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di Rossella Gemma
Sintomo di esordio o complicanza successiva, l’Epilessia costituisce una comorbidità frequente in chi è affetto da tumore cerebrale: l'Epilessia tumore-relata costituisce il 6-10% di tutti i casi di Epilessia e il 12% delle Epilessie acquisite ed è il sintomo più comune nelle persone con tumore cerebrale.
Esistono tumori cerebrali che di per sé presentano un basso rischio di evoluzione sfavorevole, ma sono molto frequentemente causa di crisi epilettiche spesso farmacoresistenti. In molti di questi casi, è possibile intervenire chirurgicamente, anche e soprattutto per ottenere il controllo delle crisi.
Purtroppo, le crisi epilettiche sono spesso associate anche a tumori cerebrali con vari gradi di malignità; in questo caso, l’intervento chirurgico riveste un duplice ruolo terapeutico: oncologico ed epilettologico.
In occasione del mese di ottobre dedicato alla prevenzione oncologica, la LICE, Lega Italiana Contro l’Epilessia, con il suo Gruppo di Studio Epilessia e Tumori, accende i riflettori su questo delicato tema: “In questi casi, l’Epilessia, quando presente, incide sfavorevolmente su una qualità della vita già spesso precaria: le crisi sono talora difficili da controllare, e oltre che un problema medico sono motivo di ulteriori restrizioni nella vita quotidiana. – sottolinea il Prof. Carlo Andrea Galimberti, Presidente LICE - I farmaci anticrisi sono necessari ma, a volte, accentuano il disagio psicologico e i problemi cognitivi già legati alla presenza del tumore e agli esiti dei provvedimenti chirurgici. Inoltre, la scelta dei farmaci anticrisi deve tener conto delle prospettive terapeutiche (Chemioterapia e Radioterapia) ed esistenziali del singolo paziente”.
L'Epilessia-tumore relata ha, infatti, caratteristiche peculiari: “Innanzitutto, le persone affette da questo tipo di Epilessia – ricorda la Dott.ssa Giada Pauletto, responsabile Gruppo di Studio Epilessia e Tumori cerebrali, LICE - sono più a rischio di ridurre la terapia o di sospenderla per effetti collaterali da farmaci anticrisi non tollerabili. Non sappiamo bene perché questo avvenga, probabilmente per caratteristiche intrinseche, per l'interazione con altri farmaci, ad esempio con i corticosteroidi, oppure per una minore tollerabilità proprio a livello psicologico. Ci sono, inoltre, dei limiti terapeutici nell’utilizzo di alcuni farmaci anticrisi a nostra disposizione, proprio perché possono interagire con gli steroidi, i chemioterapici e la radioterapia. Infine, è da sottolineare un’aumentata farmacoresistenza in questo tipo di pazienti”.
Se consideriamo globalmente la farmacoresistenza, nelle persone affette da Epilessia si arriva ad un’incidenza di circa il 30%, mentre nei casi di Epilessia tumore-relata si può arrivare sino a un 40%.
“La terapia antiepilettica nelle persone con tumore cerebrale è il frutto di una decisione complessa che deve tener conto di più fattori – aggiunge la dott.ssa Eleonora Rosati, referente LICE del gruppo di studio su Epilessia e Tumori. Se, in prima battuta, si raccomanda l’impiego di farmaci indicati per l’epilessia focale, le caratteristiche che principalmente orientano il clinico verso una scelta mirata nel singolo paziente sono l’efficacia e la tollerabilità, vista la possibile farmacoresistenza e l’alta incidenza di eventi avversi in questa popolazione di individui”.
Per minimizzare il rischio di interazioni farmacologiche con le terapie oncologiche o quelle usate per altre comorbidità, i farmaci che non siano induttori o inibitori enzimatici sono, in generale, da preferire. Un altro criterio di scelta è rappresentato dalla disponibilità di formulazioni per somministrazione endovenosa o in soluzione per via orale, utili, ad esempio, nella gestione delle urgenze. Anche la possibilità di un rapido aggiustamento del dosaggio di un farmaco fino al raggiungimento dell'effetto terapeutico desiderato può rappresentare un vantaggio, considerando che la necessità di un rapido cambiamento terapeutico o di trattare crisi subentranti sono, in questi casi, tutt’altro che infrequenti.
Gli effetti sulle comorbidità come quella psichiatrica o cognitiva hanno, inoltre, un ruolo importante nella selezione di un farmaco e fanno propendere per l’impiego di farmaci con bassa probabilità di influire sfavorevolmente sulle performance cognitive e sull’umore.
Con oltre 50 milioni di persone colpite nel mondo, l’Epilessia è una delle malattie neurologiche più diffuse, per questo l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha riconosciuto l’Epilessia come malattia sociale. Si stima che nei Paesi industrializzati interessi circa 1 persona su 100: in Italia soffrono di Epilessia circa 600.000 persone, ben 6 milioni in Europa. Nei Paesi a reddito elevato, l’incidenza dell’Epilessia presenta due picchi, rispettivamente nei primi anni di vita e dopo i 75 anni. Nel 2022 l’OMS ha ratificato il Piano d’Azione Globale Intersettoriale per l’Epilessia e gli altri Disturbi Neurologici 2022 – 2031 (Intersectorial Global Action Plan for Epilepsy and other Neurological Disorders, IGAP), il primo piano d’azione globale sulla gestione dell’epilessia, che detta fondamentali obiettivi per gli Stati Membri nei prossimi dieci anni. Gli scopi principali dell’IGAP sono: ottenere l’assistenza sanitaria universale con la fornitura di medicinali essenziali e tecnologie di base necessarie per la loro gestione; l’aggiornamento delle politiche nazionali esistenti riguardo l'Epilessia e gli altri disturbi neurologici, con idonee campagne di sensibilizzazione e programmi di advocacy; la realizzazione di programmi intersettoriali destinati alla promozione della salute del cervello e alla prevenzione dei disturbi neurologici; lo sviluppo di un’idonea legislazione al fine di promuovere la lotta allo stigma e proteggere i diritti umani delle Persone con Epilessia.
Società scientifiche, associazioni pazienti e istituzioni firmano 'Patto per eliminazione Epatite C'
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di Rossella Gemma
È accaduto al termine dell'evento 'Epatite C: Obiettivo eliminazione, il momento è adesso. Strategie e modelli organizzativi per riscrivere la storia delle epatiti virali', a cui hanno preso parte decisori pubblici nazionali, regionali e territoriali, rappresentanti delle istituzioni, delle società scientifiche e dei pazienti, esperti e professionisti sanitari e sociosanitari.
