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di Rossella Gemma

Uscita dal grande gruppo delle malattie rare, oggi l’esofagite eosinofila sta diventando una vera e propria sfida per la gastroenterologia. Questa impennata è stata rivelata da uno studio pubblicato sulla rivista scientifica Alimentary Pharmacology & Therapeutics. Che sottolinea come la patologia colpisca almeno 34 bambini e 42,2 adulti ogni 100.000 abitanti. Ma l’elemento chiave è la rapidità della sua progressione, che l’ha portata ormai ben oltre la soglia sotto la quale una malattia è definita rara.

“Questi dati epidemiologici, che riteniamo validi anche per il nostro Paese, dimostrano la notevole diffusione dell’esofagite eosinofila nella popolazione infantile. Probabilmente il dato è anche sottostimato – spiega il professor Claudio Romano, Presidente SIGENP – ed è difficile al momento valutarne le dimensioni esatte: i sintomi sono subdoli, si possono confondere con quelli di altre patologie e - al di fuori dei centri specializzati - non è così conosciuta come dovrebbe. Lo studio comparativo dell’Università di San Diego, California e dell’università del North Carolina ha appurato che tra le prime osservazioni su questa patologia, degli anni 80 e quelli più recenti, fine 2023, la prevalenza è cresciuta dell’800%. La ricerca mondiale è al lavoro, sono in arrivo nuovi farmaci. Se ne parlerà da domani al 18 maggio anche nel corso del 56° meeting dell’ESPGHAN, Società Europea di Gastroenterologia, Epatologia e Nutrizione Pediatrica che si svolgerà quest’anno in Italia, proprio qui a Milano”. Il più delle volte la malattia viene diagnosticata per la prima volta in Pronto Soccorso dove vengono portati i pazienti quando vanno incontro al blocco di un bolo alimentare nell’esofago.

“È questo il più frequente incidente causato dalla malattia trascurata” afferma la prof. Caterina Strisciuglio, Associato di Pediatria all’Università Luigi Vanvitelli della Campania. “Non di rado la prima diagnosi avviene in pronto soccorso quando i medici sono costretti ad intervenire in emergenza per rimuovere il bolo alimentare dall’esofago. In quanto all’incidenza, pur essendo maggiore nel secondo decennio di vita, osserviamo sempre più spesso casi di bambini che non hanno ancora compiuto 10 anni. La malattia è decisamente più frequente nel sesso maschile. Tra i sintomi che possono mettere in allarme i genitori, benchè non ne esistano di specifici, ci sono il vomito dopo i 18 mesi, se frequente o un ostinato rifiuto del cibo”. Ci sono segnali che i genitori possono tenere sotto controllo per verificare l’eventuale esordio della malattia: “Va osservato se il bambino impiega tanto tempo per completare il pasto” spiega la dott. Francesca Rea, Responsabile dell’Ambulatorio patologie eosinofile del tratto gastrointestinale, Ospedale Pediatrico Bambino Gesù, Roma, “ se mastica a lungo, se beve molto mentre si mangia, se preferisce pasti morbidi o in pezzetti molto piccoli. Questi comportamenti non vanno sottovalutati, perchè possono essere la spia di una esofagite eosinofila. Che può essere diagnosticata con certezza in fase anche precoce con un esame invasivo, ma assolutamente sicuro: una endoscopia dell’esofago, EGDS, durante la quale si fanno alcune piccole biopsie. Se nei tessuti asportati si riscontra un’abnorme quantità di eosinofili, la situazione è chiara”.

Ma se diagnosticata in tempo, e questo è più facile proprio in età pediatrica, l’esofagite eosinofila può essere tenuta sotto controllo, anche se non guarita impedendole di progredire e aggravarsi. “Si possono usare normali inibitori della pompa protonica, corticosteroidi, dieta di eliminazione” sottolinea il prof. Salvatore Oliva, Associato presso il Dipartimento Materno Infantile dell’Università La Sapienza di Roma. “Ma la grande novità è un farmaco biologico appena approvato anche in Italia, e di cui stiamo aspettando la rimborsabilità anche per l’esofagite eosinofila, contro la quale è perfetto. E ce ne sono altri in fase di sperimentazione. Abbiamo però due problemi. Il primo è che molti farmaci sono efficaci, ma non essendo ufficialmente indicati contro questa malattia sono in una forma sbagliata; per esempio i corticosteroidi che si usano per l’asma sono efficaci ma dobbiamo somministrarli in modi non previsti. In particolare devono essere deglutiti anziché inalati. Il secondo problema è che i farmaci più nuovi non sono ancora autorizzati per i bambini. Quelli che ne avrebbero più bisogno per frenare la malattia prima che progredisca”. La crescente diffusione dell’esofagite eosinofila sta suscitando una comprensibile attenzione da parte della comunità scientifica. “Questa malattia” conclude il prof. Romano “è una delle grandi sfide della gastroenterologia nei prossimi anni. E la SIGENP con i suoi Centri di riferimento distribuiti su tutto il territorio nazionale ha già accolto questa sfida. È fondamentale che venga meglio conosciuta dal pubblico, dalle famiglie per poter arrivare a una diagnosi precoce e impostare una terapia corretta che ne blocchi la progressione”.

Occorre, insomma, informare, creare consapevolezza. “Questo è il compito che ci prefiggiamo e che portiamo avanti come ESEO Associazione di famiglie contro l'esofagite e le patologie gastrointestinali eosinofile” spiega la Presidente Roberta Giodice: “sensibilizzare le istituzioni, l’opinione pubblica e aiutare questi pazienti e le loro famiglie, a fronteggiare una patologia di cui molti non conoscono neppure l’esistenza. Con la campagna ESEO Italia 2024 intendiamo promuovere una corretta educazione sanitaria attraverso attività e progetti mirati a garantire con la sensibilizzazione una riduzione del ritardo diagnostico per i pazienti con patologie gastrointestinali eosinofile, orientandoli nei percorsi di cura”.

