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di Rossella Gemma
Un incremento del 25% del tasso di allattamento esclusivo a 3 mesi dal parto grazie al tele-supporto ai genitori rispetto ad un’assistenza standard e può avere un effetto positivo anche fino ai 6 mesi è il dato rilevato da uno studio recente. Lo sviluppo delle telecomunicazioni negli ultimi 150 anni è stato impressionante, sia per quanto riguarda gli strumenti (“devices”), che per il tipo di connettività e, durante la pandemia Covid-19, l’utilizzo della telemedicina è esploso.
Sulla base di queste esperienze, la Società Italiana di Neonatologia (SIN) ha realizzato e diffuso una Position Statement sul Tele-supporto all’Allattamento, coordinata dal dott. Riccardo Davanzo, Presidente della Commissione Allattamento della Società Italiana di Neonatologia (COMASIN). Nel documento la SIN ha, innanzitutto, evidenziato la grandissima efficacia, in termini di promozione e sostegno all’allattamento, dell’uso di queste nuove tecnologie in campo medico e ne ha identificato e descritto i requisiti, esaminando le relative normative.
La SIN ha condotto una ricerca qualitativa secondo la metodologia del Focus Group, su un campione di infermieri e medici delle Neonatologie italiane, mostrando come, pur risultando più difficile la comunicazione fra operatori sanitari e mamme, il tele-supporto all’allattamento è apprezzato dalle famiglie, consentendo anche un’auspicata partecipazione dei padri in misura maggiore, rispetto alle usuali consulenze in presenza. Il personale sanitario durante la pandemia ha svolto questa attività negli ospedali ancora una volta con impegno e dedizione personali, potendo, raramente, contare su un’adeguata organizzazione aziendale, che fornisse i devices necessari e una specifica formazione.
Nonostante nel 2022 siano stati emanati dei decreti legislativi sulla telemedicina e il PNRR stesso riconosca alla telemedicina un ruolo centrale nella riorganizzazione dell’assistenza sanitaria, le esperienze di tele-supporto all’allattamento, una volta passata l’emergenza pandemica, in assenza di un progetto preciso, si sono, purtroppo, fermate in gran parte delle strutture sanitarie, disconoscendo il grande valore che l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) attribuisce agli interventi preventivi nell’area della salute materno-infantile.
“Uno studio scozzese, pubblicato pochi giorni fa, ha confermato un’ennesima volta come l’allattamento al seno, migliorando lo stato di salute della popolazione pediatrica e riducendo l’accesso alle cure mediche, di fatto abbassa i costi sanitari”, ha commentato il Dott. Davanzo.
La SIN sottolinea come in questa situazione il semplice contatto telefonico con l’utente resti la prima modalità di supporto all’allattamento, che può consentire un triage per la programmazione di una videochiamata di supporto con operatori sanitari adeguatamente formati, quando non sia possibile avere una consulenza in presenza o comunque in tempi brevi. “Le visite di supporto all’allattamento in presenza dovrebbero rappresentare l’effetto di una efficiente selezione compiuta via smartphone o computer e dovrebbero essere organizzate dalle Aziende Sanitarie in integrazione fra ospedale e strutture territoriali”, conclude Luigi Orfeo, Presidente SIN.
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di Rossella Gemma
Il successo dei trattamenti è però legato alla precocità della diagnosi. Ed è per questo motivo che l'implementazione di un programma strutturato di screening polmonare deve rappresentare una priorità nell'ambito degli interventi e delle politiche di sanità pubblica.
Per contribuire a un dibattito aperto sul tema, C.R.E.A. Sanità ha sviluppato, con il contributo di Roche Italia, un innovativo modello che, per la prima volta, integrando e aggiornando uno studio precedente, analizza anche l'impatto di farmaci innovativi come l'immunoterapia, di recente introduzione, e offre una valutazione economica dello screening del cancro al polmone, basata su evidenze di costo-efficacia, costo-utilità, impatto finanziario (budget impact).
I risultati del modello stimano che l'attuazione di un programma di screening nazionale nei pazienti ad alto rischio, consentirebbe, grazie a una diagnosi tempestiva, un incremento della sopravvivenza dei pazienti screenati di 7,63 anni rispetto ai non screenati, a fronte di una riduzione dei costi sanitari pari 2,3 miliardi di euro, in un orizzonte temporale di 30 anni.
La presentazione dei risultati, avvenuta alla Camera dei Deputati, è stata l'occasione per dare vita a un dibattito costruttivo che ha coinvolto esperti clinici, economisti e istituzioni, con l'obiettivo di stimolare un impegno condiviso per ampliare l'accesso allo screening al polmone nel nostro Paese.
"Il modello elaborato- ha spiegato Federico Spandonaro, professore aggregato Università degli Studi di Roma 'Tor Vergata' e presidente del Comitato Scientifico C.R.E.A. Sanità- dimostra che la promozione di uno screening della popolazione ad alto rischio per il carcinoma polmonare è una politica di sanità pubblica efficace ed efficiente che, purché adeguatamente promossa e incentivata, risulta anche sostenibile da un punto di vista finanziario".
"Parallelamente alla lotta al tabagismo- ha dichiarato la professoressa Giulia Veronesi, direttrice del Programma di Chirurgia Robotica Toracica presso l'Irccs ospedale San Raffaele- è prioritario favorire l'accesso allo screening ai soggetti ad alto rischio, cioè fumatori o ex forti fumatori sopra i 50 anni. Le società scientifiche internazionali e la Commissione europea stanno già andando in questa direzione e raccomandano, per questi soggetti, regolari TAC al torace a basso dosaggio di radiazioni intensità, per un monitoraggio adeguato".