Due le azioni al centro dell'incontro odierno promosso da Gilead Sciences: prorogare l'attuale programma di screening gratuito per l'epatite C a tutto il 2025, promuovendolo con maggior efficacia, ed estenderlo anche ai nati tra il 1948 ed il 1968, oltre all'attuale coorte di nascita 1969-1989, oggi considerata. Due azioni indispensabili e prioritarie secondo gli esperti riuniti questo pomeriggio nella Capitale per raggiungere l'obiettivo dell'Organizzazione mondiale della sanità (Oms) di eliminare questa infezione entro il 2030.
E sulla base dei dati presentati durante l'incontro, per metterle in pratica non sono necessari fondi aggiuntivi rispetto ai 71,5 milioni di euro già stanziati attraverso il Decreto Milleproroghe, per la maggior parte ancora non utilizzati, anche a causa della bassa adesione. Nel corso dell'evento, infatti, è emerso come la copertura dello screening abbia raggiunto solo l'11% della popolazione generale tra i 35 e i 55 anni.
"L'epatite C– ha spiegato la presidente dell'Associazione Italiana Studio del Fegato (Aisf), Vincenza Calvaruso– è una malattia infiammatoria del fegato causata dal virus Hcv. Nella maggior parte dei casi l'infezione evolve in epatite cronica, fibrosi, cirrosi e carcinoma epatico. Questo processo dura molti anni, durante i quali l'infezione resta silente. È quindi molto difficile stimare il cosiddetto sommerso e pertanto, per raggiungere l'obiettivo dell'eradicazione dell'epatite C, è essenziale in primo luogo non fermare il programma di screening ma continuare ad assicurarlo e implementarlo ovunque non sia ancora partito per tutte le popolazioni target".
Il programma di screening per l'epatite C è stato lanciato in Italia nel 2020, con l'intento di individuare le infezioni sommerse e trattarle precocemente, per ridurre la trasmissione del virus e l'incidenza delle gravi complicanze correlate. Il programma è destinato a tre popolazioni target: i nati tra il 1969 e il 1989, le persone seguite dai Servizi per le dipendenze (Ser.D.) e le persone detenute. Grazie allo stanziamento di 71,5 milioni di euro, dal 2020 al 2024 il nostro Paese ha continuato a implementare e rafforzare lo screening per l'Hcv con aggiornamenti legislativi e iniziative sanitarie.
"Lo screening- ha evidenziato il direttore scientifico della Società italiana di malattie infettive e tropicali (Simit), Massimo Andreoni- ha permesso di identificare ad oggi oltre 10.000 persone che non sapevano di avere l'infezione da Hcv e che in molti casi abbiamo potuto avviare al trattamento. Questi risultati sono stati ottenuti nonostante il programma abbia subito ritardi e in molte regioni non sia stato completamente implementato. Risultati che danno un importante segnale sulle potenzialità dello screening".
Per Massimo Andreoni "è fondamentale che venga prorogato, ampliato a fasce di popolazione più ampie, attivato in tutte le regioni e anche promosso con campagne di sensibilizzazione e comunicazione efficaci. Stiamo finalmente assistendo a una riduzione delle complicanze da epatite C, ma se lo screening dovesse venire interrotto, queste torneranno certamente ad aumentare, con un impatto inevitabile sul Sistema Sanitario Nazionale".
Secondo i dati del Report 'Eliminazione dell'Epatite C in Italia- Stato dell'arte e possibili nuove strategie regionali', realizzato da Isheo per Gilead Sciences, al 31 dicembre 2023 erano state testate oltre un milione di persone ed erano stati identificati oltre 10.000 casi di infezione da Hcv attiva. Un risultato senza dubbio importante ma di certo non sufficiente, anche considerando che il termine del programma di screening è previsto per la fine di quest'anno.
Presentato nel corso dell'evento, il documento contiene un'analisi dell'implementazione del programma di screening a livello nazionale e regionale, le stime del budget utilizzato e di quello rimanente, della numerosità della coorte 1948-1968, dei costi dell'eventuale ampliamento dello screening a questa popolazione e dei risparmi per il sistema sanitario.
Come anticipato, soltanto l'11% della popolazione generale della coorte 1969-89 è stata sottoposta a screening e la stima del budget rimanente rispetto al fondo stanziato è stata calcolata pari a 61.644.920 euro. Il numero di pazienti eleggibili allo screening con l'estensione alla popolazione 1948-68 è risultato pari a 31.539.490 e la copertura economica necessaria è stata stimata in 58.380.040 euro: una spesa quindi sostenibile, perché inferiore alla rimanenza dei fondi già stanziati.
"Per quanto riguarda lo screening nazionale finalizzato al raggiungimento degli obiettivi Oms- le parole del presidente EpaC Ets, Ivan Gardini- è necessario fornire alle regioni una certezza di stabilità sul lungo periodo, almeno fino al 2030, rendendo lo screening strutturale e non sperimentale come è attualmente, apportando tutte le modifiche normative del caso, concertate con regioni, società scientifiche e associazioni pazienti".
"È assolutamente auspicabile una strategia sanitaria globale sulla prevenzione delle infezioni trasmissibili- ha poi precisato- ma che possa trovare concrete possibilità di attuazione attraverso una solida base normativa ed economica, almeno per l'epatite C".
"Da oltre 20 anni Gilead Sciences è in prima linea nella lotta alle epatiti virali– ha concluso Frederico da Silva, VP e General Manager di Gilead Sciences Italia– con lo sviluppo di soluzioni che hanno migliorato radicalmente la vita dei pazienti e rivoluzionato la storia delle epatiti, in particolare dell'epatite C. Abbiamo dato un contributo significativo e vogliamo continuare a farlo, al fianco delle istituzioni nazionali, locali e di tutti i partner del sistema salute, andando oltre le terapie. Riteniamo fondamentale promuovere lo screening per far emergere le infezioni sommerse, affinché a tutti i pazienti siano garantite le stesse possibilità di cura e possa essere raggiunto l'obiettivo Oms di eliminazione dell'epatite C entro il 2030".
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Il 10 ottobre 2024 ricorre la Giornata mondiale della vista, promossa dall'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) e dall'Agenzia Internazionale per la prevenzione della cecità (IAPB), con focus quest’anno sull’importanza della prevenzione oculare tra i bambini e i giovani.
