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di Rossella Gemma

Per lungo tempo considerata solo come un fattore di rischio per il cancro, uno studio dell’University of Chicago riabilita, almeno in parte, il consumo di carne rossa. I ricercatori hanno scoperto infatti che nella carne e nei latticini provenienti da animali da pascolo come mucche e pecore, si cela un nutriente, l’acido trans-vaccenico (TVA), che l’organismo umano non può produrre da solo e che potrebbe essere in grado di rafforzare la risposta immunitaria contro il cancro, oltre che a potenziare l’efficacia dell’immunoterapia. I risultati, appena pubblicati sulla rivista Nature, saranno discussi in occasione della nona edizione dell’Immunotherapy Bridge, che si terrà a Napoli dal 29 al 30 novembre, e della 14esima edizione del Melanoma Bridge che si terrà subito dopo, dal 30 al 2 dicembre. Entrambe le manifestazioni saranno l’occasione per i numerosi relatori che vi prenderanno parte, provenienti da tutto il mondo, di presentare le ultime novità sull’immunoterapia nella cura dei tumori.

“Sono sempre più numerose le evidenze scientifiche che legano l'alimentazione alla risposta all'immunoterapia - commenta Paolo Ascierto, direttore SC Oncologia Medica Melanoma Immunoterapia Oncologica e Terapie Innovative Istituto Nazionale Tumori IRCCS Fondazione Pascale di Napoli -. Tuttavia, è molto difficile comprendere i meccanismi sottostanti a causa dell’ampia varietà di cibi che le persone mangiano. Il merito dei colleghi dell'Università di Chicago è quello di essersi concentrati solo sui nutrienti e sui metaboliti derivati dal cibo, trovandone uno in particolare, lo TVA, che migliora l’immunità antitumorale attivando un importante percorso immunitario. In particolare, i ricercatori hanno dimostrato che il TVA è in grado di migliorare la capacità delle cellule T CD8+ di infiltrarsi nei tumori e uccidere le cellule tumorali. Lo studio mostra anche che i pazienti con livelli più elevati di TVA circolante nel sangue hanno risposto meglio all’immunoterapia, suggerendo che lo TVA potrebbe integrare i trattamenti clinici per il cancro”.

Nello studio i ricercatori hanno analizzato 700 noti metaboliti che provengono dal cibo e hanno assemblato una “libreria” di 235 molecole bioattive derivate da nutrienti. Successivamente hanno esaminato questi composti per valutare la loro capacità di influenzare l’immunità antitumorale attivando le cellule T CD8+, un gruppo di cellule immunitarie fondamentali per uccidere le cellule cancerose o infette da virus. Dopo aver valutato i primi sei composti, gli scienziati hanno visto che lo TVA ha ottenuto i risultati migliori. 

“Lo TVA è presente nel latte umano, ma il corpo non è in grado di produrlo da solo - spiega Ascierto -. Solo il 20% circa dello TVA viene scomposto in altri sottoprodotti, lasciandone l'80% in circolo nel sangue. Gli esperimenti condotti dagli scienziati dell'Università di Chicago su modelli murini di diversi tumori hanno rilevato che una dieta arricchita con lo TVA riduce significativamente il potenziale di crescita del melanoma e delle cellule del cancro del colon. La dieta con TVA ha anche migliorato la capacità delle cellule T CD8+ di infiltrarsi nei tumori”.

Il team ha inoltre eseguito una serie di analisi molecolari e genetiche per comprendere come lo TVA influenzie le cellule T. Questi test aggiuntivi hanno dimostrato che lo TVA inibisce un recettore sulla superficie cellulare chiamato GPR43, che viene solitamente attivato dagli acidi grassi a catena corta spesso prodotti dal microbiota intestinale. Lo TVA prevale su questi acidi grassi a catena corta e attiva un processo di segnalazione cellulare noto come “percorso CREB”, che è coinvolto in una varietà di funzioni tra cui la crescita cellulare, la sopravvivenza e la differenziazione. Infine, il team ha anche analizzato campioni di sangue prelevati da pazienti sottoposti a trattamento immunoterapico con cellule CAR-T per il linfoma, una terapia che consiste nella modificazione dei linfociti T del paziente. Hanno così osservati che i pazienti con livelli più alti di TVA tendevano a rispondere meglio al trattamento rispetto a quelli con livelli più bassi. Hanno anche testato linee cellulari legate alla leucemia, e hanno visto che lo TVA migliora la capacità di un farmaco immunoterapico di uccidere le cellule tumorali. 

“Ma attenzione: lo studio non indica di eccedere nel consumo di carne rossa e latticini – precisa Ascierto -. Piuttosto i risultati suggeriscono che lo TVA potrebbe essere utilizzato come supplemento alimentare per contribuire ad aumentare l’efficacia dei trattamenti immunoterapici, anche se è importante determinare la quantità ottimale del nutriente stesso da assumere. Ciò che conta infatti è il nutriente TVA e la sua eventuale assunzione nelle dosi giuste, non la sua fonte (carne e latticini)”.

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Pregiatissimi,

la tematica della qualità dell'aria è diventata sempre più determinante.

Facendo seguito ad invito pervenuto da parte dell'OMS sono a richiedervi l'adesione a questo appello promosso dall'OMS (https://www.who.int/teams/environment-climate-change-and-health/call-for-climate-action/) in vista della COP28, in occasione della quale, per la prima volta sarà dato ampio spazio alla salute. Sono importanti anche le adesioni dei singoli medici.

Prego quindi anche gli organismi, enti e associazioni, destinatari di questa mail di diffonderla tra i propri iscritti.

L'obiettivo è dimostrare l'ampio consenso della categoria medica, del mondo sanitario rispetto alle politiche e strategie per migliorare la crisi climatica ai fini della salute delle popolazioni di tutto il mondo.

Questo appello è per altro in linea con similari azioni che si stanno in questo periodo portando avanti relative alla qualità dell'aria, sia a livello nazionale ovvero
che a livello europeo ovvero:

Cordiali saluti,
Roberto Romizi

Associazione Medici per l'Ambiente - ISDE Italia
Via XXV Aprile n.34 - 52100 Arezzo - tel 0575 23612
Web www.isde.it,
www.isdenews.it E-mail Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.
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di Rossella Gemma

Conoscere il proprio rischio di sviluppare il diabete, è il tema del World Diabetes Day 2023 che si svolge in tutto il mondo il 14 novembre. Con 62 milioni di persone affette in Europa di cui più di 4 milioni in Italia, il diabete è la quarta causa di morte. Sono infatti 80mila le morti solo nel nostro Paese, pari a 9 decessi evitabili ogni ora. Ancor più grave è constatare che dal 2000 ad oggi i casi sono raddoppiati, mentre si stima che ci sia almeno un milione di persone con diabete non diagnosticato. 