"Quando il tumore al polmone viene diagnosticato e trattato in fase precoce con chirurgia e farmaci- ha proseguito Veronesi- si possono raggiungere tassi di sopravvivenza a 5 anni intorno all'80%. Per questo, investire in un programma strutturato di screening polmonare è oggi più cruciale che mai, perché consente un guadagno di vita di oltre 7 anni a fronte di un risparmio economico per il Sistema sanitario nazionale".
"Mentre è ormai prassi consolidata fornire evidenze anche in termini di costo-efficacia delle terapie- ha commentato il presidente Aiom, Francesco Perrone- ci sono ancora pochi dati e analisi di questo tipo sullo screening. Il modello presentato oggi sul polmone è, per questo, molto interessante e ha il potenziale per essere replicato e applicato ad altri screening oncologici, fornendo uno strumento di grande valore per guidare le politiche sanitarie".
L'onorevole Ugo Cappellacci, presidente della XII Commissione Affari Sociali della Camera dei Deputati, ha ricordato che "gli screening consentono di giocare d'anticipo sulla malattia e sulle conseguenze. Per questo è fondamentale recuperare i ritardi accumulati durante la pandemia. Una delle misure su cui Governo e Parlamento stanno lavorando è lo smaltimento delle liste d'attesa, con un provvedimento importante a favore dei diritti dei cittadini".
"La missione- ha poi precisato Cappellacci- è, inoltre, quella di ampliare l'offerta di screening ad ambiti prioritari come quello del tumore al polmone, grazie all'azione comune avviata a livello europeo e che vede anche l'Italia protagonista. In Commissione abbiamo svolto una serie di audizioni sul Piano Europeo Contro il Cancro da cui, una volta di più, emerge che impiegare nuove risorse a favore della salute non va considerato una spesa, ma il migliore investimento e la migliore riforma che si possa attuare".
"Grazie a significativi investimenti in ricerca- le parole di Federico Pantellini, Medical Lead Roche Italia- mettiamo a disposizione dei pazienti affetti da tumore al polmone farmaci immunoterapici e a bersaglio molecolare in grado di agire fin dalle fasi precoci della malattia, dove l'obiettivo può essere quello della cura. Per poter assicurare i benefici associati a questi trattamenti, è prioritario effettuare una diagnosi quanto più precoce e lo screening è uno strumento chiave".
"In questa prospettiva- ha concluso Pantellini- rinnoviamo la nostra volontà ad essere un partner di valore per il Sistema, collaborando con tutti gli attori in campo affinché l'accesso a questa strategia di salute pubblica così preziosa possa essere garantito. Il dibattito di oggi si inserisce nell'ambito del programma LungLive, promosso da Roche per ridefinire insieme il tumore al polmone, puntando su prevenzione primaria, screening e innovazione terapeutica fin dalle fasi precoci di malattia".
Il modello presentato fornisce uno strumento prezioso, se si tiene conto del fatto che, tra tutti i tumori, quello al polmone è quello a maggiore impatto per la società: a livello mondiale l'onere raggiunge i 4.000 miliardi di dollari, mentre in Italia è stato stimato un costo annuo di 2,5 miliardi di euro. E in un contesto di risorse limitate per le politiche pubbliche, l'aspetto economico non può essere trascurato.
Assumendo di effettuare lo screening con frequenza biennale sulla popolazione ad alto rischio (rappresentata dai soggetti di età compresa fra 50 e 79 anni con forte esposizione al fumo- più di 30 pack-year), considerando un orizzonte temporale di 30 anni e adottando, infine, un tasso di risposta del 30%, il modello predisposto stima che sarà necessario effettuare in media circa 460.000 LD-CTs annue (circa 360.000 a regime se non si modificheranno significativamente le abitudini di fumo).
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di Rossella Gemma
Al chirurgo-robot oggi basta un solo ‘accesso’ per operare prostata e rene: con il nuovo sistema robotico ‘monobraccio’ non servono più le classiche quattro incisioni nella parete addominale per inserire i bracci robotici operatori, ma ne è sufficiente una sola, della grandezza massimo di una moneta, così il recupero post-operatorio si accorcia al minimo indispensabile e in futuro i pazienti potranno tornare a casa dopo poche ore dall’intervento. L’innovativa tecnologia è da oggi disponibile all’IRCCS di Candiolo (TO) dove Francesco Porpiglia, Professore ordinario di Urologia nel Dipartimento di Oncologia dell’Università di Torino sede di Orbassano coadiuvato dall’equipe dell’Urologia dell’IRCCS Candiolo, ha appena operato i primi due pazienti con il nuovo metodo che, nel prossimo futuro, consentirà di rendere l’intervento di rimozione di un tumore alla prostata una procedura rapida, da eseguire con un ricovero di 24-48 ore: “Grazie a questa eccellenza dei robot-chirurgici già oggi negli Stati Uniti oltre il 90% dei pazienti rientra a casa la sera stessa dell’operazione, il nostro obiettivo sarà la dimissione dopo aver trascorso al massimo una o due notti in ospedale”, dice Francesco Porpiglia.
