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di Rossella Gemma

L’Agenzia Italiana del Farmaco ha pubblicato l’undicesimo Rapporto di farmacovigilanza sui vaccini anti-COVID-19. I dati raccolti e analizzati riguardano le segnalazioni di sospetta reazione avversa registrate nella Rete Nazionale di Farmacovigilanza tra il 27 dicembre 2020 e il 26 marzo 2022 per i cinque vaccini in uso nella campagna vaccinale in corso.

Nel periodo tra il 27 dicembre 2020 e il 26 marzo 2022  sono pervenute all’Aifa 134.361 segnalazioni di reazioni avverse ai 5 vaccini Covid su un totale di 135.849.988 dosi somministrate (tasso di segnalazione di 99 ogni 100.000 dosi), di cui l’82,1% riferite a eventi non gravi, come dolore in sede di iniezione, febbre, astenia/stanchezza, dolori muscolari. Sono i dati contenuti nell’undicesimo Rapporto di farmacovigilanza sui vaccini anti-COVID-19.  

I tassi di segnalazione relativi alla seconda dose sono inferiori a quelli relativi alla prima e ancora più bassi per la terza dose. La popolazione esposta alla quarta dose è ancora limitata. Le segnalazioni gravi corrispondono al 17,8% del totale, con un tasso di 18 eventi gravi ogni 100.000 dosi somministrate. Come riportato nei precedenti Rapporti, indipendentemente dal vaccino, dalla dose e dalla tipologia di evento, la reazione si è verificata nella maggior parte dei casi (72% circa) nella stessa giornata della vaccinazione o il giorno successivo e solo più raramente oltre le 48 ore.

Comirnaty è il vaccino attualmente più utilizzato nella campagna vaccinale italiana (65,2%), seguito da Spikevax (24,7%), Vaxzevria (9,0%), COVID-19 Vaccino Janssen (1,1%) e Nuvaxovid (0,02%), in uso dal 28 febbraio 2022. La distribuzione delle segnalazioni per tipologia di vaccino ricalca quella evidenziata nei precedenti Rapporti: Comirnaty 66,5%, Vaxzevria 17,7%, Spikevax 14,5%, COVID-19 vaccino Janssen 1,3%, Nuvaxovid 0,03%.

Per tutti i vaccini, gli eventi avversi più segnalati sono febbre, stanchezza, cefalea, dolori muscolari/articolari, brividi, disturbi gastro-intestinali, reazioni vegetative, stanchezza, reazione locale o dolore in sede di iniezione.

Nella fascia di età 5-11 anni, al 26/03/2022 risultano inserite complessivamente 439 segnalazioni (circa lo 0,3% delle segnalazioni totali) per il vaccino Comirnaty, l’unico attualmente utilizzato in questa fascia di età, con un tasso di segnalazione di circa 21 casi ogni 100.000 dosi. Gli eventi avversi più frequentemente segnalati sono stati dolore in sede di iniezione, cefalea, febbre e stanchezza. La quasi totalità di queste segnalazioni è attribuita alla prima dose.

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di Rossella Gemma

In occasione della Giornata Mondiale della Malattia di Parkinson che si è celebrata l'11 aprile, la Società Italiana di Neurologia (SIN) ribadisce l’importanza della diagnosi precoce per intervenire tempestivamente con una terapia mirata. Sempre più fondamentale, infatti, è diagnosticare la Malattia di Parkinson nella fase pre-sintomatica prestando attenzione alle manifestazioni cliniche non specifiche, la cui presenza aiuta ad identificare i soggetti a rischio di sviluppare la malattia. I sintomi non-motori più importanti nella fase pre-sintomatica sono il deficit olfattivo (ipo o anosmia), la depressione, dolori alle articolazioni, e, soprattutto, il disturbo comportamentale durante il sonno REM (Rapid eye movement Behavioural Disorder, RBD), caratterizzato da comportamenti anche violenti durante il sonno, quali urlare, scalciare, tirare pugni. L’RBD rappresenta, al momento, uno dei marker predittivi più importanti della malattia di Parkinson: circa il 60% dei pazienti con disturbo comportamentale in sonno REM, infatti, sviluppa la malattia di Parkinson entro 10-12 anni.

La Malattia di Parkinson è una malattia neurologica che colpisce oggi 5 milioni di persone nel mondo, di cui circa 400.000 solo in Italia, e che si manifesta in media intorno ai 60 anni di età. Si stima che questo numero sia destinato ad aumentare nel nostro Paese e che nei prossimi 15 anni saranno 6.000 i nuovi casi ogni anno, di cui la metà colpiti in età lavorativa.