Ecco perché il tema della Giornata Mondiale di quest’anno è #knowyourrisk, knowyourresponse (conosci il tuo rischio, conosci la tua risposta), sottolineato anche nella conferenza di presentazione organizzata in collaborazione tra Intergruppo parlamentare Obesità, diabete e malattie croniche non trasmissibili e FeSDI - Federazione delle società scientifiche diabetologiche italiane, costituita da SID - Società Italiana di Diabetologia e AMD - Associazione Medici Diabetologici, svoltasi stamattina presso il Ministero della Salute. 

«I numeri dimostrano la necessità di risposte ed azioni tempestive ed efficaci sia assistenziali, ma anche capaci di produrre un cambiamento culturale», dichiara il Ministro della Salute Prof. Orazio Schillaci, «Grazie al Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza e alle recenti misure previste nella manovra finanziaria, potremo finalmente realizzare un nuovo modello organizzativo di medicina territoriale che assicurerà ai diabetici quella multidisciplinarietà che è cruciale per una gestione ottimale della malattia e per prevenire l’insorgenza di complicanze. Ma la sfida non facile che ci attende è anche quella di promuovere la cultura della prevenzione primaria e secondaria, di accrescere la consapevolezza nei nostri concittadini dell’importanza dell’adozione di stili di vita sani e di eseguire controlli periodicamente».

Il World Diabetes Day è la più ampia campagna di awareness al mondo, lanciata nel 1991 dalla International Diabetes Federation e dall’OMS, che non solo promuove l’importanza di azioni coordinate, ma si propone di individuare le criticità e ideare strategie per superarle.  Un evento globale che ogni anno raccoglie una audience di circa 1 miliardo di persone in 160 paesi. 

Un adulto su dieci nel mondo soffre di diabete. Oltre il 90 per cento soffre di diabete di tipo 2. Quasi la metà non è ancora stata diagnosticata. In molti casi, il diabete di tipo 2 e le sue complicanze possono essere ritardati o prevenuti adottando e mantenendo abitudini sane. Essere consapevoli del proprio rischio di diabete di tipo 2 significa essere in grado di prendere decisioni informate riguardo alla propria salute. Questa consapevolezza può spingere le persone a monitorare regolarmente i loro livelli di zucchero nel sangue ma non solo: controllare il colesterolo e la pressione arteriosa. Conoscere il rischio e cosa fare è importante per supportare la prevenzione, la diagnosi precoce e il trattamento tempestivo.

In Italia nel 2021 sono stati registrati 15.205 ricoveri legati alle complicanze del diabete, con un tasso medio di ospedalizzazione stabile rispetto al 2020 (Rapporto Esiti Agenas 2022), mentre permane una criticità nei ricoveri ‘potenzialmente evitabili’: si spendono infatti oltre 50 milioni di euro per ricoveri legati all’ipoglicemia.

Il diabete aumenta il rischio di ospedalizzazione per diversi fattori. Le persone con diabete corrono un rischio due volte maggiore di essere ricoverate, rispetto alle persone senza diabete. Il 20-25 per cento delle persone con diabete viene ricoverato almeno una volta durante l’anno e, mediamente, la durata del ricovero aumenta del 20 per cento in presenza di diabete. Il paziente affetto da diabete presenta un rischio aumentato di soffrire di altre malattie non trasmissibili come neoplasie e broncopneumopatia cronica ostruttiva.

La malattia sta diventando un'epidemia globale, con milioni di persone coinvolte a causa dell’aumento ponderale, la sedentarietà e cattivi stili di vita. Tuttavia, conoscere il proprio rischio di sviluppare il diabete è il primo passo cruciale verso la prevenzione e la gestione efficace di questa condizione. Da qui le iniziative organizzate anche in Italia per sensibilizzare su questi temi. Un'onda blu fatta di luce ha illuminato ieri sera  diversi monumenti di Roma per annunciare la Giornata Mondiale del Diabete e promuovere l’attenzione sui rischi e l’importanza di agire contro questa malattia. Molti luoghi iconici si sono passati il testimone, illuminandosi a intervalli di 20 minuti ciascuno: Ospedale Fatebenefratelli Isola Tiberina, Arco di Giano, Tempio di Portuno, Tempio di Ercole, Teatro Marcello, Colosseo, Statua Mazzini, Fontana dell’Acqua Paola, Arco di Costantino, Cerchio Galleria d’Arte Moderna, Piazza della Repubblica, Piramide Cestia, Statua Garibaldi, Tempio di Saturno. Dal pomeriggio di ieri e per tutta la giornata di oggi saranno inoltre esposti a Roma, in piazza San Silvestro, 17 manifesti informativi sui temi della Giornata Mondiale. E si svolgerà oggi e domani presso il Senato della Repubblica, su iniziativa della Sen. Daniela Sbrollini, Presidente dell’Intergruppo parlamentare Obesità, diabete e malattie croniche non trasmissibili, in collaborazione con FeSDI, uno screening rivolto ai parlamentari, con l’obiettivo di promuovere la cultura della prevenzione e porre il tema al centro dell’opinione pubblica e dell’agenda istituzionale.

«La Giornata Mondiale del Diabete di quest’anno invita a conoscere il proprio rischio, il che significa, fare prevenzione, favorire la diagnosi precoce, pianificare i trattamenti al fine di controllare le complicanze», dichiara la Sen. Daniela Sbrollini, Presidente Intergruppo Parlamentare Obesità, diabete e malattie croniche non trasmissibili e Vicepresidente della X Commissione Affari sociali, sanità, lavoro e previdenza sociale del Senato, «Dobbiamo portare avanti un lavoro su più fronti: assicurare ai sanitari formazione e risorse adeguate per prestare la migliore assistenza e diminuire il “carico di malattia”, garantire l’accesso ai servizi, alle terapie e alle informazioni, per tenere sotto controllo i livelli glicemici e rallentare la progressione della malattia verso stadi più severi, consentire un accesso equo per tutti alle strutture di diabetologia. Come Intergruppo siamo fortemente impegnati verso questi obiettivi, anche attraverso l’impulso legislativo, e sono convinta che questa alleanza fra mondo scientifico e istituzionale sia determinate nel contrasto a questa pandemia».