Il nuovo robot Da Vinci SP, acquisito con il contributo della Fondazione Piemontese per la ricerca sul Cancro ONLUS, rappresenta un sistema di ultimissima generazione con un unico braccio robotico che offre la possibilità di eseguire interventi chirurgici complessi attraverso un unico accesso, sfruttando dove possibile orifizi naturali per raggiungere gli organi senza ledere la parete muscolare. Il braccio è equipaggiato con tre strumenti chirurgici evoluti che consentono una mobilità molto maggiore rispetto alla mano umana e con un endoscopio super-flessibile e orientabile per la miglior visione in alta definizione del campo operatorio, tutti controllati direttamente dal chirurgo. “Lo strumento, una volta inserito, consente una grande capacità di manovra in spazi anatomici molto ristretti, anche se occorre abituarsi a operare in maniera differente rispetto al passato – spiega Porpiglia – In questo modo l’intervento diventa ultra-preciso, ma anche mininvasivo grazie al singolo accesso di circa 3 cm. Per il paziente significa ridurre il trauma e l’infiammazione locali, diminuendo notevolmente il dolore post-operatorio e tagliando i tempi del recupero, con benefici che sono anche estetici e psicologici”. Lo strumento è già utilizzato negli Stati Uniti, dove è stato introdotto nel 2018 e il suo impiego cresce del 38% annuo per ben 9000 interventi nel solo 2023; da un paio di mesi ha ricevuto il marchio CE ed è appena stato introdotto in Germania e Regno Unito.
In Italia, Candiolo è il quarto centro, unico in Piemonte, a dotarsi dell’innovativa tecnologia, la più avanzata piattaforma robotica a oggi disponibile. “Non si tratta di uno strumento adatto a tutti i pazienti, – aggiunge Porpiglia – Le prime indicazioni per le quali trova una sua destinazione naturale si hanno proprio in chirurgia urologica, che negli USA costituisce il 73% degli interventi, prevalentemente nel trattamento del tumore del rene e della prostata. In ambo i casi il sistema consente di passare al di fuori della cavità addominale con una minore invasività ma senza ridurre la qualità chirurgica e diminuendo del 30% i tempi di degenza grazie a una rapida ripresa e una significativa riduzione del dolore post-operatorio. Dei circa 500 interventi di chirurgia robotica programmati a Candiolo nel 2024, oltre un centinaio potranno essere appannaggio del robot ‘monobraccio’. L’obiettivo dell’IRCCS di Candiolo, grazie all’adozione di questa innovativa tecnologia, è quello di poter offrire a ciascun paziente una chirurgia sempre più pecisa e personalizzata, senza compromettere l’efficacia oncologica e massimizzando i risultati funzionali e di rapida ripresa della vita quotidiana del paziente grazie al minimo impatto dell’intervento”.
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di Rossella Gemma
Al chirurgo-robot oggi basta un solo ‘accesso’ per operare prostata e rene: con il nuovo sistema robotico ‘monobraccio’ non servono più le classiche quattro incisioni nella parete addominale per inserire i bracci robotici operatori, ma ne è sufficiente una sola, della grandezza massimo di una moneta, così il recupero post-operatorio si accorcia al minimo indispensabile e in futuro i pazienti potranno tornare a casa dopo poche ore dall’intervento. L’innovativa tecnologia è da oggi disponibile all’IRCCS di Candiolo (TO) dove Francesco Porpiglia, Professore ordinario di Urologia nel Dipartimento di Oncologia dell’Università di Torino sede di Orbassano coadiuvato dall’equipe dell’Urologia dell’IRCCS Candiolo, ha appena operato i primi due pazienti con il nuovo metodo che, nel prossimo futuro, consentirà di rendere l’intervento di rimozione di un tumore alla prostata una procedura rapida, da eseguire con un ricovero di 24-48 ore: “Grazie a questa eccellenza dei robot-chirurgici già oggi negli Stati Uniti oltre il 90% dei pazienti rientra a casa la sera stessa dell’operazione, il nostro obiettivo sarà la dimissione dopo aver trascorso al massimo una o due notti in ospedale”, dice Francesco Porpiglia.
Il nuovo robot Da Vinci SP, acquisito con il contributo della Fondazione Piemontese per la ricerca sul Cancro ONLUS, rappresenta un sistema di ultimissima generazione con un unico braccio robotico che offre la possibilità di eseguire interventi chirurgici complessi attraverso un unico accesso, sfruttando dove possibile orifizi naturali per raggiungere gli organi senza ledere la parete muscolare. Il braccio è equipaggiato con tre strumenti chirurgici evoluti che consentono una mobilità molto maggiore rispetto alla mano umana e con un endoscopio super-flessibile e orientabile per la miglior visione in alta definizione del campo operatorio, tutti controllati direttamente dal chirurgo. “Lo strumento, una volta inserito, consente una grande capacità di manovra in spazi anatomici molto ristretti, anche se occorre abituarsi a operare in maniera differente rispetto al passato – spiega Porpiglia – In questo modo l’intervento diventa ultra-preciso, ma anche mininvasivo grazie al singolo accesso di circa 3 cm. Per il paziente significa ridurre il trauma e l’infiammazione locali, diminuendo notevolmente il dolore post-operatorio e tagliando i tempi del recupero, con benefici che sono anche estetici e psicologici”. Lo strumento è già utilizzato negli Stati Uniti, dove è stato introdotto nel 2018 e il suo impiego cresce del 38% annuo per ben 9000 interventi nel solo 2023; da un paio di mesi ha ricevuto il marchio CE ed è appena stato introdotto in Germania e Regno Unito.