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di Rossella Gemma

Una ricerca congiunta condotta da Sapienza Università di Roma in collaborazione con I.R.C.C.S. Neuromed di Pozzilli, Mediterranea Cardiocentro di Napoli e Università LUM di Casamassima, ha messo in luce un'associazione significativa tra ipoalbuminemia (bassi livelli di albumina nel sangue) e un aumento del rischio di mortalità per malattie vascolari e cancro in individui anziani. La ricerca, condotta sulla base dei dati raccolti dallo studio epidemiologico Moli-sani e pubblicata sulla rivista scientifica eClinical Medicine-Lancet, ha analizzato un vasto gruppo di persone (circa 18.000 soggetti, dei quali 3.299 di età pari o superiore ai 65 anni), dimostrando che livelli di albumina inferiori a 35 g/L sono collegati a un rischio maggiore di morte negli anziani. Questa relazione è stata osservata anche dopo aver escluso fattori come malattie renali o epatiche e stati infiammatori acuti, che possono influenzare i livelli di albumina.

“La possibilità di ottenere indicazioni predittive su malattie con alta incidenza e elevato rischio di morte – come quelle cardiovascolari o i tumori – attraverso un esame semplice e ampiamente disponibile, anche a basso costo, rappresenta una importante conquista per la medicina moderna” – commenta la rettrice della Sapienza Antonella Polimeni. “Questo studio, che conferma e consolida l’eccellenza delle attività scientifica delle università e degli enti di ricerca italiani in campo medico, ha anche un importante valore sociale attribuibile alle possibili ricadute nell’ambito della prevenzione”.

“La nostra analisi – dice Francesco Violi, Professore Emerito della Sapienza Università di Roma e ideatore dello studio – origina dal fatto che nel sangue l’albumina è una proteina che svolge attività antiossidante, antinfiammatoria e anticoagulante. La sua diminuzione, pertanto, accentua lo stato infiammatorio sistemico, facilitando l’iperattività delle cellule predisposte alla cancerogenesi o alla trombosi. È importante, in questo contesto, sottolineare che cancro e infarto cardiaco condividono una base comune proprio nella presenza di uno stato infiammatorio cronico, e che pazienti a rischio di malattie cardiovascolari, come i diabetici e gli obesi, sono anche a rischio di cancro”.

"I risultati del nostro studio – aggiunge Augusto Di Castelnuovo, epidemiologo della Mediterranea Cardiocentro e dell’I.R.C.C.S. Neuromed- mostrano che un livello basso di albumina, oltre a fornire indicazioni sullo stato nutrizionale e sulla salute del fegato, segnala anche una aumentata suscettibilità verso altre gravi patologie. L'ipoalbuminemia potrebbe riflettere quel processo infiammatorio cronico, tipico dell'invecchiamento, noto come ‘inflammaging’, che potrebbe aver contribuito al rischio elevato di mortalità che abbiamo osservato."

Un dato interessante della ricerca è che l'ipoalbuminemia è correlata a un livello socioeconomico più basso. Questo solleva un'importante questione sociale, poiché per motivi economici, gli anziani optano spesso per una dieta meno salutare, scegliendo alimenti con proteine meno nobili. “Oltre a fornirci lo spunto per approfondire con ulteriori ricerche il rapporto tra albumina nel sangue e salute – commenta Licia Iacoviello, direttore del Dipartimento di Epidemiologia e Prevenzione dell’I.R.C.C.S. Neuromed e Professore Ordinario di Igiene dell’Università LUM - questo studio può avere implicazioni dirette sulla pratica clinica e sulla prevenzione. La misura dell’albumina nel sangue è infatti un test semplice e poco costoso. È quindi da considerare un’analisi di primo livello, che permetterebbe di porre una maggiore attenzione clinico-diagnostica verso gli individui anziani potenzialmente a rischio. Il nostro studio fornisce anche un valore di riferimento (35 g/L) che può guidare il medico nell’interpretazione della misura di albumina”.

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di Rossella Gemma

A far paura nel nostro Paese non sono solo i batteri resistenti agli antibiotici e l'uso troppo disinvolto di questi ultimi che assegnano all'Italia uno degli ultimi posti in Europa. Nell’ultimo anno, sono rimaste a livelli molto bassi anche le coperture vaccinali contro il COVID-19, sebbene il SARS-CoV-2 resti una grave minaccia per la popolazione fragile: lo dimostrano i dati dell’ultima stagione invernale, in cui in Italia si sono contati ben 10mila decessi e 82mila ricoveri, soprattutto tra anziani e pazienti fragili, come malati cronici e immunodepressi, il più delle volte non vaccinati. Effettivamente, il tasso di copertura vaccinale contro il COVID-19 nell’ultimo anno è rimasto particolarmente basso: sono state infatti somministrate poco più di due milioni di dosi. Ipotizzando anche che i destinatari siano stati solo soggetti anziani e fragili, il tasso di copertura in queste popolazioni resta fermo al 13%, uno dei livelli più bassi in Europa, come riportano i dati dell’ECDC. Da questo quadro, che ha disatteso gli obiettivi posti dalla Circolare del Ministero della Salute del 14 agosto 2023, è partita la proposta della Società Italiana d’Igiene, Medicina Preventiva e Sanità Pubblica (SItI) insieme alla Società Italiana di Malattie Infettive e Tropicali (SIMIT), che hanno redatto un Documento congiunto per stimolare alcune azioni urgenti per favorire una più ampia diffusione della copertura vaccinale nella prossima stagione. L'approccio corretto e vincente prevede più vaccini diversi che possano rispondere all'appropriatezza vaccinale individuale, in sostanza un vaccino "giusto" per ogni singolo paziente, una sorta di prevenzione sartoriale per una larga fetta di cittadini.