"La prevenzione deve avvenire già alla nascita”, afferma il Presidente della Società Italiana di Neonatologia (SIN), Luigi Orfeo. “Periodo in cui possono essere presenti diverse patologie oculari potenzialmente invalidanti che oggi sono intercettate tempestivamente dagli screening visivi neonatali, garantiti a tutti i bambini che nascono nel nostro Paese, grazie all’aggiornamento dei Livelli Essenziali di Assistenza (Lea) nel 2017”.
Lo screening visivo viene eseguito nelle prime settimane di vita mediante il test del riflesso rosso e può prevenire alcune forme di ipovisione e cecità, poiché consente di individuare precocemente malattie oculari come la cataratta congenita, ancora oggi una delle principali cause di cecità nell’infanzia (colpisce da 1 a 6 su 10.000 nati vivi), e di intervenire in tempi rapidi. Relativamente frequente è anche il glaucoma congenito che ha un’incidenza di 1 su 10.000 nati vivi. Un’altra patologia oculare che, invece, può non essere presente alla nascita ma comparire nei primi mesi di vita e avere una prognosi sfavorevole è il retinoblastoma, con incidenza di 1 su 15.000-20.000 nati vivi.
“Il test del riflesso rosso è eseguito dal neonatologo nei primi giorni di vita e successivamente dal pediatra ai bilanci di salute,” continua il Presidente Orfeo. “È un valido screening per la precoce individuazione delle anomalie oculari in epoca infantile, non è assolutamente invasivo per il bambino e dura pochi minuti. In caso di risultato dubbio, si renderà necessaria la valutazione oculistica specialistica per diagnosticare una eventuale patologia”.
In un ambiente di crescita normale, con adeguate attenzioni e cure familiari, i bambini ricevono tutte le stimolazioni sensoriali necessarie affinché il cervello sia correttamente sollecitato, attraverso gli occhi, a percepire le immagini con le diverse caratteristiche, quali il colore, il contrasto di luce, il movimento degli oggetti, la varietà di forme e dimensioni ecc.
Esistono dei campanelli di allarme cui è importante fare attenzione per identificare precocemente alcune delle anomalie di sviluppo oculare. Infatti, se entro i 3 mesi di età il bambino non sa mantenere una fissazione stabile, oppure se compaiono movimenti anomali di oscillazioni involontarie degli occhi (nistagmo) o movimenti rotatori di esplorazione dello spazio senza finalità (movimenti di ricerca), o ancora la comparsa di deviazioni di un occhio (strabismo) dopo i 6-9 mesi di vita sono tutti motivi per una visita oculistica e ortottica.
Nei casi in cui, invece, vi sia una familiarità per alcune patologie oculari congenite quali cataratta e glaucoma congenito, strabismo o ambliopia (occhio pigro) nei genitori o nei fratelli maggiori, è indicata una visita oculistica entro i primissimi mesi di vita.
“Un’altra importante patologia oculare è la retinopatia della prematurità (ROP), che colpisce i neonati prematuri, soprattutto di età gestazionale inferiore a 31 settimane e/o con un peso inferiore a 1500 grammi”, conclude Orfeo. “La sua incidenza è progressivamente aumentata negli anni, in conseguenza della maggiore sopravvivenza dei neonati estremamente pretermine. Ma, grazie alla tecnologia, in continua evoluzione, anche la capacità diagnostica si è notevolmente ampliata, con una ricaduta positiva sulla gestione terapeutica e sul follow-up della malattia”.
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di Rossella Gemma
Italiani protagonisti al più importante Congresso mondiale dedicato alla radioterapia oncologica, con ben 8 studi presentati dal team della Radioterapia Oncologia dell’Azienda Ospedaliero Universitaria Careggi di Firenze, guidata dal professor Lorenzo Livi, noto anche per il suo impegno nella Fondazione Radioterapia Oncologica. Il gruppo di clinici e ricercatori del Careggi è presente - fra i pochissimi ospiti europei - alla 66esima edizione dell’Annual Meeting dell’American Society for Radiation Oncology (ASTRO), in corso a Washington. Tra gli studi presentati dal team italiano, di particolare interesse una ricerca sull’utilizzo dell’agopuntura come supporto della radio e chemioterapia nella prevenzione degli effetti collaterali nei pazienti con tumore testa-collo. Lo studio riveste una grande importanza perché riguarda la gestione della disfagia e della tossicità, purtroppo spesso legate ai trattamenti per questo tipo di tumori. Per questi pazienti, il carico sintomatico è ancora considerevole e spesso perdura a lungo, anche dopo la conclusione delle terapie. In particolare, l'insorgenza di disfagia rappresenta un fattore chiave di deterioramento clinico e malnutrizione, fenomeno che persiste nonostante l'adozione di strategie di supporto, quali esercizi preventivi di deglutizione e piani nutrizionali dedicati.
L’impiego di trattamenti radioterapici ha mostrato risultati promettenti nel miglioramento della funzione deglutitoria, ma l'esigenza di un approccio olistico alla cura del paziente - che integri interventi multidisciplinari di supporto - continua a crescere.
In tale contesto, lo studio presentato dal team italiano ha indagato l’integrazione dell’agopuntura con la radioterapia per la gestione della disfagia. Nello specifico, lo studio ha dimostrato che un ciclo di undici settimane di agopuntura, somministrato in concomitanza con il trattamento radioterapico, è risultato sicuro, portando a un miglioramento della qualità di vita dei pazienti, con particolare riferimento alla loro capacità di deglutizione.
"La radioterapia si conferma un’arma imprescindibile anche nel trattamento dei tumori del distretto testa-collo, che interessano aree estremamente delicate come il cavo orale, la faringe, la laringe, i seni paranasali e le ghiandole salivari" sottolinea Pierluigi Bonomo, dirigente medico presso il reparto di Radioterapia Oncologica dell’AOU Careggi di Firenze. "Queste neoplasie compromettono funzioni fondamentali come il parlare e la capacità di deglutire, con pesanti ripercussioni sulla qualità di vita dei pazienti. Lo studio che abbiamo presentato all’Annual Meeting di ASTRO potrà aprire nuove prospettive di cura in ambito oncologico, integrando il trattamento radioterapico o radio-chemioterapico con una pratica antichissima, quale l’agopuntura, a beneficio dei pazienti”.