Anche per la malattia di Parkinson, dunque, il fattore tempo è importante, basti pensare che già al momento dell’esordio dei primi disturbi motori tipici della malattia, come lentezza dei movimenti e tremore a riposo, la Malattia di Parkinson è in una fase già avanzata, poiché, in questo stadio, almeno il 60% delle cellule dopaminergiche del cervello sono già degenerate.

“Iniziare il trattamento   in una fase precoce di malattia o meglio ancora nella fase pre-sintomatica - dichiara il Prof. Alfredo Berardelli, Presidente della SIN e Ordinario di Neurologia presso La Sapienza Università di Roma -è importante sia per controllare i sintomi che per rallentare l’evoluzione della malattia stessa. In queste fasi, infatti, i farmaci dopaminergici o farmaci neuroprotettivi (attualmente in studio) potrebbero davvero modificarne il decorso”.

La diagnosi della malattia è essenzialmente clinica e si basa sui sintomi presentati dal paziente. Gli esami strumentali come la risonanza magnetica dell’encefalo possono contribuire a escludere quelle malattie che hanno sintomi analoghi al Parkinson. La conferma della diagnosi può arrivare da esami specifici come la SPECT (Tomografia Computerizzata ad Emissione Singola di Fotoni). Nelle fasi già iniziali di malattia è possibile ora dimostrare la presenza della alfa-sinucleina, proteina che si accumula in modo abnorme in tale malattia, e che può essere dosata nei liquidi biologici e fra questi anche nella saliva.

Per ciò che riguarda le possibilità terapeutiche, invece, si è visto che per alcuni pazienti con tremore è possibile utilizzare oggi gli ultrasuoni focalizzati sotto guida della Risonanza Magnetica in grado di determinare una lesione di una piccolissima parte di tessuto cerebrale, il talamo, riducendo da subito i tremori e con una efficacia che si mantiene a lungo. La durata del trattamento è di circa 3 ore e si caratterizza per una scarsa invasività.

 Recenti studi scientifici hanno confermato la grande efficacia della Deep Brain Stimulation in associazione ai farmaci, una combinazione che è superiore ai farmaci da soli. Peraltro le recenti linee guida hanno anticipato l’impiego della DBS in pazienti più giovani. Nuove metodiche di stimolazione profonda sono inoltre all’orizzonte (ad esempio la DBS adattativa). Infine, un adeguato stile di vita è importante per rallentare la progressione di malattia.

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di Rossella Gemma

Prudenza sì, ma non allarme. La Società Italiana di Medicina Interna (SIMI) interviene in merito ai risultati di uno studio osservazionale danese, coordinato dalla Stanford University School of Medicine e pubblicato su Annals of Internal Medicine, secondo cui gli uomini che assumono metformina nei tre mesi prima del concepimento, avrebbero un aumento del 40 per cento del rischio di avere figli con difetti congeniti a carico della sfera genitale. Un allarme non da poco se si considera che la metformina è uno dei farmaci più utilizzati per il diabete tipo 2, indicato come prima scelta in tutte le linee guida nazionali e internazionali. Ma è un allarme veramente giustificato? “Questo studio – commenta il professor Giorgio Sesti, presidente della Società Italiana di Medicina Interna SIMI – ricorda molto una storia di qualche anno fa, su un allarme per l’insulina glargine che sembrava essere associata ad un aumentato rischio di tumore, salvo poi essere totalmente smentita in trial randomizzati e in altri studi osservazionali. È bene ricordare sempre che i risultati degli studi osservazionali possono essere inquinati da una serie di fattori confondenti e che non indicano pertanto mai un rapporto certo di causa-effetto”.

La ricerca è stata condotta in Danimarca utilizzando i dati dei registri nazionali relativi a oltre 1 milione di nati tra il 1997 e il 2016; tra questa ingente mole di dati, gli autori dello studio sono andati a fare un confronto tra i padri a cui era stata prescritta terapia con metformina e quelli in terapia con altri anti-diabetici(i padri erano tutti under 40, mentre le madri erano tutte under 35) alla ricerca di differenze nella presenza di difetti congeniti nei figli. Il periodo dei tre mesi non è stato scelto a caso, perché è il tempo che il seme impiega a maturare. I risultati dello studio indicano che la frequenza dei difetti genitali congeniti nei bambini nati da padri in terapia con metformina nei tre mesi precedenti il concepimento era del 4,6%, contro il 3,1% (insomma una differenza del 40%) nei figli di padri diabetici in terapia con altri farmaci; questo sbilanciamento non si evidenziava nei padri che avevano sospeso la metformina tre mesi prima il concepimento, né in quelli a cui era stata prescritta dopo la finestra dei tre mesi necessaria alla maturazione degli spermatozoi. I difetti congeniti che mostravano una differenza statisticamente significativa erano solo quelli a carico dei genitali esterni nei maschietti. Una possibile ipotesi, tutta però da verificare in studi caso-controllo futuri, potrebbe essere un’alterazione dei livelli di testosterone, possibilmente indotta da terapia anti-diabetiche orali.