«Il diabete, come anche l’obesità, sono malattie croniche che comportano gravi ripercussioni sulla qualità della vita di chi ne è affetto, portando spesso allo sviluppo di ulteriori complicanze, e con un impatto importante sull’economia del Paese con costi diretti, sociali, economici e clinici e costi indiretti legati alla perdita di produttività», dichiara l’On. Roberto Pella, Presidente Intergruppo Parlamentare Obesità, diabete e malattie croniche non trasmissibili e Vicepresidente Vicario di ANCI, «Occorre un impegno sinergico nel mettere il tema al centro dell’agenda politica e garantire alle persone con diabete gli stessi diritti delle persone sane, portando avanti un’alleanza tra scienza e istituzioni, e promuovendo a tutti i diversi livelli di governo la cultura dei sani stili di vita e della prevenzione».

«Conoscere il proprio rischio di sviluppare il diabete di tipo 2 è fondamentale per adottare uno stile di vita sano e prevenire la sua insorgenza. Individuare fattori come familiarità o stili di vita che possono predisporre alla malattia è di fondamentale importanza», sottolinea il Prof. Angelo Avogaro, Presidente FeSDI e SID, «Una valutazione accurata del rischio può identificare le persone a rischio elevato, consentendo loro di adottare misure preventive efficaci, come una dieta equilibrata, l'esercizio fisico regolare e il controllo del peso. Queste azioni possono ritardare o addirittura prevenire l'insorgenza del diabete di tipo 2, migliorando notevolmente la qualità della vita e limitando la mortalità evitabile, dato che la maggior parte delle persone con diabete perde la vita per complicanze cardiovascolari».

«Anche quest’anno, celebriamo la Giornata mondiale del Diabete con l’obiettivo di promuovere e sostenere una maggiore consapevolezza sul diabete mellito di tipo 2: una malattia complessa, che, complici stili di vita non salutari, prosegue inesorabile la sua crescita, colpendo persone di età sempre inferiore e che, spesso vivono in condizioni di vita precarie, ma che resta prevenibile», specifica il Prof. Riccardo Candido, Vicepresidente FeSDI e neo Presidente Nazionale AMD,  «Per arrestare la corsa di questa patologia, come anche dell’obesità  - primo fattore di rischio del diabete tipo 2  - è fondamentale trasmettere a cittadini e pazienti l’importanza di adottare sani stili di vita, in termini di alimentazione e attività fisica, soprattutto se in presenza di storie di diabete in famiglia (familiarità). Conoscere il rischio di insorgenza della malattia, insieme agli strumenti di prevenzione primaria, consente di intervenire tempestivamente e ridurre l’impatto potenziale della malattia». 

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di Rossella Gemma

Un italiano su 10 soffre di malattia renale cronica (MRC), ma nella maggior parte dei casi non ne è consapevole. La malattia, infatti, può restare a lungo asintomatica. La diagnosi tardiva può causare il progressivo declino della funzionalità renale, rendere le terapie meno efficaci, fino a portare alla necessità di sottoporsi a dialisi o a trapianto di rene. Inoltre, la malattia renale si accompagna a un notevole aumento di co-morbilità e mortalità cardiovascolare. La prevenzione primaria e la diagnosi precoce risultano, quindi, pilastri fondamentali su cui investire per migliorare la qualità di vita dei pazienti, assicurare trattamenti più efficaci e ridurre i costi per il Servizio Sanitario Nazionale.

“La malattia renale cronica è definita come una condizione di alterata funzione renale che persiste per più di 3 mesi ed è classificata in 5 stadi di crescente gravità, il cui stadio finale necessita di dialisi o trapianto. I principali fattori di rischio per MRC sono il diabete, l’ipertensione, la familiarità per malattie renali e precedenti eventi cardiovascolari. Il numero di persone affette da MRC è in aumento nel mondo; in Italia si stima siano circa 6 milioni, principalmente in fase iniziale. Nelle sue fasi iniziali la malattia può essere silente; così, è ancora spesso sottovalutata e diagnosticata tardivamente” spiega il prof. Loreto Gesualdo, Università Aldo Moro di Bari, Presidente della Federazione Italiana delle Società Medico-Scientifiche (FISM). “Per molto tempo gli strumenti terapeutici sono stati limitati; oggi vi sono nuove opzioni, come la classe di farmaci SGLT2i, che hanno mostrato importanti benefici cardiovascolari e renali, con un’efficacia maggiore se assunte nelle prime fasi della malattia”.

Da questo punto di vista, una diagnosi tempestiva risulta fondamentale nell'ottica di una migliore presa in carico e gestione del paziente, e il ruolo del medico di medicina generale è quindi essenziale per identificare i pazienti a rischio e nelle prime fasi della patologia, grazie a esami semplici come analisi del sangue e delle urine, così da intervenire precocemente, riducendo la necessità di trattamenti complessi e ad alto impatto sulla qualità di vita come la dialisi.  Per raggiungere questo scopo è essenziale promuovere una stretta collaborazione tra medici di medicina generale e specialisti, nefrologi, in primis, ma anche cardiologi e diabetologi.

Risponde a questa esigenza anche l’iniziativa nazionale WEEKIDNEY che vede la collaborazione tra medici di medicina generale (MMG) e specialisti nefrologi per promuovere la salute dei reni. L'iniziativa intende sensibilizzare l’opinione pubblica sulla malattia renale cronica e offrire a persone con diagnosi o a rischio di MRC la possibilità di effettuare una consulenza nefrologica gratuita e ricevere consigli utili alla prevenzione e alla gestione della malattia. “Il medico di medicina generale, oltre che figura chiave per le attività di prevenzione, gioca un ruolo cruciale come prima figura ‘sentinella’ in grado di diagnosticare precocemente e promuovere percorsi virtuosi di assistenza integrata con il nefrologo e altre figure sanitarie. Purtroppo, in diversi Paesi, inclusa l’Italia, esiste a oggi un ‘gap di consapevolezza’ nel riconoscere la MRC. L’iniziativa WEEKIDNEY offre quindi a medici e specialisti un’occasione di confronto, crescita e condivisione sulle necessità dei pazienti e i nuovi modelli assistenziali da applicare” aggiunge il dott. Gaetano Piccinocchi, Medico di Medicina Generale e Membro della Giunta Esecutiva Nazionale della Società Italiana di Medicina Generale e delle Cure Primarie (SIMG). Le consulenze si svolgeranno a partire dalla seconda metà di novembre 2023 presso ambulatori di MMG distribuiti sul territorio nazionale. Le persone che hanno già una diagnosi di MRC o presentano importanti fattori di rischio per questa malattia saranno invitate dal loro MMG a incontrare presso il suo ambulatorio un nefrologo per una consulenza specialistica gratuita.