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di Rossella Gemma
Per chi soffre di una malattia oncologica, il dolore è spesso una delle componenti più invalidanti: non solo una spia con cui l’organismo avverte della presenza di un problema, ma una vera e propria malattia che può manifestarsi in qualsiasi stadio del tumore, con un impatto fortissimo sul piano fisico e psico-emotivo e sulla stessa sopravvivenza del paziente. Si stima che circa il 50% dei malati oncologici soffra di dolore cronico, e fino al 90% dei pazienti nelle fasi di malattia più avanzate; inoltre in circa il 70% dei pazienti il dolore si manifesta anche con delle riacutizzazioni transitorie ma intensissime, note come Breakthrough Cancer Pain (BTcP) o dolore episodio intenso, una sorta di “dolore nel dolore” (cioè in aggiunta al dolore cronico di fondo) che causa un ulteriore peggioramento della qualità di vita. Curare il dolore è pertanto una priorità clinica ed etica per far vivere meglio e più a lungo i pazienti, che può avvalersi della disponibilità di farmaci oppioidi efficaci e sicuri. Tra questi, il Fentanyl, un farmaco da decenni impiegato in ambito anestesiologico e uno degli analgesici oppioidi più utilizzati al mondo per trattare il dolore in forma grave, specialmente in oncologia.
A richiamare l’attenzione sull’importanza di un’adeguata gestione del dolore nei pazienti oncologici (e non solo), ancora troppo spesso trascurato se non ‘relegato’ a una condizione inevitabile della malattia oncologica, e sul ruolo terapeutico insostituibile dei farmaci oppioidi nella terapia del dolore, sono stati gli esperti intervenuti a Milano all’incontro “Gestione del dolore e oppioidi. Gli usi terapeutici dei farmaci oppioidi verso consumi illegali”, organizzato grazie al contributo non condizionante di Istituto Gentili. E proprio dagli esperti arriva il monito a evitare che l’innalzamento dell’attenzione mediatica sull’uso illecito del Fentanyl come sostanza stupefacente condizioni la percezione dell’opinione pubblica su un farmaco indispensabile per il trattamento del dolore, a garanzia dell’accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore e a tutela della dignità della persona, come sancito dalla legge 38 del 15 marzo 2010.“Il dolore oncologico non è esclusivo della malattia in stadio avanzato, ma si manifesta in ogni momento della malattia, nelle sue tre componenti: quella biologica, rappresentata dal dolore fisico vero e proprio, quella psico-emozionale, legata ad ansia, depressione, insonnia e ad altre alterazioni del tono dell'umore, e quella sociale, data dalle limitazioni funzionali nella vita quotidiana”, afferma Arturo Cuomo, Direttore S.C. Anestesia, Rianimazione e Terapia Antalgica, Istituto Nazionale Tumori - IRCCS Fondazione Pascale, Napoli. “Ne consegue che il trattamento del dolore è un aspetto prioritario per i pazienti, per i benefici sulla qualità di vita ma anche su una migliore aderenza alle terapie. La terapia del dolore deve essere ritenuta a tutti gli effetti una terapia adiuvante alla cura del tumore, che può contribuire ad ottimizzare le terapie antitumorali e ad aumentare la sopravvivenza”.
L’utilizzo dei farmaci oppioidi, cioè molecole in grado di produrre analgesia nel momento in cui i sistemi endogeni non sono più sufficienti a proteggerci dal dolore, rappresenta una strategia terapeutica fondamentale per il trattamento del dolore, come evidenziato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) e dalle linee guida delle principali società scientifiche nazionali e internazionali.
Fentanyl, in particolare, appartiene ai cosiddetti “farmaci del terzo scalino” secondo la scala analgesica dell’OMS, e ha una potenza analgesica di circa cento volte superiore alla morfina: maggiore è la potenza analgesica, minore sarà la dose di farmaco necessaria per ottenere l’effetto terapeutico. Ne è la conferma l’inserimento, da parte dell’OMS, nella lista dei farmaci essenziali per il trattamento del dolore nei pazienti affetti da tumore.
“Fentanyl è la molecola analgesica più potente che abbiamo a disposizione nella pratica clinica, indicata nel trattamento del dolore moderato-grave di natura oncologica e non, e le sue caratteristiche uniche ne fanno la soluzione migliore per curare il dolore episodico intenso oncologico”, spiega Diego Fornasari, Professore ordinario di Farmacologia, Università degli Studi di Milano e Presidente Eletto dell’Associazione Italiana per lo Studio del Dolore (AISD). “Inoltre, rispetto ad altri farmaci, Fentanyl ha una spiccata liposolubilità ed è quindi in grado di entrare nell’organismo attraverso vie di somministrazione che garantiscono un’azione immediata della molecola, per esempio per via transdermica, con un cerotto - permettendo di curare anche i pazienti che non possono deglutire a causa della malattia -, sotto forma di spray nasale, sotto la lingua. Lo spray nasale ha una velocità e un’efficacia di azione paragonabile alla somministrazione endovena, rappresentando una soluzione ottimale per i pazienti che soffrono di attacchi di dolore episodico che possono manifestarsi in ogni momento. Infine, il farmaco viene rapidamente metabolizzato una volta assorbito a livello intestinale: ha un’emivita breve, di circa due ore, e tende a non accumularsi in circolo”.
“Il Fentanyl è un farmaco analgesico estremamente prezioso per la cura del dolore oncologico; è un farmaco molto potente ma anche molto sicuro, di cui non bisogna avere timore se ci si affida al controllo medico”, aggiunge Vittorio Guardamagna, Direttore Cure Palliative e Terapia del Dolore dello IEO (Istituto Europeo di Oncologia), Milano. “I pazienti che necessitano del Fentanyl per il controllo del dolore non rischiano di andare incontro a gravi effetti collaterali ma possono sperimentare sintomi minori come mioclonie, cioè tremori, un po’ di sonnolenza, stipsi, che possono essere gestiti adeguatamente e senza rischi con appositi farmaci oppure adeguando il dosaggio della terapia”.
“Il trattamento del dolore è un imperativo etico, tra l’altro sancito nel nostro ordinamento dalla legge 38/2010 e dalla legge 219/2017 sul ‘biotestamento’”, dichiara Franco Marinangeli, Professore ordinario di Anestesia e Rianimazione, Università degli Studi de L’Aquila e Direttore del Dipartimento Emergenza e Accettazione ASL 1 Abruzzo. “Rispetto a quindici anni fa, è aumentata la consapevolezza nella classe medica dell’importanza e della sicurezza di questo strumento per la cura del dolore, non solo nel paziente oncologico, anche se ci sono ancora diversi aspetti da migliorare. Un aspetto importante da sottolineare nello scenario nazionale è il ruolo svolto dalla classe medica a garanzia dell’appropriatezza d’uso del Fentanyl come di tutti i farmaci oppioidi. I medici prescrittori vigilano sulla terapia e rivalutano periodicamente dosaggio e modalità di assunzione dei farmaci analgesici. Anche perché l’efficacia della terapia del dolore dipende dall’adattamento al singolo caso, in una modalità che si potrebbe definire “su misura”.