“Un adeguato counselling pre-concepimento con il medico – continua Giorgio Sesti - è sempre indicato nel caso del diabete, per la madre e per il padre, soprattutto se il compenso glicemico non fosse ottimale e nel caso in cui si assumano dei farmaci. Va ribadito tuttavia che questo studio è di tipo osservazionale e dunque indica solo la presenza di un’associazione, ma non un rapporto di causa-effetto. Ciò significa che a determinare questa differenza potrebbero aver contribuito una serie di altri fattori”.

Tuttavia, per la SIMI quello evidenziato dallo studio danese è un fenomeno di cui tener conto, anche alla luce del fatto che l’età alla diagnosi di diabete tipo 2, un tempo chiamato dell’adulto (o addirittura dell’anziano) si va abbassando sempre più a causa della pandemia di obesità, che è il maggior determinante appunto della comparsa di diabete tipo 2.

 

 

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di Rossella Gemma

Con 282 mila casi registrati la scorsa settimana, continua la risalita della curva dell'influenza che ha raggiunto un'incidenza pari a 4,76 casi per mille abitanti. È ai massimi dall'inizio della stagione anche il numero di campioni positivi per virus influenzali, che supera il 30%. Sono questi i dati salienti dell'ultimo rapporto del sistema di sorveglianza InfluNet dell'Istituto Superiore di Sanità.
Il rapporto fotografa una stagione influenzale anomala: dopo un calo consistente dei casi iniziato nella terza settimana dell'anno, dall'inizio di marzo si è osservata una ripresa dei nuovi casi di sindromi simil-influenzali che, al momento, non sembra arrestarsi. Fino a oggi sono complessivamente 5 milioni gli italiani messi a letto dall'influenza.
La ripresa dei contagi, come avvenuto dall'inizio della stagione, è trainata daibambini con meno di 5 anni: in questa fascia di età nella settimana dal 14 al 20 marzo è stato registrato un'incidenza di 14,82 casi per mille (la scorsa settimana era pari a 11,82). L'incidenza è però in crescita anche nelle altre fasce di età: 6,94 casi per mille nella classe 5-14 anni (rispetto ai 5,06 della settimana precedente); 4,45 nella fascia 15-64 (rispetto a 3,62); 1,77 negli over-65 (rispetto a 1,55).
Salvo che in Basilicata e Sardegna, i casi di sindromi simil-influenzali sono in risalita in tutto il Paese: in Piemonte l'incidenza ha raggiunto gli 8,54 casi per mille contro i 6,40 della scorsa settimana, in Lombardia i 6,15 (contro 5,10), nella provincia autonoma di Bolzano 4,70 (contro 2,09), in Friuli Venezia Giulia 4,87 (contro 1,41), in Liguria 5,38 (contro 4,48), in Emilia Romagna 6,78 (4,86), in Toscana 3,93 (contro 3,04), in Umbria 13,50 (contro 12,09), nelle Marche 9,30 (contro 5,82), in Abruzzo 5,57 (rispetto a 4,55), in Puglia 4,33 (3,96), in Sicilia 4,99(contro 3,84). Seppur in risalita, restano sotto la soglia basale di 3,16 casi per mille Veneto, Lazio, Molise, Campania e provincia autonoma di Trento. Valle d'Aosta e Calabria non hanno attivato la sorveglianza InfluNet.
Continua a salire anche la percentuale di campioni positivi ai virus influenzali: nella scorsa settimana dei 741 campioni analizzati dai laboratori afferenti alla rete InfluNet, il 32% conteneva virus influenzali, tutti di tipo A. Erano il 25% la settimana scorsa e meno del 2% nelle settimane precedenti.

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di Rossella Gemma

Benché una donna su 2 affermi di essere entrata in menopausa con semplicità e con un adeguato supporto medico, il 37 per cento racconta di aver avuto un impatto decisamente negativo e di essersi sentita sola nell’affrontare questa fase della vita e poco seguita a livello medico. Inoltre, più del 50 per cento delle donne in climaterio lamenta sintomi come mal di testa, disturbi del sonno e stanchezza, mentre più di 1 donna in menopausa su 2 soffre in maniera moderata o grave di diminuzione del desiderio e del piacere sessuale, aumento di peso, dolori articolari e muscolari, vampate di calore e sudorazione. Sono alcuni dei risultati dell’indagine di Fondazione Onda, Osservatorio nazionale sulla salute della donna e di genere “La menopausa nella vita delle donne”, realizzata dall’Istituto di ricerca Elma Research con il contributo incondizionato di Theramex, allo scopo di sondare la percezione e i vissuti che le donne italiane associano alla menopausa, esplorando le aspettative e i timori generati da questa delicata fase della vita della donna. L’indagine è stata realizzata su un campione di 315 donne in età compresa tra 44 e 65 anni, tramite interviste CAWI della durata di 15 minuti. Quasi la metà delle donne in questa fase non ricorre ad alcun rimedio per farvi fronte, facendo al massimo uso di integratori alimentari (27 per cento) e prodotti erboristici (17 per cento); solo il 5 per cento è ricorso a terapia ormonale sostitutiva (TOS).