“L’iniziativa WEEKIDNEY è importante innanzitutto perché contribuisce a sensibilizzare l’opinione pubblica e le istituzioni, aumentando la consapevolezza sulla necessità della prevenzione e della diagnosi precoce, sui sintomi da non sottovalutare e sulla corretta gestione della malattia per cercare di rallentare l’entrata in dialisi. Convivere con la MRC presenta importanti sfide per i pazienti e i caregiver, anche di carattere psicologico e sociale. Una gestione integrata del percorso diagnostico-terapeutico, attraverso reti territoriali strutturate di medici, specialisti e operatori sanitari, può non solo portare benefici per la salute e qualità della vita dei pazienti, ma anche farli sentire più supportati dal punto di vista psicologico” sottolinea il prof. Massimo Morosetti, Presidente Fondazione Italiana del Rene (FIR) e Direttore UOC nefrologia e dialisi ospedale GB Grassi Roma.

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di Rossella Gemma

L’Area critica e l’Area terapia intensiva sono certamente quelle in cui sono maggiormente occupati gli specialisti anestesisti-rianimatori. Secondo i dati SIAARTI, infatti, il 54% degli iscritti alla Società riconoscono la Rianimazione e la Terapia intensiva come il proprio principale ambito di lavoro. «Il Congresso nazionale ICARE 2023, che durerà fino a domani 28 ottobre, è un momento di divulgazione scientifica e crescita professionale, importante anche per le tematiche inerenti l’area critica» – spiega il Responsabile del Comitato scientifico SIAARTI, Andrea Cortegiani. «Vi vengono discussi gli aspetti più innovativi, importanti e spesso controversi – sul piano scientifico o etico – su tematiche legate all’attività clinica di tutti i giorni, oltre che le più importanti pubblicazioni scientifiche recenti, con spazio di dialogo su applicazione clinica e spunti per ricerche future».

Tra i temi affrontati in questo ambito, sicuramente l’importanza della “personalizzazione” delle cure in pazienti affetti da sepsi e shock settico, l’insufficienza respiratoria con necessità di supporto respiratorio, nonché i metodi con i quali poter “fenotipizzare” la diagnosi e la terapia su pazienti critici per una cura personalizzata. «Per garantire le migliori cure ai nostri pazienti, affronteremo la fondamentale discussione sulla qualità del nostro lavoro di anestesisti-rianimatori», continua Cortegiani. «In questo ambito, si fa sempre più spesso ai concetti di “fatigue”, cioè la stanchezza, la demotivazione e il burnout che – in una percentuale crescente di colleghi – accompagnano il nostro lavoro, e di “well-being”, cioè alla necessità di perseguire anche il benessere del personale sanitario, a causa del loro impatto sulla qualità delle cure prestate ai pazienti, soprattutto in area critica».

Quello su cui si concentra sempre più l’attenzione della disciplina è infatti un approccio ancora più olistico al paziente critico, che è stato affrontato ad esempio nella sessione dedicata al cosiddetto bundle ABCDE. «Il senso del bundle ABCDEF è quello di definire una serie di azioni coordinate nella presa in carico di un paziente in condizioni critiche che consideri tutti gli aspetti della cura, non solo medica ma anche infermieristica, non solo di interventi sanitari ma anche di umanizzazione delle cure, non solo della funzione di organi importanti per la sopravvivenza ma dell’intera persona», spiega con chiarezza Nicola Latronico, Responsabile dell’Area culturale SIAARTI Rianimazione e Terapia intensiva. Ma in quale modo? In cosa consiste? «Il bundle è una serie di processi che include la valutazione, prevenzione e trattamento del dolore, della sedazione e della ventilazione, della scelta più adeguata dei farmaci analgesici e sedativi, del delirium, della mobilizzazione precoce e, non ultimo, del ruolo della famiglia, sia come parte attiva del progetto di cura che come oggetto di cura: le famiglie sono essenziali per creare il rapporto fiduciario con un’équipe che il paziente non ha potuto scegliere, ma esse stesse devono essere sostenute lungo il cammino tribolato e incerto che auguralmente consentirà il recupero del paziente», risponde Latronico.

Un altro tema affrontato nel Congresso ICARE è infatti quello della “vita dopo la terapia intensiva” e degli effetti a lungo termine dopo la dimissione da questi reparti. «Oggi la mortalità in terapia intensiva è ridotta per molte patologie una volta letali», continua ancora Latronico. «Ciò ha determinato il fatto che molti pazienti sopravvivono ad un evento acuto come il trauma, la sepsi e il distress respiratorio con esiti che possono persistere a lungo dopo la dimissione dall’ospedale, o anche per sempre».

Qual è l’impatto di un ricovero in terapia intensiva sui pazienti dopo la dimissione? «La sindrome post-terapia intensiva descrive una serie di alterazioni in campo fisico, cognitivo e mentale che si sviluppano nei sopravvissuti della terapia intensiva e che impattano in modo negativo sulla qualità di vita», risponde Latronico. «La debolezza muscolare, il senso di prostrazione e affaticamento, i disturbi della memoria e del linguaggio, lo stress post-traumatico, le alterazioni del sonno e della sfera sessuale, per citarne alcuni, non solo alterano profondamente il vissuto quotidiano delle persone e la ripresa del lavoro, ma sono solo di rado riconosciuti come entità patologica unitaria; più spesso i pazienti sono costretti ad affrontare frammenti delle loro esperienze patologiche con differenti medici specialisti».