“La terapia del dolore rappresenta una delle condizioni più rilevanti per migliorare la qualità della vita dei pazienti oncologici, soprattutto nelle fasi avanzate della malattia, ma resta ancora un bisogno clinico fortemente insoddisfatto”, dichiara Maria Cristina Mazzotta, HQ Medical Director, Istituto Gentili. “Come azienda che ha scelto di focalizzarsi in maniera prevalente in oncologia per rispondere ai bisogni delle persone che convivono con gravi neoplasie, Istituto Gentili è impegnata a mettere a disposizione di medici e pazienti terapie oncologiche e cure di supporto sicure ed efficaci. Una mission che perseguiamo anche attraverso iniziative di informazione e sensibilizzazione sul tema del dolore, affinché sempre più pazienti possano intraprendere il giusto percorso di cura”.
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di Rossella Gemma
In occasione della Giornata mondiale del Cuore, che si celebra il 29 settembre, Fondazione Onda ETS, per il quarto anno consecutivo, organizza dal 26 settembre al 2 ottobre l’(H) Open Week dedicato alle malattie cardiovascolari con l’obiettivo di promuovere l’informazione, la prevenzione e la diagnosi precoce di queste malattie, con un particolare focus su aneurisma aortico addominale, infarto cardiaco, patologie valvolari, carotidee e venose.
Le malattie cardiovascolari rappresentano la principale causa di morte nel nostro Paese, essendo responsabili del 35,8 per cento di tutti i decessi: 38,8 per cento nelle donne e 32,5 per cento negli uomini; si presentano nelle donne con un ritardo di almeno dieci anni rispetto agli uomini, poiché le donne fino alla menopausa sono protette dallo “scudo” ormonale degli estrogeni. In seguito, vengono colpite addirittura più degli uomini da eventi cardiovascolari, spesso tra l’altro più gravi, anche se si manifestano con un quadro clinico meno evidente.
Per entrambi i sessi resta però cruciale il ruolo della prevenzione primaria, legata principalmente agli stili di vita, e della diagnosi precoce, in particolare in coloro che presentano fattori di rischio cardiovascolare, quali: familiarità, età avanzata, fumo, ipertensione arteriosa, ipercolesterolemia, diabete, sedentarietà, sovrappeso, obesità, stress.
«L’alto valore sociale di queta iniziativa ha, inoltre, come obiettivo quello di sottolineare l’importanza della prevenzione primaria e facilitare l’accesso alla diagnosi precoce, rendendo direttamente fruibili anche prestazioni che in molti casi sono gravate da lunghe liste di attesa. Inoltre, vogliamo sfatare l’errata convinzione che le malattie cardiovascolari riguardino soprattutto gli uomini, con la grande maggioranza delle donne che ha una percezione molto bassa dei pericoli correlati a queste patologie. Dato il grande successo e l'alto numero di richieste degli anni scorsi, abbiamo deciso di replicare il focus della settimana di servizi gratuiti su problematiche cardiache molto diffuse e ancora spesso sottovalutate o non conosciute dalla popolazione come l’aneurisma aortico addominale, l’infarto cardiaco e le patologie valvolari e di ampliare anche alle patologie carotidee e venose per proporre una settimana per la salute del cuore, delle arterie e delle vene», commenta Francesca Merzagora, Presidente di Fondazione Onda ETS.
Le oltre 150 strutture del network Bollino Rosa che hanno aderito all’iniziativa offriranno gratuitamente visite specialistiche ed esami diagnostici, eventi e colloqui, info point e distribuzione di materiale informativo nelle aree specialistiche di cardiochirurgia, cardiologia e chirurgia vascolare.
Tutti i servizi offerti con indicazioni su date, orari e modalità di prenotazione sono consultabili sul sito www.bollinirosa.it. È possibile selezionare la regione e la provincia di interesse per visualizzare l’elenco degli ospedali aderenti e consultare i servizi offerti.
Fondazione Onda ETS dal 2007 attribuisce agli ospedali che erogano servizi dedicati alla prevenzione, diagnosi e cura delle principali patologie femminili il riconoscimento del Bollino Rosa. Il network, composto da 361 ospedali dislocati sul territorio nazionale, sostiene Fondazione Onda ETS nel promuovere, anche all’interno degli ospedali, un approccio “di genere” nella definizione e nella programmazione strategica dei servizi clinico-assistenziali, indispensabile per garantire il diritto alla salute non solo delle donne ma anche degli uomini.
L’iniziativa è realizzata con il patrocinio di GISE - Società Italiana di Cardiologia Interventistica, SICCH - Società Italiana Chirurgia Cardiaca, SICVE - Società Italiana di Chirurgia Vascolare ed Endovascolare, SIF - Società Italiana di Flebologia, SIMG - Società Italiana di Medicina Generale e delle Cure Primarie, SIPREC - Società Italiana per la Prevenzione Cardiovascolare, con la media partnership di Adnkronos, Baby Magazine, Panorama della Sanità, Salutare e Tecnica Ospedaliera e con il contributo incondizionato di Medtronic.
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di Rossella Gemma
C’è la pandemia dimenticata dell’Hiv. E poi c’è l’epatite C, che entro il 2030 potrebbe essere eliminata, ma oggi, secondo alcuni studi, uccide ancora 19 persone ogni 24 ore soltanto in Italia. Due infezioni virali che nell’immaginario collettivo, per molti, sono superate, e invece, per essere debellate davvero, richiedono azioni concrete. Di questo, e molto altro, si è parlato alla Summer School di Motore Sanità. Con un confronto tra espertii sulle linee guida nazionali e sulla loro attuazione. Analizzando le best practice di alcune Regioni, ma evidenziando anche carenze e punti di debolezza del sistema salute.
Hiv, la pandemia dimenticata: come fermare l’infezione?
