di Rossella Gemma
Un team internazionale di ricercatori, guidato dal professor Giuseppe Lopalco, del Dipartimento di Medicina di Precisione e Rigenerativa e Area Ionica (DiMePRe-J) dell’Università di Bari e membro del Comitato Scientifico FIRA (Fondazione Italiana per la Ricerca in Reumatologia), ha pubblicato di recente uno studio sulla malattia di Behçet, una patologia reumatologica complessa che colpisce vari organi, causando ulcere orali e genitali dolorose, oltre a manifestazioni articolari. La ricerca, condotta in sette centri specializzati in Italia e Spagna, ha messo a confronto due trattamenti (gli inibitori del fattore TNF e un altro farmaco) già noti per la cura della psoriasi e dell’artrite psoriasica, per comprendere in quali casi è meglio utilizzarli in corso di malattia di Behçet.
Quella di Behçet è una malattia infiammatoria cronica che colpisce diversi organi ed apparati, anche non contemporaneamente nel tempo. A causa delle sue manifestazioni spesso poco specifiche e dell'assenza di marcatori biologici utili per supportare la diagnosi, nel corso degli anni è stata classificata in modi diversi e ad oggi risulta classificata tra le vasculiti sistemiche, cioè malattie infiammatorie dei vasi sanguigni. La patologia può coinvolgere diversi organi e tessuti in tutto il corpo, causando una vasta gamma di sintomi, tra cui ulcere orali e genitali, lesioni cutanee, dolore e infiammazione articolare ed infiammazione oculare denominata uveite. Si tratta di una malattia rara (in Italia 1 caso per 100.000 abitanti), che si manifesta tipicamente tra i 20 e i 40 anni, più raramente compare anche in età pediatrica o più avanzata, ed è leggermente più comune negli uomini.
La causa esatta della malattia di Behçet non è ancora del tutto chiara. Si ritiene che un’interazione tra fattori genetici e ambientali possa scatenare una risposta immunitaria anomala, con conseguente infiammazione cronica. Attualmente, non è disponibile una cura definitiva, ma i trattamenti consentono di ridurre i sintomi e prevenire le complicanze, grazie all’utilizzo di farmaci antinfiammatori e corticosteroidi, immunosoppressori e biologici (come gli inibitori del TNF) e inibitori della fosfodiesterasi 4 PDE-4 (apremilast).
Lo studio ha coinvolto 78 pazienti con ulcere orali resistenti ai trattamenti tradizionali. I risultati sono incoraggianti: sia gli inibitori del TNF che apremilast si sono dimostrati altamente efficaci nel ridurre le ulcere orali già dopo tre mesi, migliorando significativamente la qualità della vita dei pazienti. Dal confronto sono emersi alcuni dati utili:
- TNF-inibitori: Ideali per i casi più gravi, questi farmaci si sono dimostrati più efficaci nel trattare manifestazioni articolari e altre complicazioni sistemiche come uveite ed interessamento vascolare.
- Apremilast: adatto per i pazienti con forme più lievi della malattia, ha un effetto positivo nel ridurre l’uso di corticosteroidi, noti per i loro effetti collaterali a lungo termine. Tuttavia, il farmaco ha registrato un tasso di interruzione più alto, principalmente a causa di effetti gastrointestinali.
“Questo studio rappresenta un passo importante verso la personalizzazione delle cure per la malattia di Behçet”, spiega il prof. Lopalco. “Grazie a queste nuove evidenze, i medici possono ora scegliere il trattamento più adatto alle caratteristiche specifiche di ogni paziente, migliorando l’efficacia terapeutica e riducendo gli effetti collaterali.” La ricerca ha evidenziato altresì l’importanza di continuare a sviluppare approcci terapeutici più mirati. “Ogni paziente è unico, e con il giusto trattamento possiamo davvero fare la differenza. Sono stati pubblicati i primi studi, per esempio, al momento su coorti di piccoli gruppi, su un possibile contributo dei farmaci JAK-inibitori già approvati per il trattamento delle artriti (reumatoide, psoriasica e spondiloartrite) e che sembrano indicare una loro efficacia, ma che devono essere sviluppati e ampliati ulteriormente per comprendere se potranno in alcuni casi rappresentare una nuova opzione terapeutica” conclude Lopalco.
“Negli ultimi quindici anni i nuovi trattamenti a disposizione per le malattie reumatologiche ci hanno consentito di compiere decisivi passi avanti, superando quella che un tempo era spesso un’inevitabile progressione verso l’invalidità e raggiungendo una buona qualità di vita. Ma questo non può bastare” sottolinea il prof. Carlomaurizio Montecucco, presidente di FIRA. “Comprendere sempre meglio le cause delle patologie e i loro meccanismi d’azione può consentire un approccio di maggior precisione, sempre più efficace. Perciò la ricerca scientifica continua e si pone sfide sempre più alte, che abbiamo l’ambizione di superare per migliorare la vita di sempre più pazienti".