Il Documento “Proposte di azioni urgenti per la prossima campagna vaccinale COVID-19 in Italia” redatto dagli specialisti di SItI e SIMIT si propone come punto di partenza per accendere i riflettori sulla campagna vaccinale del prossima stagione 2024-2025. L’obiettivo da perseguire è incrementare la copertura vaccinale contro il COVID-19 sino ai livelli dell’anti-influenzale (minimo 75% nel target per età e nei soggetti a rischio). Per favorire il raggiungimento di questo fine, vengono proposte cinque azioni da avviare quanto prima: definire entro il mese di maggio le popolazioni target, tempi e modalità di svolgimento della campagna vaccinale, possibilmente raccomandandola anche nel Piano Nazionale Prevenzione Vaccinale (PNPV); garantire l’approvvigionamento delle scorte a tutti i canali di offerta della vaccinazione (medici di medicina generale, ambulatori territoriali e ospedalieri, farmacie, RSA); garantire una fornitura di tutti i vaccini disponibili (a mRNA e proteico adiuvato) per salvaguardare la scelta del vaccino più opportuno in ogni condizione; intraprendere azioni formative e informative sugli operatori sanitari coinvolti nella campagna vaccinale, ricordando anche le opportunità della co-somministrazione; informare la popolazione su tempi e modalità di svolgimento della campagna, oltre che sull’importanza della prevenzione nei soggetti fragili per età e/o condizione di rischio.

Una scorretta e non incisiva informazione, insieme ad una non brillante organizzazione – precisa la Prof.ssa Roberta Siliquini, Presidente SItI – ci pone come maglia nera europea per la protezione di anziani a fragili. Ci auguriamo che, con il contributo di tutti, la prossima campagna vaccinale possa risultare più efficace nel prevenire una patologia che rimane, per questi soggetti, di importante severità. E’ necessario, inoltre, poter garantire un accesso equo a tutti i diversi vaccini disponibili nell’ottica di una prevenzione personalizzata.”

Ad oggi il COVID-19 rappresenta ancora una minaccia per il SSN, pur non essendo più un’emergenza come negli scorsi anni – sottolinea Roberto Parrella, Presidente SIMIT – I numeri relativi a decessi e ospedalizzazioni, con una concentrazione di casi con un grado di severità moderato e grave nelle popolazioni più anziane e con condizioni di aumentato rischio (patologie croniche, immunodepressione) sono eloquenti, senza dimenticare le possibili conseguenze come il Long Covid. La vaccinazione resta lo strumento più efficace per la prevenzione della malattia ed è importante che venga effettuata nei mesi iniziali della stagione autunnale prima di un possibile periodo critico di diffusione del virus come già accaduto negli anni scorsi”.

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di Rossella Gemma

Il quadro emerso dal Global Hepatitis Report 2024 dell’Organizzazione Mondiale della Sanità riporta che l’epatite virale è la seconda causa infettiva di morte a livello globale, con percentuali simili a quelle registrate dalla tubercolosi, uno dei principali killer infettivi.
I nuovi dati provenienti da 187 Paesi mostrano che il numero stimato di decessi per epatite virale è aumentato da 1,1 mln nel 2019 a 1,3 nel 2022. Di questi, l’83% è stato causato dall’epatite B e il 17% dall’epatite C.
Solo in Italia ci sono ancora 300mila persone inconsapevoli di essere affette dal virus Hcv e non ancora trattate, un record di casi di sommerso in Europa che ci vede ancora lontani dall’obiettivo dell’Oms di eliminazione dell’Epatite C entro il 2030.
 
“L’Epatite C è una malattia che impiega anni a dare sintomi evidenti- afferma Enrico Di Rosa, direttore del Servizio di Igiene e Sanità Pubblica della Asl Roma 1- se non identificata e correttamente trattata. Oggi esistono terapie che permettono di eradicare il virus che può portare allo sviluppo del tumore al fegato e impattare sulla qualità di vita della persona”.
 
In questa importante ottica preventiva si è mosso il Progetto di Salute Solidale ‘Camminare insieme per la cura dell’Epatite C’, attuato dalla Comunità di Sant’Egidio insieme a Letscom E3, con il contributo non condizionato di AbbVie, “per ampliare l’accesso ai test e favorire una diagnosi tempestiva interrompendo la catena di contagio- spiega la dottoressa Maria Giuseppina Lecce, referente del progetto per Sant’Egidio- Si è quindi attivata una campagna di sensibilizzazione verso l’Epatite C e un’offerta di screening con test rapido anti Hcv indirizzata alla popolazione migrante che si rivolge alla Comunità. La campagna di sensibilizzazione ha coinvolto migliaia di migranti e rifugiati: studenti della Scuola di Lingua e Cultura Italiana e persone in difficoltà che si rivolgono ai centri di accoglienza e solidarietà di Sant’Egidio. L’offerta dello screening con test rapido anti Hcv è stata accolta con molto favore e interesse. La percentuale di positività è stata dell’1,5%, e i pazienti positivi sono stati avviati per le cure del caso e la completa presa in carico al Policlinico Gemelli”.
 
“Il Piano Nazionale per lo screening di Hcv in Italia ha introdotto importanti risorse per coprire ampie fasce nella popolazione generale e nelle popolazioni speciali- è intervenuta la dottoressa Francesca Romana Ponziani, responsabile dell’ambulatorio di epatologia presso il centro malattie dell’apparato digerente (Cemad), Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli Irccs- tuttavia, ci sono molte persone che difficilmente riescono ad accedere ai percorsi di screening e cura previsti da protocolli ufficiali e che invece possono rappresentare sacche di sommerso importanti, alle quali devono essere rivolte attenzioni particolari.
 
Fra queste persone ci sono i migranti, a cui è importante che sia garantito l’accesso ai servizi di screening e la presa in carico presso le strutture sanitarie che possano garantire loro le cure necessarie per una patologia infettiva che al giorno d’oggi è curabile con elevatissimi tassi di successo”.
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di Rossella Gemma

Il 19 aprile, come ogni anno, si celebra la Giornata Mondiale del Fegato, un’iniziativa delle società scientifiche di tutto il mondo legate all’ambito epatologico volta a sensibilizzare la popolazione mondiale sulla crescita delle patologie epatiche, spesso legate al peggioramento degli stili di vita: ogni anno, migliaia di persone sono colpite da queste malattie; sono 1,5 miliardi coloro che vivono con una malattia epatica cronica, mentre ogni anno si perdono 2 milioni di vite per questa causa. Ogni anno, in Italia, almeno 15mila pazienti muoiono per cirrosi e circa 6mila per carcinoma del fegato. Tuttavia, il 90% di questi casi sarebbero prevenibili, con azioni individuali in favore di un corretto stile di vita e con politiche sanitarie adeguate. Proprio al fine di incentivare questi approcci virtuosi, l’Associazione Italiana per lo Studio del Fegato si è confermata in prima linea nell’adesione a questa Giornata.