Per quanto riguarda l’Hiv – è emerso nel convegno organizzato con il contrubuto incondizionato di Gilead - lo scenario attuale, caratterizzato dalla rivisitazione del modello organizzativo e gestionale del SSN in attuazione del PNRR e dalla proposta di rivisitazione della Legge 135 del 1990, determina la necessità di porre attenzione alle criticità ed alle dinamiche che impediscono una piena implementazione del Piano Nazionale AIDS. Il 26 ottobre 2017, la Conferenza Stato-Regioni sanciva l’intesa sul “Piano Nazionale di interventi contro HIV e AIDS (PNAIDS)”, un Piano molto sfidante e dalla dichiarazione di intenti molto alta, che ha inteso delineare il miglior percorso possibile per conseguire, anche a livello nazionale, gli obiettivi indicati come prioritari dalle agenzie internazionali (ECDC, UNAIDS, OMS).
Le risorse poste nelle ultime leggi di bilancio per stimolare e supportare la ricerca scientifica non sono ancora sufficienti, ma è comune e diffusa la volontà politica di proseguire a liberare ulteriori risorse e strumenti per la ricerca. Anche se occorre un cambio di passo, come ha sottolineato Sandro Mattioli, Presidente Plus Persone LGBT+ sieropositive. “Da troppi anni – afferma – stiamo riscontrando grandi difficoltà a rimpiazzare la legge 135 che risale al 1990. E ci sono alcune proposte di legge, redatte in collaborazione con i pazienti e con i clinici, ma giaggiono in Parlamento dopo mesi di revisione”.
Secondo Mattioli, “sembra che non ci sia interesse dalla parte politica”. In generale, ragiona ancora il presidente di Plus Persone LGBT+ sieropositive, “rispetto alle best practice su Hiv ed epatite C, ci sono ancora delle difficoltà di ordine logistico-organizzativo: inserire cose nuove nelle procedure organizzative di Aziende sanitarie e Aziende ospedaliere è complicatissimo. Nel nostro Paese – prosegue Mattioli - passa parecchio tempo prima che una scoperta scientifica arrivi nella pratica clinica, soprattutto se parliamo di pratiche di buon livello”. Mattioli pensa ad esempio “alla prep, approvata dal FDA nel 2012, ma arrivata da noi con tutto comodo, con Aifa che ha autorizzato il pagamento nel 2017. Quindi, chi aveva i soldi faceva la Prep, chi no, doveva stare attento”. Poi, nel 2013, “è andata a rimborso, ma solo se prescritta dall’infettivologo, solo nel suo ambulatorio di malattie infettive, ritirabile solo nelle farmacie ospedaliere, come se la gente non lavorasse e avesse facilità di prendere permessi sul lavoro”. Insomma: “Le best practice ci sono, ma in Italia si fa molta fatica a realizzarle”.
L’epatite C uccide ancora 19 persone al giorno e ci sono 280mila casi sommersi, ma l’Italia può eliminarla entro il 2030
Secondo Polaris Observatory, ogni giorno, in Italia, 19 persone muoiono a causa dell’epatite C (HCV), una malattia che potrebbe essere debellata entro il 2030 grazie a uno screening universale e ai progressi nei trattamenti farmacologici. L’obiettivo di eliminare l’HCV entro i prossimi sei anni è stato fissato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) e per l’Italia si tratta di un traguardo ambizioso, ma possibile, a patto di intensificare le attività di screening su tutta la popolazione, in particolare sugli over 60, la fascia d’età che raccoglie la maggior parte dei casi sommersi che si stima possano essere 280mila.
I dati sullo screening in Italia
In Italia, grazie agli sforzi del Ministero della Salute e alle direttive nazionali, sono stati eseguiti finora circa 1,7 milioni di test, identificando 13.000 infezioni attive, ovvero lo 0,77% della popolazione testata. Le percentuali variano sensibilmente a seconda del gruppo esaminato: se nella popolazione generale il tasso di infezione scende allo 0,15%, (2.314 casi su 1,5 milioni di screening), tra gli utenti dei Servizi per le Dipendenze (SerD) la percentuale sale all’8,6% (8.504 casi identificati su poco più di 99.000 test effettuati). Tra i detenuti, poi, la percentuale di infezione attiva arriva allo 0,77%.
È importante notare che un terzo degli screening è stato effettuato in Lombardia, una delle regioni che ha attivato più rapidamente ed efficacemente il programma di prevenzione. Seguendo le linee guida ministeriali, è stato attivato uno screening su larga scala, con un focus sui nati tra il 1969 e il 1989. Le persone incluse in questa coorte sono state invitate a sottoporsi a un test anticorpale gratuito, semplicemente presentandosi presso un punto prelievo. A luglio 2024, circa 482.000 persone, pari al 16% della coorte, avevano aderito, con notevoli differenze di partecipazione tra i vari territori. Su questi 482.000 test, 2.438 sono risultati positivi.
A oggi, 14 regioni hanno avviato lo screening sulla popolazione generale, mentre altre risultano ancora indietro.
Un piano ambizioso per il 2030
Eliminare l’HCV è un obiettivo realistico, grazie anche ai farmaci di ultima generazione che permettono di trattare con successo quasi tutti i casi di infezione. Tuttavia, resta essenziale rafforzare le strategie di prevenzione e diagnosi, per evitare che l’80% delle persone esposte al virus sviluppi una forma cronica della malattia, che può portare a complicazioni gravi, come cirrosi o cancro al fegato. Nel mondo, ogni anno, l’HCV infetta circa 2,5 milioni di persone, con oltre 200 milioni di individui già colpiti dal virus, 170 milioni dei quali convivono con una forma cronica. L’Italia, tra i Paesi occidentali, ha fatto notevoli progressi, eseguendo circa 300.000 trattamenti contro l’HCV. Tuttavia, resta un problema importante: si stima che ci siano ancora circa 280.000 persone nel Paese che convivono con l’infezione in forma asintomatica e non diagnosticata, rendendo essenziale l’espansione del programma di screening.
Giovanni Cenderello, direttore SC Malattie Infettive Asl 1 Imperiese Sanremo e presidente Simit Regione Liguria: “Per fare emergere il sommerso di contagi di epatite C che ancora esiste in Italia e raggiungere gli obiettivi dati dal WHO 20-30, è necessario un lavoro di squadra tra i medici di medicina generale, che sono coloro che hanno in gestione i pazienti, i medici ospedalieri prescrittori, gastroenterologi e infettivologi, e i medici non specialisti di che potrebbero vedere questi pazienti in altri contesti”. Per quanto riguarda l’HIV, Cenderello pone l’accento sulle patologie indice. “C’è un documento condiviso Simit-Simeu che prevede di utilizzare le patologie indice per iniziare lo screening fin dal Pronto Soccorso in cui il paziente accede per un’altra patologia non direttamente HIV correlata ma che può far sospettare la patologia stessa. Attuare questo piano, dando attuazione concreta al documento, permetterebbe di ridurre la quota ancora inaccettabile di pazienti advanced naive, ossia in AIDS conclamato, che si presentano nei ricoveri ospedalieri”.