Nonostante l’80 per cento delle donne abbia sentito parlare della TOS e una su 2 la percepisca come una terapia di supporto per la menopausa, esistono ancora delle forti barriere: la menopausa viene considerata, infatti, come una fase naturale della vita (43 per cento) in cui non è necessario prendere farmaci se non indispensabili (48 per cento), perché si ha timore anche di possibili effetti collaterali (35 per cento).

Dall’indagine è emerso, inoltre, che l’84 per cento delle donne italiane ritiene di avere un livello di informazione medio-alto sul tema della menopausa. Le principali fonti di informazioni sono rappresentate da amiche e familiari (71 per cento) e dalle figure professionali, ginecologo (67 per cento) e medico di medicina generale (36 per cento), e da siti internet (53 per cento). In particolare, le donne si rivolgono al medico soprattutto quando si avvicinano al periodo di ingresso in menopausa e principalmente per parlare dell’impatto che avrà sul benessere fisico (67 per cento) e delle terapie e i rimedi per ridurne i sintomi (68 per cento).

“Nonostante le donne dichiarino di essere bene informate sulla menopausa e sulle terapie che possono ridurre la sintomatologia soprattutto per coloro che sono particolarmente sensibili al calo ormonale, l’indagine ha evidenziato numerose barriere culturali che rendono più difficile affrontare questo momento particolare della vita della donna”, spiega Francesca Merzagora, Presidente Fondazione Onda. “Per questo è indispensabile supportare le donne con un’informazione adeguata su cosa dovranno aspettarsi dalla menopausa e anche su come potervi fare fronte per viverla al meglio. Il ginecologo e il medico di medicina generale hanno un ruolo fondamentale sia nel poter fornire un’informazione che sia chiara e non allarmistica sia nel favorire l’accesso alla terapia ormonale sostitutiva che, secondo l’indagine, viene proposta a 1 donna su 4”.

“È confortante che la metà delle donne italiane entrino in menopausa con naturalezza, ma è un peccato rilevare che tante altre soffrono di sintomi invalidanti senza un aiuto davvero efficace da parte del medico”, commenta Rossella Nappi, Professore di Ginecologia e Ostetricia e responsabile del centro della Menopausa ad alta complessità dell’IRCCS Policlinico San Matteo - Università degli Studi di Pavia. “La ricerca ci sta mettendo a disposizione terapie molto sicure, a base di ormoni identici a quelli che la donna aveva prima di entrare in menopausa, per contrastare al meglio vampate, sudorazioni notturne e disturbi del sonno che hanno un impatto notevole sulla vita quotidiana ed il senso di benessere. In particolare, è importante sapere che oggi è possibile personalizzare il tipo e la durata della terapia per ridurre al minimo gli eventuali rischi che sono stati notevolmente ridimensionati da studi recenti ed ottenere numerosi benefici preventivi sul versante osseo, cardiovascolare e cognitivo in tutte le donne, soprattutto se in menopausa prima dei 50 anni”.

“L’arrivo della menopausa rappresenta un momento particolarmente delicato per le notevoli modificazioni fisiche e psicologiche ad essa correlate”, sostiene Maria Grazia Carbonelli, Direttore UO Dietologia e Nutrizione, Azienda Ospedaliera San Camillo Forlanini, Roma.  “Uno stile di vita sano con una corretta alimentazione ed una regolare attività fisica aiutano ad evitare le principali conseguenze nutrizionali legate alla menopausa. Le variazioni di peso, l’aumento del grasso viscerale con ripercussioni sulla glicemia e sul colesterolo, la ritenzione idrica, la stanchezza muscolare, l’osteoporosi sono condizioni che possono avvalersi di una adeguata dietoterapia ed eventuale supplementazione con prodotti specifici per affrontare la menopausa al meglio. Consultare anche un medico dietologo oltre al ginecologo favorisce un approccio completo per la salute della donna in questa fase della vita”.

