obesità dovrebbe essere considerato in pazienti con BMI di 25 kg/m2 o superiore e un rapporto vita-altezza superiore a 0,5 e la presenza di compromissioni o complicazioni mediche, funzionali o psicologiche, indipendentemente dai valori di soglia di BMI attuali.
Gli autori affermano: “Questa dichiarazione può anche essere vista come un appello alle aziende farmaceutiche e alle autorità regolatorie a utilizzare criteri di inclusione più aderenti alla stadiazione clinica dell'obesità e meno ai tradizionali cut-off di BMI quando si progettano futuri studi clinici con farmaci per l'obesità".
Concludono: “Questa dichiarazione avvicinerà la gestione dell'obesità a quella di altre malattie croniche non trasmissibili, in cui l'obiettivo non è rappresentato da esiti intermedi a breve termine, ma da benefici per la salute a lungo termine. Definire obiettivi terapeutici personalizzati a lungo termine dovrebbe informare la discussione con i pazienti dall'inizio del trattamento, considerando lo stadio e la gravità della malattia, le opzioni terapeutiche disponibili e i possibili effetti collaterali e rischi concomitanti, le preferenze del paziente, i fattori individuali che determinano l'obesità e le possibili barriere al trattamento. Si sottolinea la necessità di un piano di trattamento globale a lungo termine o per tutta la vita piuttosto che di una riduzione del peso corporeo a breve termine".
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di Rossella Gemma
Il 20% degli italiani soffre di almeno un disturbo mentale: sono mezzo milione gli individui che presentano schizofrenia e disturbi bipolari e 3 milioni le persone nel nostro Paese che sono affetti da depressione, una malattia che nella sua forma più grave, definita depressione maggiore, ha un impatto estremamente significativo sulla qualità della vita ed è considerata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità al primo posto come onere sociale tra tutte le patologie, prima ancora delle malattie cardiovascolari. Sono questi alcuni degli aspetti esplorati all’interno dello Spoke 5 di MNESYS dedicato a “Umore e Psicosi” che concentra la propria ricerca sulle malattie psicotiche e affettive, patologie che si stanno svelando sempre più capaci di colpire l’individuo non solo dal punto di vista mentale, ma anche fisico. “La depressione non va considerata unicamente una patologia mentale- sottolineano Luigi Grassi, ordinario di Psichiatria presso l’Università di Ferrara e coordinatore dello Spoke 5 e Alessio Maria Monteleone dell’Università Vanvitelli di Napoli e co-principal investigator - ma un disturbo che coinvolge molti organi e apparati, che determina un incremento degli ormoni dello stress e una riduzione dell’attività immunitaria attraverso molti meccanismi biologici, inclusi fenomeni infiammatori a livello cerebrale. Per questo è dimostrato, nelle persone con patologie mentali severe, un aumento del rischio di sviluppare malattie fisiche, incluse quelle oncologiche. La mortalità per cancro in persone affette da schizofrenia, disturbi bipolari o depressione grave è più elevata rispetto alla popolazione generale. Lo abbiamo confermato - puntualizza Grassi - sia in uno studio condotto su oltre 12.000 persone con schizofrenia o disturbo bipolare siain un altro in via di pubblicazione, Major depression and mortality from cancer: a 10-year Italian study, su oltre 13.000 persone con depressione maggiore, seguite in 10 anni dai dipartimenti di salute mentale in Emilia-Romagna e messe a confronto con il tasso di decesso della popolazione regionale. Esaminando la mortalità causata dal cancro, questa è risultata dell'86% più alta nei pazienti affetti da depressione grave rispetto allapopolazione della regione”.
Fondamentale è quindi personalizzare al massimo il rischio di ammalarsi di un disturbo psichico e il tipo di intervento possibile tanto a livello farmacologico quanto psicosociale. In quest’ottica è di primaria importanza l’identificazione di variabili biologiche e genetiche che possano incidere sulla neuroinfiammazione e di conseguenza favorire l’insorgenza delle malattie psichiche e fisiche, ma anche comprendere se caratteristiche che variano da paziente a paziente possano inficiare l’efficacia della terapia prescritta. A tal proposito, i ricercatori dello Spoke 5 sottolineano che uno dei geni che regola la produzione di un enzima chiave, il CYP2C19, coinvolto nel metabolismo di diversi farmaci, compresi gli inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina (SSRI), la cura attualmente più utilizzata per la depressione maggiore, se carente comporta una alterata attività metabolica e una ridotta efficacia degli SSRI. L’attenzione dello Spoke 5 è rivolta anche alle patologie psicotiche, disturbi che si manifestano soprattutto a partire dalla giovane età, con un picco di prevalenza nella adolescenza, ma il cui esordio spesso non viene colto, se non a distanza di mesi o anni, con un ritardo che influenza negativamente la prognosi e la stessa efficacia dei trattamenti.
Tali dati confermano come, all’interno del cervello, vi siano alterazioni significative delle connessioni tra aree cerebrali, che incrementano, in persone predisposte geneticamente, il rischio di sviluppare psicosi. “Abbiamo verificato ciò in diversi studi attraverso la risonanza magnetica cerebrale funzionale – affermano Alessandro Bertolino e Giulio Pergola dell’Università di Bari che fanno riferimento ai dati pubblicati nel 2023 dal loro gruppo di ricerca, Changes in patterns of age-related network connectivity are associated with risk for schizophrenia su Proceedings of the National Academy of Sciences -. Proprio durante la delicata fase di maturazione del cervello in età adolescenziale queste alterazioni dei circuiti e delle connessioni di alcune aree dello stesso cervello si correlano con il rischio genetico di sviluppare la malattia schizofrenica”. Inoltre, in un ulteriore studio, Dopamine signaling enriched striatal gene set predicts striatal dopamine synthesis and physiological activity in vivo, pubblicato su Nature Communications nel 2024, lo stesso gruppo di ricerca ha riportato come parte delle variazioni genetiche legate alla neurotrasmissione della dopamina manifesti un effetto nel funzionamento e nella neurochimica di particolari aree cerebrali studiate in vivo nell’uomo.