In Italia, Candiolo è il quarto centro, unico in Piemonte, a dotarsi dell’innovativa tecnologia, la più avanzata piattaforma robotica a oggi disponibile. “Non si tratta di uno strumento adatto a tutti i pazienti, – aggiunge Porpiglia – Le prime indicazioni per le quali trova una sua destinazione naturale si hanno proprio in chirurgia urologica, che negli USA costituisce il 73% degli interventi, prevalentemente nel trattamento del tumore del rene e della prostata. In ambo i casi il sistema consente di passare al di fuori della cavità addominale con una minore invasività ma senza ridurre la qualità chirurgica e diminuendo del 30% i tempi di degenza grazie a una rapida ripresa e una significativa riduzione del dolore post-operatorio. Dei circa 500 interventi di chirurgia robotica programmati a Candiolo nel 2024, oltre un centinaio potranno essere appannaggio del robot ‘monobraccio’. L’obiettivo dell’IRCCS di Candiolo, grazie all’adozione di questa innovativa tecnologia, è quello di poter offrire a ciascun paziente una chirurgia sempre più pecisa e personalizzata, senza compromettere l’efficacia oncologica e massimizzando i risultati funzionali e di rapida ripresa della vita quotidiana del paziente grazie al minimo impatto dell’intervento”.
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di Rossella Gemma
Cinquantadue somministrazioni invece di 365 è il cambiamento nella gestione del diabete promesso dall’insulina settimanale. La molecola, chiamata Icodec e prodotta da Novo Nordisk, è la prima al mondo ‘a lento rilascio’ e ha ottenuto l’approvazione dell’ente regolatorio europeo EMA per la commercializzazione in Europa basata sui dati di sicurezza ed efficacia del programma di fase 3a ONWARDS.
“L’insulina settimanale è una innovazione attesa da tempo sia per le persone con diabete di tipo 1 e 2, per gli effetti positivi sia dal punto di vista clinico che sociale” sottolinea il Professor Angelo Avogaro Presidente SID “auspichiamo quindi che AIFA dia il suo nulla osta all’approvazione di questa insulina innovativa, che coniuga benefici clinici a sostenibilità ambientale grazie alla diminuzione nel numero di penne utilizzate e quindi all’uso della plastica”.
“Si tratta di un miglioramento evidente nella gestione della malattia, con ripercussioni positive sia sulla qualità di vita che sull’aderenza al trattamento. La necessità della somministrazione quotidiana, infatti, può essere stressante e influire sulla continuità di trattamento. La nuova insulina basale viene somministrata sottocute, una sola volta alla settimana, e ha mostrato di migliorare il controllo glicemico, rispetto alla versione giornaliera, senza un aumento del rischio di ipoglicemia” continua Avogaro. I vantaggi sono notevoli, come la riduzione del carico di trattamento: meno iniezioni (da 7 a 1 a settimana) possono significare un minor numero di aghi, meno dolore e una maggiore semplicità, migliorando la compliance e la qualità della vita. Miglioramento del controllo glicemico e minore rischio di ipoglicemia: le formulazioni settimanali rilasciano l'insulina in modo più costante, riducendo i picchi e i cali di zucchero nel sangue e il rischio di ipoglicemia grave. Il migliore controllo glicemico a lungo termine può ridurre il rischio di complicazioni diabetiche come malattie cardiache, ictus, nefropatia e retinopatia.
“Mettere la persona con diabete al centro significa prendere in considerazione anche i suoi bisogni sociali e di vita” prosegue il Professor Avogaro “Meno iniezioni offrono più flessibilità per la routine quotidiana, viaggi e attività sociali. E ridurre le iniezioni frequenti può diminuire lo stress, l'ansia e la depressione associati al diabete con un impatto emotivo inferiore oltre ad un aumento del senso di controllo e di autoefficacia. Una sola iniezione settimanale può aumentare l’aderenza che è un elemento importante per migliorare gli esiti di salute e ridurre sia i ricoveri ospedalieri che i costi che ne derivano”.
La somministrazione settimanale offre un vantaggio anche per i pazienti più anziani, con più patologie in poli trattamento farmacologico e per gli operatori sanitari che si occupano delle persone con diabete ricoverati o residenti in strutture di lunga degenza.
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di Rossella Gemma
La chiave della relazione tra dieta e rischio di cancro potrebbe essere in alcuni cambiamenti nel metabolismo del glucosio in grado di disattivare un gene protettivo dai tumori, il BRCA2. La scoperta, fatta da un team di ricercatori di Singapore e del Regno Unito e pubblicata sulla rivista CeIl, spiegherebbe perché diete squilibrate e malattie come il diabete aumentano il rischio oncologico. “Nell’articolo” spiega il Prof. Angelo Avogaro, Presidente SID “i ricercatori hanno identificato il meccanismo attraverso il quale gli elevati livelli di glucosio, (iperglicemia), potrebbero aiutare la crescita del cancro. L’iperglicemia disabiliterebbe temporaneamente un gene che ci protegge dai tumori chiamato BRCA2. Quando questo gene funziona poco o male aumenta la suscettibilità non solo al cancro della mammella ma anche ad altri tumori”. Il team di ricercatori ha prima esaminato le persone che avevano ereditato una copia difettosa di BRCA2 e hanno scoperto che le cellule di queste persone erano più sensibili al metilgliossale (MGO), un composto che viene prodotto in grandi quantità quando nel sangue vi è iperglicemia. Proprio il metabolismo del glucosio è responsabile di oltre il 90% del MGO presente nelle cellule: livelli elevati possono portare alla formazione di radicali liberi, composti dannosi che danneggiano il DNA e le proteine. In condizioni come il diabete. Dove i livelli di MGO sono elevati a causa dell’alto livello di zucchero nel sangue, questi composti dannosi contribuiscono alle complicanze della malattia.