IL FEGATO: PROTEGONISTA DI OLTRE 500 FUNZIONI, MA A RISCHIO DI 100 MALATTIE – Il fegato è un organo spesso sottovalutato, ma è fondamentale per il mantenimento della salute generale: svolge infatti oltre 500 funzioni vitali nell’organismo, ma può essere colpito da oltre cento malattie, indipendentemente da età, sesso, etnia. Il fegato è l’organo interno del corpo umano che pesa di più, 1,5 kg, quasi le dimensioni di un pallone da football americano. Il fegato elabora zuccheri, proteine e grassi, che vengono poi trasformati in energia richiesta dal resto del corpo. Interagisce con numerosi altri organi, contribuisce al metabolismo ed è uno dei migliori protettori del sistema immunitario. Depura il sangue, filtrando farmaci e altre sostanze tossiche, produce la bile e sintetizza i fattori essenziali per la coagulazione. Le malattie del fegato tendono a rimanere latenti, in quanto questo organo non ha recettori del dolore: questo spesso porta a diagnosi tardive, quando la patologia è già in cirrosi scompensata o prossima all’epatocarcinoma.

I MESSAGGI DEL WORLD LIVER DAY - La Giornata Mondiale del Fegato è un’iniziativa guidata dall'Associazione europea per lo studio del fegato (EASL), dall'Associazione asiatica del Pacifico per lo studio del fegato (APASL), dall'Associazione americana per lo studio delle malattie del fegato (AASLD), dall'Asociacion Latinoamericana para el Estudio del Higado (ALEH) e la Society on Liver Disease in Africa (SOLDA), sotto l’egida della Coalizione Healthy Livers, Healthy Lives. La campagna di quest’anno mira a sensibilizzare l’opinione pubblica sul ruolo vitale del fegato e sull’importanza di adottare misure proattive per mantenere un fegato sano. Tuttavia, spesso le malattie del fegato non figurano nelle priorità di politica sanitaria, mentre dovrebbero rappresentare una priorità nei piani di assistenza sanitaria primaria.

L’Associazione Italiana per lo Studio del Fegato, che conta quasi mille soci iscritti, da oltre 50 anni è impegnata nella ricerca, nella divulgazione scientifica e nella formazione dei giovani epatologi – sottolinea la Prof.ssa Vincenza Calvaruso, Segretario AISF – Le malattie epatiche croniche si sviluppano silenziosamente, causando cicatrici progressive e cirrosi e si classificano al secondo posto dopo la cardiopatia ischemica in termini di anni di vita lavorativa persi a livello globale. Aumentare l’alfabetizzazione sanitaria e promuovere cambiamenti comportamentali ridurrebbe il carico di malattie del fegato e avrebbe un impatto significativo sulla sua morbilità e mortalità. In questi anni sono stati raggiunti importanti risultati, come i successi nella lotta alle epatiti virali, ma molto resta da fare, soprattutto in relazione alle patologie legate alla disfunzione metabolica provocate da tendenze legate a errati stili di vita”.

IL DECALOGO DELLA PREVENZIONE – Per favorire comportamenti virtuosi e incentivare la prevenzione, dal World Liver Day parte un decalogo volto a salvaguardare la salute del fegato. 1) Evitare il consumo di alcol, che provoca sette diversi tipi di cancro ed è una delle cause più frequenti di patologie epatiche. 2) Seguire una dieta salutare (fatta di frutta, verdura, legumi, proteine), riducendo gli zuccheri complessi e cibi ad alto contenuto di grassi saturi. 3) Vaccinarsi contro l’Epatite A e B, con quest’ultima vaccinazione che protegge anche dall’Epatite Delta. 4) Fare controlli regolari dal proprio Medico di Medicina Generale. 5) Mantenere l’igiene delle mani per prevenire infezioni da Epatite A ed E. 6) Evitare di condividere aghi contaminati, non solo associati all’uso intravenoso di droghe, ma anche per tatuaggi e piercing. 7) Praticare sesso sicuro per evitare contagio da Epatite B e C. 8) Evitare gli inquinanti ambientali, che possono danneggiare le cellule epatiche. 9) Non fumare. 10) Fare regolarmente esercizio fisico per ridurre l’accumulo di grassi nel fegato, aumentare il flusso sanguigno e intensificare la funzione metabolica.

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di Rossella Gemma

Nuovi studi sui fattori di rischio della malattia di Alzheimer propongono scenari inediti per effettuare una diagnosi precoce, che potrebbe ritardare la comparsa dei sintomi o evitare che questi insorgano. Sono stati infatti identificati alcuni fattori di rischio come diabete, insulino-resistenza, malattie del fegato, disturbi del sonno, che molto probabilmente concorrono a determinare questa patologia. Se queste ricerche fossero confermate sarebbe un significativo passo avanti nella prevenzione, visto che le terapie, nonostante alcune potenzialità, non presentano significative novità. Questi studi sono stati al centro del 24° Congresso Nazionale dell’Associazione Italiana Psicogeriatria – AIP. Tre giorni al Palazzo dei Congressi a Firenze con oltre 500 specialisti tra geriatri, neurologi, psichiatri.