Riconoscere la sindrome post-terapia intensiva è oggi una priorità assoluta per i pazienti, ma anche per il sistema sanitario nazionale e per il campo della ricerca. Conoscere l’esistenza del problema è il primo passo per poterlo curare, anche individuando gli ambiti e le strategie per migliorare i percorsi clinici-organizzativi nelle diverse aree regionali. «Tra i temi che saranno discussi sia dal punto di vista delle evidenze scientifiche e che della applicabilità organizzativa nelle diverse macroaree regionali ci sono infatti proprio gli ambulatori di follow-up per i pazienti dimessi dalle terapie intensive», spiega Vito Torrano, Responsabile della Macroarea Nord di SIAARTI. Ma in cosa consistono tali ambulatori e per quali motivi potrebbero avere un impatto tanto importante sul sistema sanitario? «Essi rappresentano un elemento importante per il recupero dei pazienti dimessi dalle terapie intensive e per il loro recupero nell’autonomia delle attività della vita quotidiana e possono avere un impatto importantissimo sui sistemi socio-sanitari», continua Torrano.
L’introduzione degli ambulatori di follow-up dei pazienti dimessi dalle terapie intensive è un elemento che può offrire spunti di riflessione e dialogo con i pazienti e con le istituzioni: è questa la sfida che SIAARTI, anno dopo anno, continua a lanciare.

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di Rossella Gemma

Cervello, cuore e reni: una proteina li unisce come un filo rosso. E’ l’endotelina, molecola dalla struttura simile a quella della tossina di alcuni serpenti e la cui eccessiva produzione è collegata allo sviluppo di diverse malattie, tra cui ipertensione e insufficienza renale cronica. Recenti studi, inoltre, evidenziano il ruolo di molecole che ne attivano i recettori influenzando diversi aspetti del sistema nervoso, con benefici anche per pazienti che hanno avuto un ictus. Allo stesso tempo, la possibilità di modularne l’effetto attraverso i farmaci sta facendo crescere un campo di ricerca che guarda anche alla cura di calvizie e ai disturbi del sonno. A descrivere questa molecola e i filoni di ricerca in corso è stata la diciottesima “Conferenza internazionale sull’Endotelina ET-18”, co-organizzata a Roma dalla Fondazione Menarini: un congresso non incentrato su una malattia o una specifica area medica ma su una molecola ubiquitaria, coinvolta in tantissimi processi dell’organismo e per questo studiata da clinici di diverse aree: cardiologi, nefrologi, neurologi, pneumologi, endocrinologi e oncologi.

"Gli scienziati e i ricercatori - spiega Carmine Cardillo, presidente del congresso e professore di Medicina Interna all'Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma - stanno facendo progressi significativi nello studio di questa proteina chiave, prodotta dall’endotelio, organo con una superficie più grande di un campo da tennis e che costituisce il rivestimento interno dei vasi sanguigni. Proprio dei vasi sanguigni l’endotelina regola la funzione, essendo anche coinvolta nella proliferazione delle cellule muscolari lisce. Per questo è collegata a diverse funzioni fisiologiche ed è stata dimostrato un legame tra quantità eccessive nell’organismo e condizioni come ipertensione arteriosa e polmonare, aterosclerosi e malattie coronariche”. L'endotelina e i suoi recettori sono distribuiti anche in tutto il sistema nervoso, inclusi il cervello e il midollo spinale. A partire da qui, studi hanno dimostrato che gli agonisti dell'endotelina (che potenziano l'azione dei recettori) possono influenzare la sopravvivenza dei neuroni e sono coinvolti in processi come la neuroinfiammazione e la risposta al danno cerebrale, proteggendo dagli effetti devastanti dell’ictus.

Una funzione importante riguarda le malattie renali, come dimostrato già da un team di ricerca dell’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri di Bergamo. “Anche in queste condizioni, si verifica un'alterazione della produzione e dell'azione dell'endotelina nei vasi sanguigni e nei tessuti di reni. Questo - aggiunge - può portare alla progressiva perdita della funzione renale”. 

Interessata anche nel processo di crescita cellulare, l'endotelina potrebbe influenzare anche la caduta precoce dei capelli agendo sui follicoli piliferi e quindi il blocco dei suoi recettori potrebbe aiutare chi soffre di calvizie. “La regressione del follicolo pilifero è una fase naturale del ciclo di crescita dei capelli controllato da complessi meccanismi cellulari e molecolari, e l'endotelina può essere coinvolta in questo processo. Alcune ricerche scientifiche, hanno dimostrato che l'endotelina, può essere presente nel cuoio capelluto di persone affette da calvizie in quantità maggiori rispetto a coloro che non soffrono di questo problema. Tuttavia - precisa Cardillo - la relazione esatta non è completamente compresa e sono necessarie ulteriori ricerche per chiarire il meccanismo preciso”.

L'endotelina e i suoi recettori sono presenti nelle regioni del cervello coinvolte nel controllo del complesso meccanismo di regolazione del ciclo sonno e della veglia. Ricerche cliniche condotte su pazienti affetti da disturbi del sonno hanno evidenziato un'associazione tra livelli anomali di endotelina nel sangue e la gravità di condizioni come l'apnea ostruttiva del sonno, che può portare a sonnolenza eccessiva durante il riposo. “L'identificazione di biomarcatori specifici legati all'endotelina potrebbe migliorare la diagnosi dei disturbi del sonno e alcuni gruppi di ricerca – prosegue Cardillo - stanno esplorando il potenziale utilizzo di farmaci che modulano l'attività dell'endotelina per migliorare la qualità del sonno nei pazienti con disturbi. Ma è ancora presto per capire se potranno servire a mettere a punto nuove terapie mirate”.

Tra le 45 relazioni di esperti internazionali e oltre 30 poster presentati al congresso co-organizzato dalla Fondazione Menarini, spazio è stato dato anche al ruolo di questa proteina rispetto a malattie autoimmuni, obesità, gestosi (una delle complicanze più serie della gravidanza che colpisce circa il 3-5% delle donne), tumore dell’ovaio e dolore cronico. “Quel che è certo è che 35 anni dopo la scoperta e oltre 34.000 studi scientifici pubblicati, l’endotelina resta ancora un’affascinante campo da esplorare”, conclude Masashi Yanagisawa, professore all’Università giapponese di Tsukuba, presidente onorario del congresso e scopritore dell’endotelina nel 1988.

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di Rossella Gemma

Il parto prematuro, definito come un parto che avviene prima delle 37 settimane di gestazione, è la causa principale di mortalità neonatale nel mondo e si verifica una nascita ogni dieci. Esistono diverse strategie terapeutiche atte a prevenire o ridurre il rischio di prematurità, come il progesterone, il cerchiaggio, il pessario, e, soprattutto, modifiche allo stile di vita della futura mamma.

Negli ultimi anni, diversi studi si sono concentrati sulla valutazione dell’efficacia dei micronutrienti nella prevenzione delle complicanze ostetriche della gravidanza.