I ricercatori hanno scoperto che il MGO può disattivare temporaneamente le funzioni antitumorali, provocando mutazioni legate allo sviluppo del cancro. Questo effetto potrebbe essere osservato nelle cellule non cancerose e nei campioni di tessuto derivati dai pazienti, in alcuni casi di cancro al seno umano e in modelli murini di cancro al pancreas. “Le cellule esposte ripetutamente al MGO possono continuare ad accumulare mutazioni che causano il cancro ogni volta che la produzione della proteina BRCA2 esistente fallisce” sottolinea il Professor Avogaro “Ciò suggerisce che i cambiamenti nel metabolismo del glucosio possono interrompere la funzione antitumorale, e positiva, del BRCA2, contribuendo allo sviluppo e alla progressione del cancro”.
Iniziato con l’intento di comprendere i fattori che aumentano il rischio di cancro nelle famiglie a rischio, lo studio ha rivelato il ruolo del processo di glicolisi che trasforma il glucosio in energia. In sintesi, i cambiamenti nei livelli di glucosio possono inibire le funzioni protettive e riparatrici del gene BRCA2a causa dei MGO e contribuire allo sviluppo della malattia. La buona notizia è che in condizioni favorevoli il gene può tornare a svolgere le sue funzioni di sentinella. La notizia positiva è che il metilgliossale è ricavabile mediante un semplice esame del sangue (HDA1C) e che livelli adeguati della sostanza possono essere controllati con una dieta corretta e con farmaci.
Ovviamente per confermare questi risultati saranno necessari studi ulteriori ma il merito dei ricercatori è aver spiegato il meccanismo per cui una dieta scorretta o un diabete non adeguatamente controllato possono aumentare la suscettibilità oncologica.
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di Rossella Gemma
Quasi un cittadino su tre nutre ancora dubbi sul fatto che i farmaci equivalenti abbiano la stessa efficacia di quelli cosiddetti “di marca” e uno su cinque dichiara che il medico indica sul ricettario solo quest’ultima tipologia. Il 47% dei cittadini sarebbe predisposto ad acquistare l’equivalente, mentre resiste un 19% che prediligerebbe comunque il brand.
Sono alcuni dei dati che emergono dalla indagine esclusiva realizzata da SWG, tra aprile e maggio, su un campione di 2500 cittadini maggiorenni rappresentativi della popolazione italiana. La stessa è stata presentata stamattina presso il Ministero della Salute, nel corso dell’evento “Farmaci equivalenti: conoscere per scegliere” promosso da Cittadinanzattiva, nell’ambito della campagna Ioequivalgo, con il contributo non condizionato di Egualia.
Oltre alla indagine SWG, sono stati presentati i dati di una ricerca della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa che per la prima volta ha scelto di introdurre tra gli indicatori di valutazione delle performance regionali ed aziendali anche il ricorso agli equivalenti e i dati sul differenziale di prezzo versato di tasca propria dai cittadini per ritirare in farmacia il brand invece degli equivalenti. Nel 2022 la spesa a carico dei cittadini, comprendente la quota della compartecipazione (ticket regionali e differenziale), l’acquisto privato dei medicinali di classe A e la spesa dei farmaci di classe C, è stata pari a 9,9 miliardi, con un aumento del 7,6% rispetto al 2021. Il tutto con una costante: la spesa per la compartecipazione risulta generalmente più elevata nelle Regioni a basso reddito.
La campagna Ioequivalgo avviata da Cittadinanzattiva dal 2016 ha raggiunto, nelle cinque edizioni che si sono susseguite, tutte le regioni d’Italia con i suoi villaggi allestiti nelle piazze e negli atenei dove le persone hanno potuto ricevere informazioni attraverso il colloquio diretto con professionisti della salute, attraverso i leaflet e il sito web http://www.ioequivalgo.it e soprattutto attraverso l’app, strumento prezioso e di facile utilizzo, costantemente aggiornato dal partner tecnico Farmadati. L’edizione attualmente in corso della campagna ha indagato le ragioni per cui al Sud, ed in particolare nelle regioni pilota Campania e Sicilia, il ricorso ai farmaci equivalenti sia così ridotto, a fronte di un reddito pro capite mediamente più basso rispetto alle Regioni del Nord, dove il consumo degli equivalenti è ormai pratica consolidata.
Come emerge infatti dall’ultimo Report realizzato dal Centro Studi di Egualia, nel 2023 i cittadini hanno versato di tasca propria 1.029 milioni di euro di differenziale di prezzo per ritirare il brand off patent - più costoso - invece che il generico-equivalente - a minor costo - interamente rimborsato dal SSN. Il ricorso alle cure equivalenti continua però ad essere privilegiato al Nord (rappresenta il 39,8% delle confezioni vendute) rispetto al Centro (29%) e al Sud (23,7%), a fronte di una media Italia del 32%. L’incidenza maggiore di consumo è nella P.A. di Trento (44,7%), in Friuli Venezia Giulia (41,9%), in Piemonte (40%). In coda per consumi di equivalenti sono Sicilia (22,7%), Campania (21,9%), Calabria (21,7%). Cittadinanzattiva ha presentato alcune proposte concrete, in vari ambiti
Sul piano della comunicazione e informazione occorre:
- avviare indagini qualitative sulle preferenze degli utenti rispetto al consumo dei farmaci, analizzando i fattori associati ad eventuali pregiudizi sul farmaco equivalente, al fine di pianificare interventi specifici e personalizzati anche con il supporto delle organizzazioni civiche e delle associazioni di pazienti;
- realizzare una campagna di informazione istituzionale rivolta ai cittadini e agli operatori sanitari (medici, farmacisti, infermieri), che punti sui diritti e sulla responsabilità di ognuno;
portare la formazione nelle scuole, creando un’integrazione tra sistema educativo e sistema sanitario; promuovere e favorire le attività ed il contributo che le associazioni di pazienti e le organizzazioni civiche possono dare attraverso momenti di informazione di prossimità alla cittadinanza.