AUMENTA LA PREVALENZA, MA L’INCIDENZA È IN DIMINUZIONE - L’Alzheimer rappresenta numericamente la principale forma di demenza tra le malattie neurodegenerative  in tutto il mondo. In Italia ci sono 1,1-1,2 milioni di persone affette da demenza, di cui il 60-80% affetti da Alzheimer, quindi si stimano circa 800mila persone. “Negli ultimi anni però sono stati riscontrati due trend opposti, una riduzione dell’incidenza e un aumento della prevalenza – sottolinea il prof. Alessandro Padovani, Direttore della Clinica di Neurologia e Prorettore alla Ricerca dell’Università degli Studi di Brescia –. Confrontando coorti d’età di diversi periodi emerge una riduzione della malattia: gli ottantenni di oggi rispetto a quelli del passato sono dunque meno colpiti; il controllo dei fattori di rischio ritarda la comparsa della malattia. Tuttavia, l’invecchiamento della popolazione e l’aumento del numero di anziani porta a un incremento della prevalenza, con la cifra assoluta che complessivamente è superiore rispetto al passato. Questi trend sono presenti anche nel micro, come dimostra l’osservatorio dell’Ospedale di Brescia, dove i 17mila pazienti affetti da Alzheimer sono per incidenza sempre più anziani, ma la presenza in coloro che hanno tra i 70 e gli 80 anni si è ridotta”.

BIOMARCATORI E FATTORI DI RISCHIO, I NUOVI SCENARI PER L’ALZHEIMER – La ricerca scientifica negli ultimi anni si è concentrata sul fatto che le prime alterazioni neuropatologiche si rilevano già 19 anni prima l’insorgenza dei sintomi veri e propri, con un aumento del tasso di proteina beta-amiloide a cui segue l’alterazione della proteina tau. In generale si consiglia un approccio preventivo basato su socializzazione, alimentazione corretta, attività fisica. Gli studi dell’ultimo anno hanno identificato possibili fattori di rischio che precedono l’accumulo di beta-amiloide.

I fattori di rischio che stanno emergendo come correlati alle caratteristiche neuropatologiche della malattia di Alzheimer sono il diabete o la cosiddetta insulinoresistenza della sindrome metabolica attraverso l’infiammazione sistemica, che favoriscono l’accumulo di beta-amiloide da cui poi deriverebbe il processo neurodegenerativo – sottolinea il Prof. Alessandro Padovani – Altri due elementi sembrerebbero correlati all’infiammazione sistemica: l’insufficienza epatica non alcolica, spesso legata all’obesità e ai disturbi dell’alimentazione, e la steatosi epatica alcolica, spesso aggravata dal consumo di alcol anche in età avanzata. Il fegato, infatti, svolgerebbe una funzione di filtro o di eliminazione dell’amiloide circolante. Ancora non ci sono dimostrazioni scientifiche, ma è un ipotesi accreditata su cui diversi gruppi stanno lavorando. Un terzo aspetto che emerge sull’individuazione dei fattori di rischio è legato ai disturbi del sonno: un sonno disturbato, inferiore alle 6 ore, aumenta il rischio di decadimento cognitivo; da recenti studi emerge che alcuni farmaci che agiscono sull’orexina non solo migliorano il sonno e le prestazioni cognitive, ma agiscono sui biomarcatori correlati allo sviluppo della malattia di Alzheimer”.

Le recenti ricerche sui biomarcatori dell’Alzheimer identificano importanti segni che un individuo andrà incontro a una demenza – sottolinea il Prof. Diego De Leo, Presidente AIP –. Si tratta di una puntura lombare che preleva il liquor cefalo-rachidiano che circonda il sistema nervoso. Nuove modalità di analisi dei biomarcatori si possono oggi fare anche tramite analisi del sangue, con un accesso più semplice e generalizzato, intervenendo quindi anche in persone che non presentano segni di malattia. Tuttavia, questa disponibilità pone questioni etiche oltre che organizzative, per identificare le persone da sottoporre a questi test”.

DAGLI ANTICORPI MONOCLONALI AGLI OLIGONUCLEOTIDI ANTISENSO: LE FRONTIERE DELLA TERAPIA  - L’importanza della prevenzione e dell’identificazione dei fattori di rischio è data dalla mancanza di terapie risolutive della patologia. Negli ultimi anni, la ricerca si è concentrata su anticorpi monoclonali che agiscono contro i primi meccanismi patogenetici dei precursori dell’amiloide, ma gli studi sono ancora in corso e mancano valutazioni da parte delle autorità regolatorie. Attualmente quindi la strategia terapeutica più frequente resta quindi quella di un cocktail di farmaci. “Tra le potenziali novità, vi è una terapia che prevede l’uso di oligonucleotidi antisenso – sottolinea il Prof. Padovani – È una terapia che in Italia è condotta in sei centri, tra cui il nostro a Brescia. Finora non sono emersi effetti collaterali e attendiamo di verificare l’effetto a distanza di un anno, ma i dati sono incoraggianti: potrebbe essere una nuova strada che combina farmaci antiamiloide e antitau”.

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di Rossella Gemma

L’Italia è uno dei paesi occidentali in cui diventare vecchi presenta gli scenari peggiori, soprattutto rispetto ai Paesi anglosassoni, dove i tassi di suicidio in età avanzata sono la metà di quelli che avvengono in Italia. Lo dimostrano i dati relativi alla solitudine e ai suicidi, che nel 38% dei casi riguardano persone con più di 65 anni, sebbene queste ultime siano poco più del 20% della popolazione.

Solitudine e suicidi negli anziani saranno tra i temi al centro del 24° Congresso dell’Associazione Italiana di Psicogeriatria, che si tiene a Firenze dall’11 al 13 aprile. Il  Congresso, intitolato “Integrazione e innovazione. Fondamenti del sapere psicogeriatrico” raccoglie oltre 500 specialisti e ben 145 relatori, affrontando temi di stringente attualità. L’avvento dell’Intelligenza Artificiale apporterà modificazioni nella cura degli anziani. La cura delle demenze sta offrendo scenari innovativi con il ruolo dei biomarcatori nell’approccio diagnostico. La recente approvazione della legge 33 sulla non-autosufficienza rappresenta un'altra opportunità di innovazione nell’assistenza, che si sposta dal sanitario al sociale aprendo nuove prospettive. Vi sono poi le novità farmacologiche riguardanti problematiche come il controllo di agitazione e delirium e quelle sui trapianti d’organo. Grande attenzione poi a fenomeni globali come i cambiamenti climatici, che hanno un notevole impatto proprio sulla salute dei più fragili, che possono subire maggiormente gli effetti della disidratazione, dei colpi di calore o semplicemente essere meno reattivi di fronte a calamità naturali per limiti sensoriali o per il basso livello di digitalizzazione, che in Italia nella popolazione anziana non raggiunge il 65% e talvolta implica solo la competenza di saper mandare una mail.