Le best practice: il caso del Veneto
La Regione del Veneto, già con la deliberazione della giunta regionale n. 791 del 08 giugno 2018, ha avviato un programma di eliminazione dell'epatite C (HCV) e l’Istituzione di una Cabina di regia. Lo screening, attivo a partire dal 16 Maggio 2022, è destinato a tutte le persone nate tra il 1969 e il 1989 e ad alcune popolazioni selezionate, quali i soggetti seguiti dai Servizi per le Dipendenze ed i detenuti .
Si può effettuare il test in occasione di un accesso alle strutture sanitarie (ad esempio, ricovero ospedaliero, intervento in day hospital, visita specialistica, accesso ai laboratori del Servizio Sanitario Regionale-SSR) o dopo un confronto con il proprio medico curante. E’ poi possibile presentarsi direttamente presso i laboratori identificati dall’Azienda Sanitaria, senza impegnativa. In alternativa, si può aspettare di ricevere l’invito ad effettuare il test, seguendo le indicazioni che verranno fornite dalla propria ULSS.
In caso di positività al test di screening, il personale sanitario dell’ULSS contatterà il soggetto per gli ulteriori approfondimenti e organizzerà una visita presso il centro specialistico di riferimento. Tutto il percorso è gratuito, senza necessità di pagare il ticket. I costi del percorso di screening HCV sono, infatti, interamente coperti dal SSR.
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di Rossella Gemma
La sepsi è una condizione potenzialmente letale caratterizzata da una risposta infiammatoria sistemica causata da un’infezione, che può rapidamente evolvere in disfunzione multiorgano e morte. La sepsi colpisce circa 49 milioni di persone, con 11 milioni di decessi all'anno a livello mondiale, portando l'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) a identificarla come una priorità sanitaria globale. Ogni anno, il 13 settembre, si celebra la Giornata Mondiale contro la sepsi (World Sepsis Day), con lo scopo di sensibilizzare l'opinione pubblica sulla gravità di questa patologia, spesso poco conosciuta.
La mortalità da sepsi è spesso legata a misure di prevenzione delle infezioni inadeguate, diagnosi tardiva e gestione clinica inappropriata.
Il periodo neonatale presenta il rischio di sepsi più alto nell'arco della vita e, di conseguenza, comporta un enorme carico medico, sociale ed economico a livello globale. Questa condizione, comunemente definita da una coltura microbica positiva in un paziente sintomatico, rimane una sfida considerevole a livello globale e, insieme alla nascita pretermine, è responsabile del maggior numero di decessi nel primo mese di vita.
Ogni anno si stima che ci siano tra 3,9 e 5 milioni di casi di sepsi neonatale a livello globale, con circa 700.000-800.000 decessi, a seconda dello studio. Tuttavia, le stime globali dell'incidenza e della mortalità sono spesso incerte a causa della mancanza di dati accurati e di sistemi di sorveglianza robusti, specialmente nei paesi a basso e medio reddito.
Anche se la sopravvivenza dei neonati pretermine e/o di basso peso alla nascita è nettamente migliorata nel tempo, questa popolazione necessita spesso di cure ospedaliere, il che li espone a nuovi rischi infettivi sotto forma di infezioni acquisite in ospedale (hospital-acquired infections HAI). Infatti, un recente studio di coorte ha evidenziato che tra la popolazione neonatale ospedalizzata i tassi di sepsi sono più di sette volte superiori. Nelle unità di Terapia Intensiva Neonatale, più della metà delle HAI risultano essere sepsi acquisite in ambito ospedaliero (hospital-acquired sepsis HAS) responsabili di un aumento della mortalità del 5.5% nei neonati ospedalizzati affetti rispetto ai neonati con le stesse caratteristiche ma senza HAS. Inoltre, la sepsi causata dalle cure sanitarie è associata a una degenza ospedaliera più lunga e a tassi di resistenza antimicrobica più elevati rispetto alla sepsi acquisita in comunità. Più della metà di tutti i casi di HAS sono, tuttavia, prevenibili attraverso misure appropriate di prevenzione e controllo delle infezioni.
In base al timing dell'infezione, la sepsi neonatale è stata classificata in sepsi ad esordio precoce (EOS – con esordio nelle prime 72 ore dalla nascita) e sepsi ad esordio tardivo (LOS – con esordio dopo i primi 3 giorni dalla nascita). Questa classificazione implica differenze nella modalità di trasmissione prevista e nei microrganismi patogeni predominanti. L'EOS è generalmente causata da trasmissione verticale dalle madri ai neonati durante il periodo intrapartum, mentre la LOS è causata da trasmissione orizzontale postnatale, principalmente da microrganismi acquisiti dopo la nascita. Una recente revisione sistematica e metanalisi degli studi epidemiologici sulla sepsi neonatale ha riportato che la EOS è 2,6 volte più comune della LOS.
L'incidenza delle due forme di sepsi neonatale varia ampiamente tra diverse aree geografiche e gruppi di popolazione. Nei paesi sviluppati, l'incidenza della EOS è stimata intorno a 0,5-1 casi per 1.000 nati vivi e fino a 13.5 per 1.000 nati tra i pretermine, mentre la LOS, più comune tra i neonati ricoverati in UTIN, presenta tassi che possono superare gli 88 casi per 1.000 neonati ad alto rischio. Nei paesi a basso e medio reddito, l'incidenza è significativamente più elevata a causa di fattori come l'alta prevalenza di nascite pretermine, condizioni igieniche inadeguate e limitato accesso a cure prenatali e perinatali di qualità.
L'eziologia della sepsi neonatale è cambiata negli ultimi decenni a causa dell'aumento della resistenza antimicrobica, della disponibilità di tecnologie per diagnosticare le infezioni e guidare il trattamento e dell'utilizzo di dispositivi sanitari invasivi che aumentano il rischio di infezioni associate all'assistenza sanitaria. La sepsi neonatale causata da batteri Gram-negativi resistenti agli antibiotici è responsabile di circa il 30% dei decessi neonatali dovuti a sepsi.