Sotto il profilo della formazione del personale:
- sviluppare piani formativi dedicati al tema dei farmaci equivalenti all’interno dei corsi di laurea in Farmacia, Medicina e chirurgia e infermieristica;
- potenziare i corsi di formazione ECM sul valore dei farmaci equivalenti e gestione ottimale di questa risorsa come valore clinico ed economico per il cittadino e il SSN.
Dal punto di vista della gestione tecnica della prescrizione:
- estendere l’utilizzo della ricetta elettronica ad ogni medico convenzionato con il SSN ed operante nei vari setting assistenziali pubblici e privati convenzionati;
- rendere sistematico il monitoraggio sulle prescrizioni da parte dei professionisti sanitari e sull’appropriatezza nell’uso delle clausole di non sostituibilità, avviando un confronto a livello di Regioni sull’eventuale uso eccessivo o inappropriato della “non sostituibilità”
- promuovere un Tavolo Tecnico a livello regionale con il coinvolgimento di medici, farmacisti, infermieri, Distretti sanitari, rappresentanti delle società scientifiche e delle organizzazioni civiche e di pazienti al fine di avviare azioni sinergiche per migliorare l’accesso ai farmaci equivalenti sul territorio a partire dai dati di monitoraggio/comportamento cittadini.
Lo studio, presentato da Riccardo Grassi, aggiorna una precedente rilevazione del 2021 analizzando gli atteggiamenti generali verso la salute, il livello di informazione, la fiducia nei players, il rapporto con i farmaci, la conoscenza del farmaco generico/equivalente e i criteri d’acquisto.
Più o meno inalterato l’atteggiamento degli italiani rispetto alle questioni sanitarie: il 56% del campione si dichiara attento alla salute, il 52% fa regolamene esami di routine (61% over 64), la maggioranza dichiara di stare bene (44%) o molto bene (37%) ma tre italiani su cinque e lamentano stanchezza ed affaticamento, e quasi la metà dolori osteo-articolari e insonnia. Piccoli disturbi che hanno affrontato rivolgendosi al medico (31%), allo specialista (16%) al farmacista (10%) e acquistando farmacia da banco (31%).
Il 72% del campione è ben informato anche sui farmaci equivalenti, dichiarando di averne sentito parlare dal farmacista (58%) o dal medico (41%): l’83% del campione sa che l’equivalente contiene lo stesso principio attivo del brand, il 69% che contiene la stessa quantità di farmaco, ma per quasi un quarto della popolazione generici ed equivalenti non sono la stessa cosa. E quasi il 30% degli intervistati continua ad avere dubbi sul fatto che abbiano la stessa efficacia.
Al momento dell’acquisto quasi due italiani su tre (64%) si affidano alle indicazioni del medico, soprattutto tra gli over 64 e i residenti nel Nord-Est, ma c’è una certa fiducia anche nelle indicazioni del farmacista (23%), soprattutto tra i giovani. Focus anche sulle abitudini prescrittive dei medici: il 20% del campione dice che il medico in ricetta indica solo il farmaco di marca; il 36% che indica il principio attivo e il farmaco di marca; solo il 31% riferisce che il medico indica solo il principio attivo lasciando al paziente la scelta tra equivalente e brand. Il 47% del campione si dice comunque orientato ad acquistare un farmaco equivalente, il 34% il farmaco consigliato dal medico o dal farmacista e il 19% il farmaco di marca.
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di Rossella Gemma
Con 44 Banche del Latte Umano Donato (BLUD), l’Italia continua a mantenere il suo ruolo di leader in Europa. Le ultime due BLUD sono state aperte in Sicilia, che ora conta 5 banche e rappresenta la quarta regione in Italia per numero di banche dopo la Lombardia con 7, il Veneto e la Toscana con 6. Nonostante questa presenza territoriale così diffusa e la generosità di tantissime mamme italiane, che compiono questo grande gesto di solidarietà, il latte umano donato (LUD) non è ancora sufficiente per tutti i neonati ed i lattanti che ne hanno bisogno nel nostro Paese. Sono principalmente due le categorie di bambini che possono beneficiare del latte umano donato: i neonati prematuri o con patologie e quelli in emergenza. Per i neonati prematuri, cioè, nati prima della 37a settimana di gestazione e particolarmente fragili, il LUD è un vero salvavita perché spesso questi bambini non possono essere allattati al seno dalla propria mamma. Ma il latte donato può essere indispensabile anche per i neonati ed i lattanti che si trovano in situazioni di emergenza.
L'Italia è un Paese che vive in pieno dissesto idrogeologico, che da emergenza si è trasformato in realtà quotidiana. Nell'ultimo decennio si sono verificate diverse emergenze: terremoti, alluvioni, altri disastri, crisi dei rifugiati e dei migranti, senza contare la pandemia di Covid-19. Nelle emergenze la mortalità infantile può essere fino a 70 volte superiore al tasso medio. La Protezione Civile e il sistema di emergenza a livello regionale e locale hanno migliorato significativamente la loro capacità di risposta, ma poco o nulla è cambiato per quanto riguarda la protezione, la promozione e il sostegno dell'alimentazione dei neonati e dei lattanti nelle emergenze. In queste situazioni, la sopravvivenza dei lattanti può dipendere dall’accesso all’allattamento al seno e/o al latte umano.