Tra questi rientra il lavoro dal titolo “Supplementazione orale in gravidanza con arginina, magnesio, calcio, e salice, nella prevenzione del parto prematuro”, a cura del Dott. Gabriele Saccone del Dipartimento di Neuroscienze, Scienze della Riproduzione e Odontostomatologiche, Facoltà di Medicina, dell’Università Federico II di Napoli e Dott.ssa Floriana Carbone, del Policlinico Milano - Mangiagalli Center, pubblicato sul Journal of Obstetrics and Gynaecology 2020.

In questo studio, gli autori hanno cercato di valutare l’efficacia della supplementazione orale di un nuovo integratore contenente Arginina (3g), Salice (320 mg), Solfato di Magnesio (1g) e Calcio (1g), nella riduzione del rischio di parto pretermine.

In particolare, è stato condotto uno studio retrospettivo di coorte confrontando due gruppi: un gruppo intervento ha ricevuto la supplementazione dal I trimestre fino a 30 settimane; e un gruppo controllo (standard care). Sono stati inseriti nel campione donne a rischio di parto pretermine per anamnesi (precedente parto pretermine), o donne con diabete, ipertensione, o gravidanza multipla.

150 donne hanno ricevuto il trattamento e sono state confrontate con un altro gruppo di 150 donne, matchato per caratteristiche demografiche. I risultati hanno evidenziato che il gruppo intervento aveva una riduzione statisticamente significativa del rischio di parto pretermine, e un peso del neonato alla nascita maggiore.

In conclusione, lo studio ha dimostrato che una supplementazione giornaliera con arginina, salice, solfato di magnesio, e calcio, alle dosi rispettive di 3g, 320 mg, 1g, 1g, durante la gravidanza riduce il rischio di parto prematuro, nelle donne a rischio.

Fattori di rischio sono l’età materna avanzata, la gemellarità, la fertilizzazione in vitro, familiarità per preeclampsia, obesità, patologie autoimmuni materne, ipertensione pregravidica, diabete preconcezionale. L’assunzione di integratori alimentari a base di Arginina, Salice, Solfato di Magnesio e Calcio, come Euplacent di Eutylia, favorisce la fase iniziale dell'impianto embrionale, aiuta a prevenire gestosi, minacce di parto pretermine, poliabortività e alterazioni del microcircolo nell’impianto embrionale. Grazie alla sua esclusiva formulazione, infatti, aiuta a migliorare la circolazione sanguigna materna, l’attecchimento embrionale ed il processo di sviluppo della placenta, riducendo lo stress ossidativo e i disturbi ipertensivi in gravidanza.

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di Rossella Gemma

Non si vedono, ma si sentono eccome. La vita delle vittime di INOCA, l’ischemia senza malattia coronarica ostruttiva, e di MINOCA, infarto del miocardio senza ostruzione, può essere un vero e proprio incubo. I sintomi di questi due gravi condizioni possono compromettere notevolmente la qualità della vita di chi ne soffre. Una recente ricerca pubblicata sull’International Journal of Cardiology, condotta su quasi 300 pazienti con INOCA, ha rivelato che il 34% ha convissuto con dolore toracico, oppressione o disagio per oltre 3 anni prima di ricevere una diagnosi. Al 78% è stato erroneamente detto, ad un certo punto, che i loro sintomi non erano legati al cuore. Il 75% è stato costretto addirittura a ridurre il proprio orario di lavoro o a licenziarsi a causa della propria condizione. Circa il 70% ha affermato che la propria salute mentale e le proprie prospettive di vita sono peggiorate e più della metà (54%) ha affermato che i propri sintomi hanno influenzato negativamente la relazione con il proprio partner o coniuge. Considerata la somiglianza dei sintomi e il ritardo diagnostico, questi risultati possono essere estesi anche al MINOCA. Questo è uno dei temi che verranno affrontati in occasione del 44° Congresso Nazionale della Società Italiana di Cardiologia Interventistica (GISE), a Milano fino al 6 ottobre. 
 
“I disturbi cardiovascolari continuano a essere una delle principali cause di ricovero in ospedale e di morte sia per gli uomini che per le donne – afferma Giovanni Esposito, presidente GISE e direttore della UOC di Cardiologia, Emodinamica e UTIC dell’Azienda Ospedaliera Universitaria Federico II di Napoli -. In molti casi, specialmente nelle donne, ischemie e infarti del miocardio non presentano occlusioni significative nelle arterie che irrorano il cuore (malattia coronarica ostruttiva)”. L’ischemia senza la malattia coronarica ostruttiva, INOCA, è una patologia che colpisce principalmente le donne, ed è probabilmente il motivo per cui per anni molte pazienti che si sono presentate in ospedale con dolore toracico sono state dimesse e rimandate a casa perché non vi era alcun blocco evidente nelle loro arterie coronarie. “Tuttavia, negli ultimi anni l’INOCA è stata riconosciuta come una condizione reale ed è ora argomento di discussione nella maggior parte dei convegni mondiali di cardiologia – prosegue Esposito –. Oggi si stima che può riguardare il 62% delle donne che si sottopongono ad angiografia coronarica per sospetta angina, con un’accentuata prevalenza di quelle con 45-65 anni d’età. In passato, non avevamo gli strumenti giusti per fare la diagnosi, ma ora sappiamo che la maggior parte di questi pazienti ha una disfunzione microvascolare coronarica, dove i piccoli vasi non sono in grado di dilatarsi completamente per aumentare il flusso sanguigno a causa dello stress o dell'esercizio fisico. Oppure soffrono effettivamente di una costrizione o un vasospasmo, dove può esserci un restringimento significativo delle arterie coronarie e quindi i pazienti presentano dolore toracico”.