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di Rossella Gemma

La pandemia ha modificato in peggio gli stili di vita degli italiani, riducendo controlli e monitoraggi soprattutto in campo cardiovascolare. Diversi studi hanno, anche, riscontrato un incremento delle patologie cardiovascolari proprio in coloro che hanno avuto il Covid-19. E sebbene il 2021 abbia mostrato una ripresa dei controlli cardiovascolari rispetto al 2020, si rimane ancora al di sotto delle performance del 2019. A lanciare l’allarme è la Società Italiana per la Prevenzione Cardiovascolare (SIPREC), che promuove e organizza, per il prossimo 13 maggio, la Seconda Giornata Italiana per la Prevenzione Cardiovascolare.

“La frenata imposta dal Covid-19 ha avuto gravi conseguenze - sottolinea Massimo Volpe, Presidente SIPREC - I dati del 2021, ancora provvisori, mostrano già una riduzione delle prestazioni cardiologiche di circa il 20%. Anche l’impiego di molti farmaci cardiovascolari, come si evince da numerose analisi, ha mostrato una stazionarietà o un arretramento. Ma l’elemento a cui bisogna prestare maggiore attenzione è che nei soggetti colpiti dal Covid si è riscontrato un aumento del 20-25% di tutte le malattie cardiovascolari, come aritmie, infiammazioni di miocardio e pericardio, cardiopatia ischemica, ictus cerebrale, malattie a carattere trombo-embolico. Questo è stato riassunto molto bene in un articolo pubblicato recentemente su Nature Medicine con dati molto solidi ottenuti negli Stati Uniti: l’evidenza emerge sia su una popolazione coeva senza infezione da Covid che in rapporto a una popolazione del 2017 analoga per caratteristiche. Questo aumento del 22-23% riconducibile al Covid è trasversale ed è destinato a differenziare sia chi ha avuto il Covid da chi non lo ha avuto che questa epoca da quella precedente”.

Secondo la SIPREC in ambito di prevenzione cardiovascolare vi sono tre priorità emergenti da cui è necessario ripartire. “Anzitutto – evidenzia Volpe – si deve attribuire maggiore importanza a sovrappeso e obesità nella determinazione delle malattie cardiovascolari, fattori di rischio finora sottovalutati, tanto che il Documento che la SIPREC presenterà in occasione della Giornata verterà proprio su questo. Un secondo elemento è l’aderenza, non solo alle terapie, ma anche allo stile di vita: se non si convincono le persone che è necessario mantenere un’alimentazione corretta e varia, non fumare, fare attività fisica, si rischiano grandi danni. Proprio su questo punta la Giornata, che si rivolge sia alla classe medica che agli individui sani che nel corso della loro vita rischiano una di queste patologie, che restano la prima causa di ospedalizzazione. Il terzo punto è quello delle vaccinazioni, finora mai sufficientemente considerate come interventi di prevenzione cardiovascolare: tuttavia, sia quella antinfluenzale che quella contro il Covid si sono rivelate importanti per ridurre l’impatto su affezioni del cuore e dei vasi a carattere trombotico, tromboembolico o infiammatorio”.

Tra gli insegnamenti tratti dalla pandemia vi è l’uso delle nuove tecnologie, che proprio nella prevenzione cardiovascolare propongono alcune importanti potenzialità. “La telemedicina permette di controllare a distanza parametri come la pressione arteriosa o i principali esami di laboratorio che condizionano le malattie cardiovascolari, come la glicemia nel diabete o ipercolesterolemia e ipertrigliceridemia nelle malattie a carattere aterosclerotico, o ancora gli stili di vita del paziente che possono essere influenzati” conclude Volpe.

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di Rossella Gemma

Oltre il rischio di mortalità, i conflitti armati hanno gravi conseguenze sulla salute mentale dei minori. Non solo per bambini e adolescenti direttamente coinvolti nella tragedia della guerra in Ucraina, come in altre parti del pianeta, ma anche per quelli italiani e di tutto il mondo, già provati duramente dagli effetti della Pandemia. 

La SINPIA – Società Italiana di Neuropsichiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza, esprime profonda preoccupazione per gli effetti della guerra in Ucraina sulla salute fisica, mentale e sociale dei soggetti più fragili come sono i bambini e gli adolescenti, ancora di più se affetti da qualunque tipo di disabilità. “Essi sono fortemente vulnerabili allo stress e con minori capacità di adattamento ai traumi, con conseguenze devastanti sul loro sviluppo e quindi sul loro futuro che è il futuro del mondo”, spiega la Prof.ssa Elisa Fazzi, Presidente della SINPIA e direttore della U.O. Neuropsichiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza ASST Spedali Civili e Università di Brescia.

“È con infinito sconforto, incredulità e dolore - continua - che siamo testimoni, dopo due anni di Pandemia che ha duramente provato tutta la comunità mondiale ed in modo specifico la salute mentale dei bambini e degli adolescenti, del palesarsi dei venti di guerra nel continente europeo con uno scenario che non ci saremmo mai aspettati di rivedere dopo la Seconda Guerra Mondiale. Non pensavamo che ciò sarebbe mai accaduto di nuovo in Europa”.