L’elevato tasso di suicidi tra gli anziani in Italia ha le sue ragioni nella solitudine in cui vengono ridotti gli anziani e nell’ageismo con cui vengono spesso discriminati, con diritti basilari che esistono solo sulla carta. Il tasso di solitudine è il doppio rispetto alla media dei Paesi europei, con coloro che non hanno nessuno a cui chiedere aiuto che sono il 14%, mentre coloro che non hanno nessuno a cui raccontare cose personali il 12%, a fronte di una media europea del 6,1% (dati Eurostat). La solitudine non è solo un problema sociale, ma anche clinico, essendo associata ad un aumento del rischio di depressione, disturbi del sonno, demenza e malattie cardiovascolari.

A mettere in stretta correlazione ageismo e solitudine sono diversi studi internazionali. Uno studio israeliano di giugno 2023 individua un legame tra il crescere dell’età e la maggiore solitudine, con l’associazione positiva tra i due fenomeni che diventa significativa nelle persone di età superiore ai 70 anni. Uno studio cileno dello stesso periodo mostra un’associazione diretta e indiretta dell'ageismo con gli esiti sulla salute mentale: l’ageismo è positivamente correlato alla solitudine e, di conseguenza, all’aumento dei sintomi depressivi e ansiosi. Analogamente, un documento di ottobre 2021 evidenzia due iniziative innovative dei Paesi Bassi, che dimostrano che i diritti degli anziani possono essere mantenuti in soluzioni abitative collettive.

Gli anziani spesso vengono estromessi da misure di salvaguardia sanitaria, come avvenuto durante la pandemia, quando i posti in terapia intensiva erano destinati ai più giovani – spiega il Prof. Diego De Leo, Presidente AIP –. Questa impostazione è stata introiettata dagli anziani stessi, convinti che non possano essere utili alla società né attivi: questo non è frutto di un impoverimento cognitivo, ma di un’impressione del loro patrimonio intellettuale come detta la società. Occorre pertanto ribaltare questo modello. Oltre all’ageismo, vi è una vera e propria epidemia di solitudine: i paesi occidentali contano il 30% degli anziani afflitti da solitudine cronica e il 10% da una solitudine molto severa, che porta alla depressione e poi in alcuni casi proprio al suicidio. L’altro Paese più vecchio al mondo insieme all’Italia, il Giappone, ha computato 45mila persone che ogni anno muoiono in completo isolamento, tanto che sono state create squadre di “death cleaners” che si occupano di bonificare i luoghi in cui sono avvenute queste morti in solitudine”.

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di Rossella Gemma

Ibrutinib, primo inibitore della tirosin chinasi di Bruton (BTK) ad essere stato approvato a livello mondiale e sviluppato da Johnson & Johnson, ha recentemente ricevuto dall’agenzia italiana del farmaco, AIFA, la rimborsabilità per una nuova indicazione terapeutica. In particolare, il farmaco è ora disponibile anche in combinazione con venetoclax, inibitore di BCL-2, come nuovo trattamento a durata fissa - per un totale di 15 mesi - per pazienti adulti con leucemia linfatica cronica (CLL) precedentemente non trattata.

La leucemia linfatica cronica è la forma di leucemia più frequente tra gli adulti nei paesi occidentali e rappresenta il 30 per cento di tutte le forme di leucemia, che oggi colpiscono complessivamente 85.000 italiani.1 In Italia le stime parlano ogni anno di circa 1.600 nuovi casi tra gli uomini e 1.150 tra le donne.Si tratta di una malattia prevalentemente tipica nell’anziano, tuttavia, il 15 per cento dei casi viene diagnosticato prima dei 60 anni.2  

«L’arrivo di questa nuova combinazione a base di ibrutinib rappresenta un passo in avanti verso la personalizzazione dei trattamenti per la leucemia linfatica cronica. In particolare, questa nuova terapia combina due molecole che, grazie ai loro meccanismi d’azione, risultano tra le più efficaci tra quelle oggi a disposizione nella lotta alla leucemia linfatica cronica. In termini di efficacia, ad esempio, gli studi clinici hanno evidenziato come l’associazione di ibrutinib con venetoclax consenta un periodo libero da trattamento molto lungo, di quasi 5 anni, in 9 pazienti su 10. Oltre alla sua importanza in termini di efficacia, è importante sottolineare che si tratta del primo trattamento completamente orale, una volta al giorno, senza chemioterapia, a durata fissa per la CLL. Questo permette di non dover ricorrere a ricoveri o infusioni endovenose, migliorando la gestione della terapia sia per il paziente che per il medico», afferma Luca Laurenti, Professore associato presso l’Istituto di Ematologia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore.

L’efficacia di questa combinazione deriva dal meccanismo d’azione delle molecole che la compongono. Da un lato, ibrutinib blocca la BTK, una proteina che invia ai linfociti B “segnali” fondamentali per la maturazione e la produzione di anticorpi, alla base della proliferazione e della migrazione delle cellule tumorali in numerose neoplasie delle cellule B.Dall’altro, venetoclax è un potente inibitore selettivo del linfoma a cellule B (B-cell lymphoma, BCL)-2, una proteina anti-apoptotica che risulta sovraespressa nelle cellule di CLL, dove è responsabile della sopravvivenza delle cellule tumorali ed è stata associata a resistenza ai chemioterapici.4