In alcuni casi, l’ischemia può avere come esito un vero e proprio infarto miocardico, pur in assenza di ostruzioni evidenti delle arterie coronarie, condizione chiamata MINOCA: si stima succeda nel 6% dei casi, più frequentemente tra le donne. “Un sottogruppo di casi di MINOCA è dovuto alla dissezione spontanea dell'arteria coronaria (SCAD), che è una rottura che si forma all'interno della parete di un vaso coronarico – evidenzia Francesco Saia, presidente eletto GISE e cardiologo interventista all'IRCCS Azienda Ospedaliero-Universitaria di Bologna, Policlinico Sant’Orsola –. Nella maggior parte dei casi di MINOCA, è difficile identificare la causa. Così succede che, poiché non si riscontrano ostruzioni nelle arterie coronarie principali, i pazienti spesso lasciano l’ospedale incerti su cosa abbia causato il loro attacco cardiaco MINOCA e su come prevenirne un altro”. Si stima che nei 4 anni successivi a un evento MINOCA, ci sia il 13% di probabilità di morire per qualsiasi causa e il 7% di probabilità di avere un altro attacco cardiaco. “La buona notizia è che con l’applicazione su ampia scala di raffinate tecniche di fisiologia coronarica e/o di imaging aumentano le probabilità di ottenere una diagnosi corretta e cure appropriate nella maggior parte dei casi – conclude Saia -. Questo argomento ha altri risvolti, oltre a quello clinico. Queste procedure, infatti, non hanno un rimborso ad hoc. Il GISE sta lavorando da tempo a un riconoscimento economico che faccia sì che l’applicazione di questi presidi non sia economicamente svantaggiosa per le strutture sanitarie e che ne venga quindi allargato l’accesso su tutto il territorio nazionale”.

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di Rossella Gemma

Un infarto a cinquant’anni, un ictus ancora prima di andare in pensione: è il destino che aspetta chi ha la pressione alta già a 18 anni, stando a un ampio studio svedese appena pubblicato sugli Annals of Internal Medicine secondo cui essere ipertesi in tarda adolescenza aumenta considerevolmente il rischio cardiovascolare da adulti. Un problema che riguarda tanti italiani: si stima che quasi 2 milioni di under 35 abbiano già i valori di pressione alterati, spesso senza saperlo e in gran parte dei casi per colpa di uno stile di vita sbagliato fatto di dieta scorretta, sedentarietà, fumo e alcol. Così, in occasione della Giornata Mondiale del Cuore 2023, gli esperti della Società Italiana di Cardiologia (SIC) raccomandano di iniziare a misurare la pressione già da adolescenti, per prendersi cura della salute cardiovascolare e restare in salute a lungo: una diagnosi precoce dell’ipertensione può consentire un cambio di rotta tempestivo nelle abitudini e può salvare letteralmente la vita.

“I dati appena pubblicati da ricercatori delle università svedesi di Umea e Uppsala sono molto solidi: quasi 1,4 milioni di uomini a cui è stata misurata la pressione durante la visita di leva a 18 anni sono stati seguiti fino a cinquant’anni, consentendo così di valutare la correlazione fra ipertensione giovanile e probabilità di eventi cardiovascolari successivi - spiega Pasquale Perrone Filardi, Presidente SIC e Professore Ordinario di Cardiologia e Direttore della Scuola di Specializzazione in Malattie dell’Apparato Cardiovascolare all’Università Federico II di Napoli -. Nel campione svedese circa il 29% dei diciottenni aveva valori di pressione alterati, superiori a 120/80 mmHg, il 54% poteva essere classificato come iperteso. In queste persone, negli anni, si è registrato un graduale e sostanziale incremento nel rischio di eventi cardiovascolari, tanto che un diciottenne iperteso su dieci ha avuto un infarto o un ictus prima della pensione mentre a chi aveva la pressione bassa questo non accadeva. Questi dati indicano la necessità di iniziare a controllare la pressione fin dall’adolescenza: prima compare questo fattore di rischio, più tempo ha per fare danni, perciò la prevenzione cardiovascolare deve iniziare da giovanissimi, cercando di individuare i ragazzi a rischio”. 

L’ipertensione arteriosa in età adolescenziale e giovanile sta riscuotendo una preoccupazione sempre maggiore per le ripercussioni che essa può avere per la salute da adulti. Anche bambini o adolescenti con valori elevati di pressione hanno una grande probabilità di diventare ipertesi nell’età adulta e pertanto essere a rischio più elevato per lo sviluppo di malattie cardiovascolari. Nel nostro Paese circa il 14% degli under 35, pari a circa 2 milioni di persone, ha già la pressione alta e perfino i bambini possono avere valori alterati: secondo alcune stime fino al 4% dei bimbi e ragazzini fra sei e undici anni ha la pressione elevata per la sua età come spiegaFrancesco Barillà, Presidente della Fondazione “Il Cuore Siamo Noi”, Professore Associato di Cardiologia e Direttore della Cardiologia dell’Università di Roma Tor Vergata. “Pochi genitori ci pensano, anche i medici raramente controllano la pressione in bambini e ragazzi, invece sarebbe bene fare la misurazione una volta all’anno ai controlli di crescita iniziando attorno ai cinque, sei anni. Misurare la pressione è un gesto semplice che diventa indispensabile nei giovani che hanno genitori o altri parenti stretti con l’ipertensione o che sono sovrappeso, uno dei fattori di rischio più rilevanti per lo sviluppo della pressione alta. Scoprire l’ipertensione in un ragazzo significa poter agire tempestivamente, per ridurla e diminuire così anche il rischio cardiovascolare negli anni a venire: negli adolescenti e nei giovani adulti, solitamente non sono necessarie cure farmacologiche, è sufficiente intervenire sullo stile di vita, cercando di cambiare le abitudini in modo da mantenere il giusto peso attraverso una dieta equilibrata ricca di frutta, verdura e cerali integrali e povera di sale, grassi saturi e zuccheri. Fondamentale aumentare ad almeno 150 minuti alla settimana l’attività fisica e soprattutto evitare fumo e alcol, entrambi fattori che danneggiano cuore e vasi. Infine, è opportuno insegnare ai giovani anche una buona gestione dello stress, che contribuisce a innalzare la pressione ed è un elemento di rischio molto frequente fra i giovani adulti”.

 

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di Rossella Gemma

"Con l'entusiasmo delle origini, verso nuovi orizzonti". E' questo il titolo del 64esimo congresso della Società Italiana di Nefrologia che si terrà a Torino dal 4 al 7 ottobre. Le nuove opportunità terapeutiche per il contrasto della progressione del danno renale, l'impiego della tecnologia- in particolare della telemedicina e dell'Intelligenza Artificiale-, la terapia domiciliare dei pazienti in dialisi, le ricerche di frontiera nel campo del trapianto renale, saranno al centro dei lavori che coinvolgeranno esperti, professionisti e ricercatori di nefrologia da tutto il Paese.
 