La prognosi dipende dal riconoscimento precoce e dal trattamento appropriato, sebbene i segni e i sintomi siano spesso aspecifici e possano sovrapporsi a quelli di altre condizioni gravi.
La prevenzione della sepsi neonatale si concentra principalmente sull'implementazione di misure efficaci di controllo delle infezioni e sulla gestione appropriata delle cure prenatali e perinatali. La prevenzione della EOS include lo screening materno per lo Streptococco di gruppo B durante la gravidanza e la somministrazione di antibiotici profilattici alle donne a rischio durante il parto. Le misure preventive contro la LOS includono pratiche igieniche rigorose, la gestione sicura dei dispositivi invasivi e la promozione dell'allattamento al seno, che può fornire immunità passiva contro molte infezioni. Una componente critica della prevenzione è anche il miglioramento della formazione del personale sanitario nelle unità neonatali, insieme all’implementazione di protocolli standardizzati di controllo delle infezioni.
Nonostante i progressi nella gestione e prevenzione, la sepsi neonatale rimane una sfida significativa. Le limitazioni nella diagnosi rapida, l'aumento della resistenza antimicrobica e la carenza di dati epidemiologici accurati continuano a ostacolare gli sforzi globali per ridurre l’incidenza e la mortalità. L’adozione di nuove tecnologie diagnostiche, l’investimento in ricerca per nuovi trattamenti e vaccini e il miglioramento dei sistemi di sorveglianza sono essenziali per affrontare questa sfida.
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di Rossella Gemma
Si chiama Stimolazione transcranica a Corrente Diretta o tDCS (dall’inglese transcranial Direct Current Stimulation) e si candida a diventare un nuovo strumento utile a contrastare l’emergenza obesità, che riguarda ormai oltre il 10% degli italiani adulti.
Come la sorella maggiore, la più nota TMS (Stimolazione Magnetica Transcranica), impiegata da tempo nella cura delle dipendenze, anche la tDCS funziona generando a livello dei neuroni una micro-corrente elettrica in grado di ripristinare gli equilibri alterati in determinate aree del cervello, compresa quella che regola il senso di fame e sazietà. Entrambe, quindi, possono essere settate per trattare pazienti obesi, inducendoli a mangiare di meno. A differenza della TMS, però, la nuova metodica non necessita di macchinari ingombranti e quindi di una gestione ospedaliera, ma di un semplice caschetto che può essere utilizzato dal paziente anche a casa, indossandolo prima dei pasti, con ricadute positive in termini di sostenibilità economica e comodità del trattamento.
Con l’obiettivo di dimostrare pari efficacia e sicurezza della tDCS per trattare l’obesità rispetto alla TMS – il cui utilizzo a questo scopo è già stato validato da lavori precedenti[1] – parte uno studio clinico finanziato dal PNRR, della durata di due anni, che sarà coordinato dall’IRCCS MultiMedica di Milano e condotto insieme all’Azienda Ospedaliera Universitaria "R. Dulbecco" di Catanzaro. I ricercatori arruoleranno circa 400 pazienti obesi e con diabete di tipo 2, dividendoli in due gruppi che, per un anno, seguiranno due differenti regimi alimentari (dieta mediterranea il primo e dieta chetogenica il secondo), e saranno trattati con TMS, nel cluster di Milano, e con tDCS, nel cluster di Catanzaro.
“L’obiettivo della nostra ricerca è duplice”, spiega Livio Luzi, Direttore del Dipartimento interpresidio di Endocrinologia, Nutrizione e Malattie Metaboliche di MultiMedica, Ordinario di Endocrinologia presso l’Università degli Studi “La Statale” di Milano e principal investigator dello studio. “Innanzitutto, intendiamo raccogliere ulteriori conferme circa l’efficacia della TMS, verificando a quale regime alimentare associarla per raggiungere i risultati migliori. In secondo luogo, vogliamo osservare se questa nuova tecnica di neurostimolazione, la tDCS, è parimenti sicura ed efficace nel far perdere peso ai pazienti”.
“Di fronte ai dati allarmanti di crescita del fenomeno – prosegue l’esperto – soprattutto fra i più giovani, con il nostro Paese che è ai primi posti in Europa per sovrappeso e obesità infantili, urgono soluzioni per far fronte al problema. La TMS ha già dato prova della sua efficacia ma non è sostenibile un suo impiego su larga scala. La tDCS, dal costo più contenuto, può essere eseguita anche a casa propria, indossando un semplice caschetto, e potrebbe rappresentare un valido strumento, utile a trattare un maggior numero di pazienti, in associazione alle terapie farmacologiche, che verrebbero così impiegate a dosaggi ridotti. Potremmo passare da 100 persone all’anno trattate da un singolo centro con la TMS a circa 10-20.000 con la tDCS. In futuro, potremmo anche ipotizzare un suo impiego nei giovani più a rischio, in ottica di prevenzione”.
“Se i risultati dello studio dovessero confermare l’efficacia della tDCS, come ci auguriamo, i prossimi passi potranno essere quelli dello sviluppo industriale del device e dell’avvio delle procedure volte a ottenerne la rimborsabilità per la gestione dell’eccesso ponderale”, conclude Luzi.
“L’aggiudicazione di questo grant e l’avvio dello studio rappresentano un’ulteriore conferma del valore della ricerca scientifica targata MultiMedica”, sottolinea Paola Muti, Direttore Scientifico dell’IRCCS MultiMedica e Professore Ordinario e Direttore del Dipartimento di Scienze Biomediche, Chirurgiche e Odontoiatriche dell’Università degli Studi di Milano. “Grazie a più di 200 ricercatori impegnati, a diverso titolo e in diversa misura, nell’attività scientifica, l’IRCCS MultiMedica nel 2023 ha pubblicato circa 200 lavori scientifici e condotto 72 trial con oltre 3.500 pazienti reclutati e in follow up. Quest’anno abbiamo ottenuto importanti finanziamenti dal PNRR per sei progetti di ricerca multicentrici, per un totale di 5,6 milioni di euro per l’intero Partenariato. Tre di questi progetti saranno coordinati direttamente dal nostro Istituto, come quello del professor Luzi, e si concentreranno su tematiche cliniche di grande rilevanza ed interesse scientifico sia nell'ambito delle malattie croniche non trasmissibili ad alto impatto sui sistemi sanitari e socioassistenziali, quali malattie cardiovascolari, sepsi e disfunzioni vascolari endoteliali, diabete e patologie neurodegenerative sia nel campo dei tumori rari”.