La guerra arriva in un momento già critico per il benessere dei soggetti più fragili. Secondo i dati di un ampio studio internazionale sull’impatto della Pandemia sulla salute mentale e fisica di bambini e adolescenti recentemente presentato al Congresso SINPIA, il benessere psichico dei minori è diminuito di più del 10% a livello globale, con il raddoppio dei bambini con bisogno di supporto specialistico, e con un aumento di rabbia, noia, difficoltà di concentrazione, senso di solitudine e di impotenza, stress, disturbi del sonno.

A questo scenario ora si aggiungono le conseguenze della guerra scoppiata in Europa. La letteratura medica riporta numerosi studi sulle conseguenze dei conflitti armati sugli individui in età evolutiva, come ad esempio un più elevato rischio di nascita prematura ed un incremento di mortalità infantile e l’aumento del numero di bambini orfani. “Durante l’infanzia e l’adolescenza viene segnalata una più alta incidenza di disturbi d’ansia e dell’umore, con evoluzione, nel 30-40% dei casi, in un disturbo post-traumatico da stress. Tale condizione psicopatologica determina un’importante compromissione della salute psichica anche in età adulta”, spiega il professor Alessandro Zuddas, Vicepresidente SINPIA e Direttore della UO dell’Infanzia e dell’Adolescenza dell’Ospedale A Cao – Università di Cagliari.

Recenti ricerche evidenziano inoltre come le conseguenze psichiche della guerra perdurino nelle generazioni successive, determinando ripercussioni negative transgenerazionali sulla salute mentale. Questo vale per i bambini dei Paesi dove la guerra c’è, ma vale in qualche misura anche per i bambini che la guerra la vedono alla televisione o attraverso i racconti degli adulti.

Per la SINPIA, così come a livello europeo per la ESCAP - European Society for Child and Adolescent Psychiatry di cui fanno parte molti specialisti anche ucraini e russi, il primo obiettivo deve essere quello di tutelare al massimo la salute psicofisica di ogni bambino e adolescente e quindi di ogni essere umano, per consentire ai bambini e ai ragazzi italiani, europei, ma anche di tutto il mondo, di crescere al sicuro dalle minacce e dalle conseguenze dei conflitti armati.

“In questo tempo di grande incertezza - spiega la Dott.ssa Antonella Costantino, Past President della SINPIA e Direttore dell'Unità Operativa di Neuropsichiatria dell'Infanzia e dell’Adolescenza (UONPIA) della Fondazione IRCCS «Ca' Granda» Ospedale Maggiore Policlinico di Milano - è indispensabile fare tutto il possibile per proteggere i nostri ragazzi, chiedendo a gran voce di cessare la guerra, ogni guerra. Sfortunatamente, questa guerra aggiungerà molti altri al numero di bambini che subiranno lesioni potenzialmente letali o causa di disabilità future, così come traumi che comprometteranno la loro salute mentale”. 

Un pensiero anticipatorio va rivolto anche a quanto sta già accadendo in tutti i Paesi europei, compreso il nostro, con l’aumento dell’arrivo di bambini profughi e/o orfani provenienti dalle zone coinvolte nel conflitto. Bambini traumatizzati cui è stato negato il futuro e che rischiano di essere ulteriormente traumatizzati da sistemi di accoglienza inadatti. Bambini che incontreranno altri bambini, i nostri figli, che pure si interrogheranno sul perché di questa tragedia e su come saremo capaci di dare risposte. A tutti dovremo pensare e a tutti dovremo insegnare come vivere in pace.

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di Rossella Gemma

"Il sostegno a chi vive sulla propria pelle la difficoltà delle malattie rare, deve essere fortissimo, perché dà il senso di quale sia l'impianto più profondo della nostra umanità di Servizio sanitario nazionale. Cioè l'idea che se una persona sta male va curata. Non può fare la differenza se si tratta di un male che tocca milioni e milioni di persone o un male che tocca un numero più basso, come avviene appunto per le malattie rare". Così il ministro della Salute, Roberto Speranza, nel videomessaggio inviato per l'evento organizzato da Uniamo, la Federazione italiana malattie rare, '15 anni di Rare Disease Day - Rari, mai soli', in occasione della Giornata internazionale delle malattie rare.