“Per questo motivo, la nostra associazione ha deciso di realizzare il progetto Latte umano donato nelle emergenze, che vedrà coinvolte molte delle BLUD operative nel nostro Paese”, spiega Guido Moro, Presidente dell’AIBLUD Onlus, Associazione Italiana Banche del Latte Umano Donato. “Il progetto si basa sulla realizzazione di una Centrale Operativa ubicata nel nord Italia, dove verrà fatto confluire il 10% del latte donato raccolto dalle banche coinvolte nell’iniziativa. Il latte verrà lavorato nella Centrale Operativa e trattato con un processo di liofilizzazione, che trasformerà il latte liquido in latte in polvere. La liofilizzazione consentirà di mantenere tutte le caratteristiche organolettiche del latte per un periodo di 24 mesi. Il volume ridotto del liofilizzato permetterà di stoccare notevoli quantità in uno spazio minore. In caso di necessità, il latte liofilizzato verrà, poi, inviato nelle zone delle emergenze, per alimentare neonati e lattanti che non hanno la possibilità di ricevere il latte della propria mamma”.
Una politica basata su promozione e sostegno del latte umano come strategia per le emergenze dovrebbe essere sviluppata in ogni Paese civile, e per questo motivo l’AIBLUD sta lavorando su questo progetto per l’Italia.
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di Rossella Gemma
Uscita dal grande gruppo delle malattie rare, oggi l’esofagite eosinofila sta diventando una vera e propria sfida per la gastroenterologia. Questa impennata è stata rivelata da uno studio pubblicato sulla rivista scientifica Alimentary Pharmacology & Therapeutics. Che sottolinea come la patologia colpisca almeno 34 bambini e 42,2 adulti ogni 100.000 abitanti. Ma l’elemento chiave è la rapidità della sua progressione, che l’ha portata ormai ben oltre la soglia sotto la quale una malattia è definita rara.
“Questi dati epidemiologici, che riteniamo validi anche per il nostro Paese, dimostrano la notevole diffusione dell’esofagite eosinofila nella popolazione infantile. Probabilmente il dato è anche sottostimato – spiega il professor Claudio Romano, Presidente SIGENP – ed è difficile al momento valutarne le dimensioni esatte: i sintomi sono subdoli, si possono confondere con quelli di altre patologie e - al di fuori dei centri specializzati - non è così conosciuta come dovrebbe. Lo studio comparativo dell’Università di San Diego, California e dell’università del North Carolina ha appurato che tra le prime osservazioni su questa patologia, degli anni 80 e quelli più recenti, fine 2023, la prevalenza è cresciuta dell’800%. La ricerca mondiale è al lavoro, sono in arrivo nuovi farmaci. Se ne parlerà da domani al 18 maggio anche nel corso del 56° meeting dell’ESPGHAN, Società Europea di Gastroenterologia, Epatologia e Nutrizione Pediatrica che si svolgerà quest’anno in Italia, proprio qui a Milano”. Il più delle volte la malattia viene diagnosticata per la prima volta in Pronto Soccorso dove vengono portati i pazienti quando vanno incontro al blocco di un bolo alimentare nell’esofago.
“È questo il più frequente incidente causato dalla malattia trascurata” afferma la prof. Caterina Strisciuglio, Associato di Pediatria all’Università Luigi Vanvitelli della Campania. “Non di rado la prima diagnosi avviene in pronto soccorso quando i medici sono costretti ad intervenire in emergenza per rimuovere il bolo alimentare dall’esofago. In quanto all’incidenza, pur essendo maggiore nel secondo decennio di vita, osserviamo sempre più spesso casi di bambini che non hanno ancora compiuto 10 anni. La malattia è decisamente più frequente nel sesso maschile. Tra i sintomi che possono mettere in allarme i genitori, benchè non ne esistano di specifici, ci sono il vomito dopo i 18 mesi, se frequente o un ostinato rifiuto del cibo”. Ci sono segnali che i genitori possono tenere sotto controllo per verificare l’eventuale esordio della malattia: “Va osservato se il bambino impiega tanto tempo per completare il pasto” spiega la dott. Francesca Rea, Responsabile dell’Ambulatorio patologie eosinofile del tratto gastrointestinale, Ospedale Pediatrico Bambino Gesù, Roma, “ se mastica a lungo, se beve molto mentre si mangia, se preferisce pasti morbidi o in pezzetti molto piccoli. Questi comportamenti non vanno sottovalutati, perchè possono essere la spia di una esofagite eosinofila. Che può essere diagnosticata con certezza in fase anche precoce con un esame invasivo, ma assolutamente sicuro: una endoscopia dell’esofago, EGDS, durante la quale si fanno alcune piccole biopsie. Se nei tessuti asportati si riscontra un’abnorme quantità di eosinofili, la situazione è chiara”.