«Ibrutinib è stato il primo inibitore della BTK impiegato nel trattamento della leucemia linfatica cronica. Dato il lungo tempo del suo impiego, sono oggi disponibili per questo inibitore, dati molto ‘robusti’ che si basano non solo sul più lungo follow-up registrato per questa classe di molecole, ma anche sul numero molto elevato di pazienti trattati in studi clinici, e soprattutto, nella pratica clinica. La grande esperienza clinica generata ha quindi prodotto una solida real-world evidence circa ibrutinib nella leucemia linfatica cronica. È importante notare che pazienti trattati con il solo ibrutinib in diversi studi clinici, dopo 8 anni di follow-up hanno mostrato una sopravvivenza stimata del tutto simile a quella di una popolazione sana di pari età. Inoltre, ibrutinib ha mostrato efficacia con risposte durature anche in pazienti con alterazioni genetiche prognosticamente sfavorevoli come la delezione e/o mutazione del gene TP53 e lo stato mutazionale IGHV non mutato. Un aspetto importante è rappresentato dalla possibilità di modulare la dose di ibrutinib in rapporto alla tollerabilità del paziente e all’insorgenza di eventi avversi senza che questo abbia un impatto significativo sulla sua efficacia a lungo termine», aggiunge Francesca Romana Mauro, Professore associato presso l’Istituto di Ematologia del Dipartimento di Medicina Traslazionale e di Precisione dell’Università Sapienza di Roma.

Da oggi ibrutinib è quindi rimborsato in Italia per il trattamento di pazienti adulti con: leucemia linfocitica cronica (LLC) precedentemente non trattata, in monoterapia e in combinazione con venetoclax; leucemia linfocitica cronica (LLC) che hanno ricevuto almeno una precedente terapia, in monoterapia; linfoma mantellare (MCL) recidivato o refrattario, in monoterapia; macroglobulinemia di Waldenström (WM) che hanno ricevuto almeno una precedente terapia, in monoterapia.

«Le nuove terapie, frutto dei progressi della ricerca scientifica, offrono oggi significative potenzialità, permettendo ai pazienti di migliorare la loro qualità e aspettativa di vita. Nell’epoca della personalizzazione delle cure dobbiamo promuovere un altrettanto innovativo rinnovamento del nostro Sistema Sanitario, che a volte rende difficile l’accesso alle terapie innovative e la completa presa in carico del paziente, non solo per gli aspetti strettamente clinici, particolarmente quando si parla di malattie croniche», sottolinea Davide Petruzzelli, Presidente La Lampada di Aladino Ets. «L’Associazione La Lampada di Aladino ETS è stata fondata nel 2000 da un gruppo di ex malati di cancro con la finalità di supportare i malati oncologici e i loro familiari durante la fase acuta e post-acuta di malattia. La nostra visione è orientata a supportare a 360° le persone che vivono con un tumore tanto che il nostro obiettivo non è curare il cancro, ma le persone che vivono l’esperienza del cancro».

D’accordo con la necessità di offrire un sostegno a tuttotondo ai pazienti e ai loro caregiver, oltre a terapie sempre più innovative, anche l’Associazione Italiana contro Leucemie, Linfomi e Mieloma. «L’Associazione Italiana contro leucemie, linfomi e mieloma da 55 anni è al fianco dei pazienti ematologici con l’obiettivo di sostenere la ricerca, l’assistenza e sensibilizzare l’opinione pubblica contro i tumori del sangue. Il nostro impegno quotidiano, attraverso l'opera delle 83 sezioni provinciali e delle migliaia di volontari in tutta Italia, è contribuire a curare al meglio i pazienti, migliorando la loro qualità e aspettativa di vita», dichiara Rosalba Barbieri, Vicepresidente nazionale Associazione Italiana contro Leucemie, Linfomi e Mieloma e Presidente sezione AIL di Novara. «AIL assiste i pazienti e le famiglie accompagnandoli in tutte le fasi del percorso di malattia, con servizi adeguati alle loro esigenze, come l'accoglienza presso le Case AIL, l'assistenza domiciliare, il servizio di navetta da e per i centri ematologici, il supporto psicologico e le attività di counselling».

L’efficacia e sicurezza di ibrutinib in combinazione con venetoclax sono state valutate in diversi studi clinici. Tra questi, lo studio GLOW che ha valutato il trattamento in prima linea a durata fissa di questa combinazione in pazienti over 65 con leucemia linfatica cronica non trattata. Questo studio ha mostrato benefici in termini di sopravvivenza e tempo al trattamento successivo ad un follow-up mediano di 5 anni, con tassi di sopravvivenza di oltre l’80 per cento rispetto alla chemio immunoterapia con clorambucile più obinutuzumab.5 Un altro importante studio è CAPTIVATE che ha utilizzato un regime a base di I+V simile a quello dello studio GLOW in pazienti con LLC di età pari o inferiore a 70 anni e ha mostrato remissioni profonde e valori di progressione libera da malattia clinicamente significativi.6

«Johnson & Johnson è un’azienda con forte heritage in ematologia, area in cui abbiamo lavorato tanto e a lungo per sviluppare delle soluzioni terapeutiche efficaci per i pazienti con tumori del sangue, a partire dal mieloma multiplo e arrivando alla leucemia linfatica cronica», conclude Alessandra Baldini, Direttrice medica Johnson & Johnson Innovative Medicine Italia. «Con il nostro impegno miriamo a migliorare non solo gli esiti clinici dei pazienti, ma anche la loro qualità di vita. In questa direzione vanno anche le terapie a base di ibrutinib che, grazie alla loro singola somministrazione orale giornaliera, migliorano l’aderenza alla terapia del paziente. Il valore di ibrutinib è stato ampiamente riconosciuto in questi anni dalla comunità scientifica e dai pazienti, al punto che nel 2021 è stato inserito dall’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) nella lista dei farmaci essenziali».

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di Rossella Gemma

La Società Italiana di Farmacologia - SIF - condivide la necessità di attenzionare l'uso improprio di Fentanyl e di altri oppioidi sintetici nel nostro Paese, e ritiene necessario sottolineare l’altrettanta priorità che il decisore politico strutturi un dialogo costante con i soggetti deputati allo studio delle sostanze e alla ricerca nel campo della farmacologia di base, applicata e clinica.