La giornata del 28 febbraio come ogni anno, è stata dedicata all'informazione e alla sensibilizzazione sulle oltre 6000 patologie definite orfane, poiché spesso prive di terapie e di un'adeguata organizzazione assistenziale.
Nell'80% dei casi, le malattie rare sono di origine genetica, e in oltre la metà dei casi colpiscono il sistema nervoso centrale eo periferico, isolato o in combinazione con altri organi. Pertanto, la Neurologia rappresenta una branca cruciale per la gestione diagnostica, terapeutica assistenziale nella maggior parte delle patologie rare. "Il 25% dei pazienti rari nel nostro Paese attende da 5 a 30 anni per ricevere conferma di una diagnosi - commenta il Prof. Alfredo Berardelli, Presidente della Società Italiana di Neurologia - 1 su 3 è costretto a spostarsi in un'altra Regione per ricevere quella esatta. Convivere con una patologia rara rappresenta ogni giorno una sfida ed è quindi fondamentale ricevere il sostegno della propria comunità scientifica, soprattutto nel difficile passaggio del paziente dall'età pediatrica a quella adulta che può provocare senso di sconforto e smarrimento nei giovani pazienti e nelle loro famiglie. Un grosso passo in avanti per combattere le diseguaglianze legislative, geografiche e di percorsi assistenziali in Italia è stato di recente compiuto con l'approvazione nel novembre 2021 della legge nota come "Testo Unico sulle Malattie Rare".

L'anno appena trascorso ha visto poi l'avvento dei vaccini contro SARS-CoV2, vaccini che si sono rivelati efficaci e sicuri anche nella stragrande maggioranza dei pazienti affetti da malattia rara, e sicuramente in tutti i pazienti con malattia neurologica rara. In questo ambito la SIN si è impegnata in campagna informative riguardanti la sicurezza della vaccinazione formulando numerosi documenti ad hoc su specifiche malattie rare e promuovendoli anche attraverso i canali social.

Stando a dati del Registro Nazionale Malattie Rare dell'Istituto Superiore di Sanità, ogni anno sono diagnosticati in media 20.000 nuovi casi di malattie endocrine rare prevalentemente in età pediatrica. L'Italia è al primo posto in Europa per numero di centri di eccellenza nella cura delle malattie rare endocrine, afferenti all'Endocrine European Reference Network (ENDO-ERN), una rete virtuale specializzata di strutture di elevata complessità e competenza per le malattie rare istituita nel 2017 e appena ampliata, a gennaio 2022. Con l'ingresso di 10 nuovi centri l'Italia fa un balzo in avanti per numero di strutture che raddoppiano in 5 anni passando a 20 su un totale di 111 centri presenti in tutta Europa. Così oggi il nostro Paese è il primo nella UE per numero di strutture e anche per rappresentanza delle Associazioni di pazienti. Grazie all'alleanza tra gli specialisti della Società Italiana di Endocrinologia (SIE) e della Società Italiana di Endocrinologia e Diabetologia Pediatrica (SIEDP) presenti nei centri, queste strutture sono un punto di riferimento per tutti i pazienti fin dalla più tenera età e riducono la mobilità nazionale e internazionale dei malati rari.

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di Rossella Gemma

A livello nazionale, per la prima volta nella storia, nel 2021 l’Italia è scesa al di sotto dei 400mila bambini nati in un anno. Il dato arriva dal presidente della Società italiana di neonatologia (Sin), Luigi Orfeo, che all'Adnkronos Salute precisa come sebbene il dato non sia ancora definitivo, “di sicuro siamo tra i 380 e 390mila. Questo perché - sottolinea l'esperto - naturalmente il Covid ha aggiunto alle incertezze economiche degli ultimi anni anche un'incertezza sanitaria che sicuramente non ha contribuito a far sì che le coppie potessero programmare un futuro e quindi anche un bambino". Più blando invece l'impatto sanitario della pandemia sulle nascite. "Fortunatamente dal punto di vista delle infezioni neonatali da Covid - afferma Orfeo - le cose sono andate decisamente meglio. Noi come Società italiana di neonatologia abbiamo un registro in cui vengono inseriti i dati dei bambini Covid e pur avendo visto un aumento di positivi da madri con Covid in gravidanza soprattutto nei mesi di dicembre e di gennaio, quando abbiamo registrato un picco davvero molto elevato, in proporzione il numero di bambini che si sono infettati è sempre rimasto molto basso: 1,6% dei neonati con tampone positivo alla nascita e un altro 2,6% con tampone positivo dopo le 48 ore di vita. Una quota minima - sottolinea Orfeo - che è rimasta costante in tutte le ondate epidemiche". Tra questi "tutti i neonati sostanzialmente asintomatici o pauci sintomatici e nessun neonato grave. Quindi non c'è stata un'incidenza importante sulla mortalità neonatale per il Covid, fortunatamente i neonati sono stati risparmiati".