Ma se diagnosticata in tempo, e questo è più facile proprio in età pediatrica, l’esofagite eosinofila può essere tenuta sotto controllo, anche se non guarita impedendole di progredire e aggravarsi. “Si possono usare normali inibitori della pompa protonica, corticosteroidi, dieta di eliminazione” sottolinea il prof. Salvatore Oliva, Associato presso il Dipartimento Materno Infantile dell’Università La Sapienza di Roma. “Ma la grande novità è un farmaco biologico appena approvato anche in Italia, e di cui stiamo aspettando la rimborsabilità anche per l’esofagite eosinofila, contro la quale è perfetto. E ce ne sono altri in fase di sperimentazione. Abbiamo però due problemi. Il primo è che molti farmaci sono efficaci, ma non essendo ufficialmente indicati contro questa malattia sono in una forma sbagliata; per esempio i corticosteroidi che si usano per l’asma sono efficaci ma dobbiamo somministrarli in modi non previsti. In particolare devono essere deglutiti anziché inalati. Il secondo problema è che i farmaci più nuovi non sono ancora autorizzati per i bambini. Quelli che ne avrebbero più bisogno per frenare la malattia prima che progredisca”. La crescente diffusione dell’esofagite eosinofila sta suscitando una comprensibile attenzione da parte della comunità scientifica. “Questa malattia” conclude il prof. Romano “è una delle grandi sfide della gastroenterologia nei prossimi anni. E la SIGENP con i suoi Centri di riferimento distribuiti su tutto il territorio nazionale ha già accolto questa sfida. È fondamentale che venga meglio conosciuta dal pubblico, dalle famiglie per poter arrivare a una diagnosi precoce e impostare una terapia corretta che ne blocchi la progressione”.
Occorre, insomma, informare, creare consapevolezza. “Questo è il compito che ci prefiggiamo e che portiamo avanti come ESEO Associazione di famiglie contro l'esofagite e le patologie gastrointestinali eosinofile” spiega la Presidente Roberta Giodice: “sensibilizzare le istituzioni, l’opinione pubblica e aiutare questi pazienti e le loro famiglie, a fronteggiare una patologia di cui molti non conoscono neppure l’esistenza. Con la campagna ESEO Italia 2024 intendiamo promuovere una corretta educazione sanitaria attraverso attività e progetti mirati a garantire con la sensibilizzazione una riduzione del ritardo diagnostico per i pazienti con patologie gastrointestinali eosinofile, orientandoli nei percorsi di cura”.
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di Rossella Gemma
Una ricerca congiunta condotta da Sapienza Università di Roma in collaborazione con I.R.C.C.S. Neuromed di Pozzilli, Mediterranea Cardiocentro di Napoli e Università LUM di Casamassima, ha messo in luce un'associazione significativa tra ipoalbuminemia (bassi livelli di albumina nel sangue) e un aumento del rischio di mortalità per malattie vascolari e cancro in individui anziani. La ricerca, condotta sulla base dei dati raccolti dallo studio epidemiologico Moli-sani e pubblicata sulla rivista scientifica eClinical Medicine-Lancet, ha analizzato un vasto gruppo di persone (circa 18.000 soggetti, dei quali 3.299 di età pari o superiore ai 65 anni), dimostrando che livelli di albumina inferiori a 35 g/L sono collegati a un rischio maggiore di morte negli anziani. Questa relazione è stata osservata anche dopo aver escluso fattori come malattie renali o epatiche e stati infiammatori acuti, che possono influenzare i livelli di albumina.
“La possibilità di ottenere indicazioni predittive su malattie con alta incidenza e elevato rischio di morte – come quelle cardiovascolari o i tumori – attraverso un esame semplice e ampiamente disponibile, anche a basso costo, rappresenta una importante conquista per la medicina moderna” – commenta la rettrice della Sapienza Antonella Polimeni. “Questo studio, che conferma e consolida l’eccellenza delle attività scientifica delle università e degli enti di ricerca italiani in campo medico, ha anche un importante valore sociale attribuibile alle possibili ricadute nell’ambito della prevenzione”.
“La nostra analisi – dice Francesco Violi, Professore Emerito della Sapienza Università di Roma e ideatore dello studio – origina dal fatto che nel sangue l’albumina è una proteina che svolge attività antiossidante, antinfiammatoria e anticoagulante. La sua diminuzione, pertanto, accentua lo stato infiammatorio sistemico, facilitando l’iperattività delle cellule predisposte alla cancerogenesi o alla trombosi. È importante, in questo contesto, sottolineare che cancro e infarto cardiaco condividono una base comune proprio nella presenza di uno stato infiammatorio cronico, e che pazienti a rischio di malattie cardiovascolari, come i diabetici e gli obesi, sono anche a rischio di cancro”.
"I risultati del nostro studio – aggiunge Augusto Di Castelnuovo, epidemiologo della Mediterranea Cardiocentro e dell’I.R.C.C.S. Neuromed- mostrano che un livello basso di albumina, oltre a fornire indicazioni sullo stato nutrizionale e sulla salute del fegato, segnala anche una aumentata suscettibilità verso altre gravi patologie. L'ipoalbuminemia potrebbe riflettere quel processo infiammatorio cronico, tipico dell'invecchiamento, noto come ‘inflammaging’, che potrebbe aver contribuito al rischio elevato di mortalità che abbiamo osservato."
Un dato interessante della ricerca è che l'ipoalbuminemia è correlata a un livello socioeconomico più basso. Questo solleva un'importante questione sociale, poiché per motivi economici, gli anziani optano spesso per una dieta meno salutare, scegliendo alimenti con proteine meno nobili. “Oltre a fornirci lo spunto per approfondire con ulteriori ricerche il rapporto tra albumina nel sangue e salute – commenta Licia Iacoviello, direttore del Dipartimento di Epidemiologia e Prevenzione dell’I.R.C.C.S. Neuromed e Professore Ordinario di Igiene dell’Università LUM - questo studio può avere implicazioni dirette sulla pratica clinica e sulla prevenzione. La misura dell’albumina nel sangue è infatti un test semplice e poco costoso. È quindi da considerare un’analisi di primo livello, che permetterebbe di porre una maggiore attenzione clinico-diagnostica verso gli individui anziani potenzialmente a rischio. Il nostro studio fornisce anche un valore di riferimento (35 g/L) che può guidare il medico nell’interpretazione della misura di albumina”.