I problemi renali coinvolgono una fetta importante della popolazione, dal 7 al 10%, uomini e donne in eguale misura. "I reni sono spesso coinvolti in malattie e condizioni non renali come il diabete, l'ipertensione arteriosa e le malattie cardiovascolari oltre che in alcune malattie sistemiche, in particolare quelle reumatologiche, molto spesso in modo subdolo. I reni, infatti, hanno dei meccanismi di compenso e i sintomi appaiono solo quando la funzione renale si è molto ridotta, almeno sotto al 60%", spiega Stefano Bianchi, Presidente della Società Italiana di Nefrologia. Da qui l'appello che la SIN lancia dal congresso: "Chi soffre di una malattia ad alto rischio di presentare un danno renale, dovrebbe controllare in maniera sistematica la salute dei suoi reni".
 
D'altronde, dopo molti anni di quiescenza terapeutica, la Nefrologia sta vivendo un momento in cui le opportunità terapeutiche per contrastare la progressione del danno renale sono numerose ed innovative. Fra queste l'utilizzo del finerenone nei pazienti con e senza diabete: la sua azione contrasta la progressione della malattia renale e anche lo sviluppo delle sindromi cardio-renali. La disponibilità di un farmaco, roxadustat, in grado di contrastare l'anemia da malattia renale cronica, una conseguenza della malattia che coinvolge il 90% dei pazienti e che influisce pesantemente sulla loro qualità di vita. Un medicinale, difelikefalin, che ha dimostrato di lenire il prurito sistemico legato alla malattia renale, un sintomo invalidante che colpisce il 40% dei pazienti, soprattutto dializzati. "Con l'entusiasmo delle origini, questa edizione del congresso riflette l'ottimismo e la volontà di guardare verso nuovi orizzonti", afferma Bianchi. "In un mondo che sta affrontando molteplici sfide sanitarie, il campo della nefrologia sta dimostrando di essere al passo con l'innovazione e la ricerca per migliorare la salute dei pazienti".
 
Sul fronte delle patologie, quelle che possono colpire i reni sono molte, in alcuni casi si tratta di malattie rare ma non per questo meno gravi. Come le glomerulonefriti, alcune di origine genetica, patologie che colpiscono i giovani che rappresentano una delle principali cause di insufficienza renale terminale. Per alcune di queste è oggi disponibile una nuova molecola, sparsertan, che ha dimostrato di ridurre i danni a carico dei reni. Novità anche nel campo della nefrite lupica, una delle conseguenze del lupus erimatoso sistemico, che colpisce soprattutto le donne: è disponibile una nuova molecola, voclosporina, che rappresenta un'opzione più efficace e di semplice gestione rispetto a quanto a disposizione fino a oggi. Infine, una grande speranza arriva dalla terapia genica contro la malattia di Fabry, causata da un aumento anomalo di lipidi a livello dei lisosomi cellulari, specialmente nei tessuti viscerali e nell'endotelio vascolare di tutto l'organismo.
 
"La terapia, che è stata approvata per la sperimentazione clinica in fase II fino a oggi solo in Canada, agisce attraverso un vettore virale che trasporta all'interno delle cellule del fegato una versione sana del gene GLA, la cui mutazione è alla base della malattia. L'idea è quella di far produrre dalle cellule in cui è stato inserito il gene sano la versione funzionante dell'enzima alfa-galattosidasi A (GLA), che così potrebbe entrare in circolo riducendo l'accumulo di lipidi nei tessuti dei pazienti", spiega Sandro Feriozzi, responsabile scientifico del 64esimo Congresso SIN e Direttore UOC Nefrologia e Dialisi Viterbo-Università Campus-Biomedico Roma.
 
Certo, la nuova frontiera tecnologica della medicina può dare una grande mano alla gestione dei pazienti. La possibilità di curare il paziente cronico a casa, infatti, è diventato un elemento cruciale per il servizio sanitario: per migliorare la qualità di vita delle persone- che potrebbero gestire meglio il loro tempo e preservare la loro privacy- ma anche il servizio offerto nei centri, dove dovrebbero afferire solo i pazienti che non possono avvalersi della dialisi peritoneale o dell'emodialisi domiciliare. Eppure, come spiega Mariacristina Gregorini, Segretario Sin e Direttore Nefrologia e Dialisi Ausl- irccs di Reggio Emilia, la diffusione di questa opzione è ancora molto limitata su tutto il territorio, con un dispendio di tempo e risorse. "Ci sono tuttavia alcuni casi virtuosi in Italia che ci permettono di guardare verso nuovi orizzonti di cura. Che è il nostro impegno quotidiano per migliorare aspettativa e qualità di vita dei pazienti" aggiunge Gregorini, oltretutto "riducendo i costi per il Servizio sanitario nazionale e rendendo più efficienti gli ospedali, attraverso la creazione di percorsi assistenziali integrati fra ospedali e territorio".
 
Ma quale ruolo potranno avere telemedicina e Intelligenza Artificiale nella pratica clinica in nefrologia? Forti dell'esperienza accumulata durante la pandemia, oggi i nefrologi italiani sono pronti a raccogliere la sfida sostenuta anche da Pnrr nell'ottica di ri-orientare la risposta sanitaria verso un approccio domiciliare e territoriale grazie alla telemedicina e l'assistenza da remoto. Il gruppo di lavoro Istituto superiore di sanità-Sin sta elaborando un documento di consensus nazionale sulla telemedicina in nefrologia che ha stabilito i requisiti indispensabili per offrire servizi quali la teleassistenza, la televisita e il teleconsulto.
 
L'urgenza di implementare la telemedicina è oggi ancor più evidente sulla base dell'aumento già registrato dei casi di Covid-19. Gli ospedali assistono infatti a una nuova ondata di infezioni che, sebbene di durata e di intensità minore rispetto al periodo pandemico, sono molto rischiose per le popolazioni fragili come quella dei pazienti nefropatici: dializzati, trapiantati e immunodepressi. "Ricordiamo che la mortalità per i pazienti nefropatici era stata nella prima fase pandemica del 40%, poi drasticamente ridotta con la somministrazione dei vaccini che però non ha ridotto il tasso di trasmissione", sottolinea Gregorini.
 
Nella sessione dedicata al trapianto renale si spazierà dai problemi consolidati, come la recidiva delle glomerulonefriti nell'organo trapiantato, fino agli aspetti più innovativi di biologia molecolare per l'esecuzione e il monitoraggio del trapianto stesso. Verranno infine approfondite le novità che arrivano dagli Usa dove è stato eseguito negli scorsi mesi un trapianto di un rene di maiale geneticamente modificato su un paziente clinicamente deceduto.