 C'è stato però un problema legato alla positività al virus di molte mamme. "Sono aumentati nei figli delle madri Covid-positive il numero delle nascite premature. Se nella popolazione generale i prematuri sono tra il 6,5% e il 7%, tra i figli di madri Covid-positive hanno raggiunto il 12%, quindi sostanzialmente il doppio perché da un lato l'infezione in gravidanza aumenta tutti i rischi di quelle patologie che possono condurre a un parto prematuro e dall'altro perché nei casi più gravi di Covid è stato necessario indurre il parto prematuramente per poter curare la madre". E sono ancora tante le donne in gravidanza non vaccinate. "Purtroppo è un problema in questo momento - sottolinea Orfeo - Probabilmente c'è stato un difetto di comunicazione nelle prime fasi, però già da giugno e ancor di più da settembre tutte le società scientifiche di area ostetrica, di neonatologia insieme all'Istituto superiore di sanità hanno raccomandato la vaccinazione in gravidanza nel secondo e nel terzo trimestre. Ma noi vediamo ancora oggi donne che hanno cominciato la gravidanza prima dell'estate, quindi in un momento in cui - sottolinea il medico - non c'erano state ancora delle indicazioni precise. Di fronte a una comunicazione che è stata un po' incerta, chiaramente hanno avuto timore e questo, anche a causa della contagiosità della variante Omicron, ha portato a un incremento di casi. Però fortunatamente - conclude - con conseguenze sui neonati veramente minime".

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di Rossella Gemma

“Negli ultimi anni abbiamo assistito ad un netto incremento delle richieste di esami cardioradiologici, TC ed RM, per pazienti ricoverati ed ambulatoriali; tale incremento è dovuto all'inserimento nelle linee guida cardiologiche nazionali ed internazionali dell'imaging non invasivo sia per lo studio della cardiopatia ischemica sia non ischemica. Relativamente all'esperienza del presidio Molinette dell'AOU Città della Salute e della Scienza di Torino, nel triennio 2017-2019 è evidenziabile un tangibile incremento nelle prestazioni cardioradiologiche eseguite e, in particolare, la TC coronarica ha subito un incremento costante del 70% nel 2018 e del 58% nel 2019”. 

Dati alla mano, Riccardo Faletti, Professore Dipartimento Scienze Chirurgiche - Diagnostica per immagini Università degli Studi di Torino, illustra un quadro che nel corso del tempo è cambiato, mettendo in luce allo stesso tempo la necessità di un adeguamento delle risorse tecnologiche e delle competenze professionali. L’occasione è la Winter School 2022 di Pollenzo, dal titolo ‘Oltre la logica dei silos per un’offerta integrata di salute’, organizzata da Motore Sanità, in collaborazione con l’Università degli Studi di Scienze Gastronomiche, evento di alto profilo in ambito sanitario, promosso e divulgato da Mondosanità e da Dentro la Salute, nella sessione “Cronicità e approccio integrato: le sfide per una filiera dell’offerta di diagnosi, azioni, controllo e formazione tecnologica - Le malattie cardiovascolari: bisogni irrisolti, che cosa curare a livello territoriale e con quali supporti tecnologici ed informatici”. 
“L’elevato valore predittivo negativo (prossimo al 95%) della TC coronarica consente di escludere in tempi rapidi la patologia coronarica significativa nei pazienti a rischio basso, evitando di dover ricorrere alla coronarografia che, per costi ed invasività, non dovrebbe essere eseguita nei pazienti a basso rischio – prosegue il Professor Faletti -. La RM cardiaca consente una valutazione estremamente accurata delle caratteristiche del muscolo cardiaco, unica nel suo genere, che si presta allo studio di tutte le cardiomiopatie sia nei soggetti anziani, ma soprattutto nei giovani”.  La pandemia Covid-19 ha fatto impennare le richieste di questi esami. 

“Nell’attuale situazione di pandemia da Covid-Sars-2 è ben noto l'aumentato rischio di patologia cardio-vascolare legato a questa infezione e alle eventuali complicanze post-vaccinali – conclude Faletti - ne consegue che negli ultimi due anni si è verificato un ulteriore incremento della richiesta di tali tipologie di esami per lo studio delle complicanze cardio-vascolari da questa infezione. All'aumentare della richiesta di tali prestazioni è parzialmente corrisposto un adeguamento delle risorse tecnologiche e delle competenze professionali. Tale tipologia di esami richiede infatti un equipaggiamento tecnico delle apparecchiature TC ed RM non sempre presente nelle strutture ospedaliere e nei poliambulatori sul territorio e anche le competenze professionali dei radiologi impiegati nell'esecuzione e nella refertazione di tali esami non sono comprese nella formazione di base dello specialista in diagnostica per immagini. Per ciò che concerne quest'ultimo aspetto le scuole di specialità si stanno adeguando cercando di prevedere dei percorsi specifici per l'imaging cardioradiologico”.