“L’attivazione di un Piano Nazionale che abbia come obiettivo quello di prevenire, intercettare e impedire l'accesso del Fentanyl e dei suoi analoghi in Italia, è assolutamente prioritario - dichiara il Presidente della SIF prof. Giuseppe Cirino - perché anticipa un problema che altrove è già una emergenza conclamata. Il sistema di prescrizione di oppioidi italiano è regolamentato in maniera stringente dalla legge 15 marzo 2010 n. 38, quindi un abuso di oppioidi come negli Stati Uniti è davvero poco probabile. Tuttavia, il rapporto OsMed del 2021 ha mostrato che in Italia le dosi di oppioidi si assestano a circa 8 dosi giornaliere per 1000 abitanti, contro le 20 che si registrano ad esempio in Austria e Germania” continua Cirino.

L’auspicio della Società Italiana di Farmacologia - SIF - è che si possa, dunque, strutturare una sinergia costante tra i tavoli di lavoro che si occupano di monitorare il ‘fenomeno’ dell’uso improprio del Fentanyl in Italia, tenendo conto che la Società Italiana di farmacologia ha al suo interno un Gruppo di lavoro “Dipendenze Patologiche”, costituito nel Febbraio 2013, che vanta tra i suoi iscritti esperti di fama mondiale le cui ricerche hanno contribuito in modo sostanziale alla conoscenza del fenomeno delle dipendenze, dei meccanismi d’azione sottesi e all’individuazione di strategie terapeutiche innovative. 

Già nel luglio dello scorso anno la SIF aveva pubblicato, su SifMagazine, un approfondimento sul tema delle dipendenze patologiche dal titolo “L’abuso di antidolorifici da prescrizione come la morfina e simili è solo un problema americano?” nel quale veniva sottolineato che il sistema di prescrizione di oppioidi italiano è regolamentato in maniera stringente dalla legge 15 marzo 2010 n. 38, quindi un abuso di oppioidi come negli Stati Uniti è davvero poco probabile, tuttavia non escluso.

 

Gli oppioidi sono delle sostanze di origine naturale (morfina, codeina, chiamati anche oppiacei), semisintetiche (eroina, ossicodone, idrocodone) o totalmente di sintesi (fentanyl) con un alto potenziale d’abuso. La molecola dalla quale derivano è la morfina, il principale alcaloide contenuto nell’oppio con effetto narcotico e analgesico. Gli oppioidi da prescrizione per la loro attività si configurano come gli antidolorifici più efficaci e potenti, ed in Italia i pazienti possono accedere a questi farmaci soprattutto tramite i centri per la terapia del dolore e con ricette speciali. Questa regolamentazione ferrea è giustificata dalla tolleranza, assuefazione e dipendenza che possono determinare. Da non sottovalutare una eventuale overdose, che provoca una grave depressione respiratoria, potenzialmente mortale.

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di Rossella Gemma

In occasione della Giornata Mondiale del Sonno che si celebra il 15 marzo di ogni anno, la Società Italiana di Diabetologia ricorda l’importanza della relazione tra un sonno di giusta durata e qualità e il rischio di sviluppare diabete di tipo2. Lo ricorda un recentissimo studio apparso su Nutrition & Diabetes che ha esaminato i dati di 41mila persone del database NANHES, selezionando le informazioni su tempo, frequenza e qualità del cibo consumato in orari notturni. Obiettivo: determinare se mangiare di notte si associa a diabete e mortalità. “Il momento in cui vengono consumati i pasti è più importante di quanto si pensi” spiega il Professor Angelo Avogaro, Presidente SID “consumare pasti notturni ad alto carico energetico espone a rischi maggiori. Quindi la scelta degli alimenti è una strategia per contrastare i rischi dell’alimentazione notturna, sia essa per abitudine che per necessità professionali come avviene nei lavoratori notturni o turnisti”. In Italia i lavoratori turnisti sono circa il 18% del totale.

Lo studio ha rilevato un aumento del rischio di mortalità più del doppio per diabete in quelli che cenano tra le 23 e mezzanotte. Nel gruppo ad alta intensità calorica il rischio di mortalità generica aumentava del 21%, mentre quella per diabete era quasi doppia.

Il corpo umano ha un suo orologio e si trova nel cervello. Questo orologio, un master clock centrale, sincronizza tutte le funzioni dell’organismo deprimendone o attivandone altre in funzione delle ore del giorno. L’orologio biologico è influenzato, ad esempio, dalla luce - Il master clock reagisce principalmente al segnale luminoso (ma non è in grado di distinguere tra luce naturale e artificiale). La luce viene colpita da specifici recettori presenti nella retina. Tra i segnali periferici, la melatonina è uno dei più noti. Ormone liposolubile prodotto dall’epifisi aumenta nelle ore notturne con un picco tra le 2 e le 4 del mattino influenzando il sonno, la temperatura e l’appetito. I ritmi di vita moderni, già con l’introduzione della luce elettrica che ha allungato i periodi di veglia nelle ore notturne, interferiscono con l’orologio biologico che è regolato sui ritmi naturali. 

I lavoratori turnisti notturni presentano un indice di massa corporea più elevato dei lavoratori diurni – “Il lavoro notturno determina una alterazione di numerosi profili metabolici con aumento dei trigliceridi, diminuzione del colesterolo ‘buono’, iperglicemia e aumento dell’emoglobina glicata“ prosegue Avogaro. “Valori che tornano alla normalità quando si sospende la turnazione giorno/notte. In alcuni studi si è visto come i lavoratori notturni, a parità di calorie totali, tendano ad assumere cibi meno salutari e ultra-processati, come junk food che aumentano il rischio di obesità e diabete”. 

Sonno: 5 ore per notte aumentano il rischio di diabete - Le relazioni tra sistemi biologici sono delicate e complesse. Uno studio recente ha rivelato che dormire 5 ore o meno aumenta il rischio di diabete di tipo 2 anche nelle persone con abitudini alimentari sane. I ricercatori dell’Università di Uppsala hanno scoperto che gli individui che dormivano in media 5 ore (su un campione di 2147 persone di età media 55 anni seguiti per 12.5 anni), e quelli che dormivano da 3 o 4 ore per notte avevano un rischio maggiore di sviluppare diabete di tipo 2 rispetto a quelli che dormivano tra 7 e 8 ore.