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di Rossella Gemma

In occasione della Giornata Nazionale Parkinson che si celebra sabato 26 novembre, EVER Pharma pone l’attenzione sul tema delle “terapie avanzate”, con l’obiettivo di mettere a fuoco quel delicato momento della progressione della malattia in cui i pazienti iniziano a manifestare sintomi quali fluttuazioni motorie e ipercinesie, ossia periodi di blocco motorio prolungato e/o non prevedibile, e movimenti involontari che provocano forti disabilità e impattano in modo significativo sulla loro qualità di vita.

“In molti pazienti può accadere che, dopo diversi anni, la terapia assunta per via orale non sia più in grado di controllare in modo soddisfacente la sintomatologia - afferma il Prof Fabrizio Stocchi dell’Università e IRCCS San Raffaele Roma - Nel 40-50% dei casi le fluttuazioni motorie compaiono dopo 5 anni di trattamento e nell’80% si manifestano dopo 10 anni, mentre la prevalenza di ipercinesie in pazienti che seguono cure a lungo termine varia dal 30 all’80%”.

Risulta fondamentale, quindi, un approccio terapeutico appropriato che tenga conto di tutte queste possibili variazioni.

Oggi è possibile affrontare con successo questa fase critica grazie all’innovativa terapia integrata con Dacepton®, un farmaco a base di apomorfina, il più potente tra i dopamino-agonisti, che consente in tempi rapidi la riduzione della durata delle fasi di blocco motorio e dell'intensità delle ipercinesie, garantendo al tempo stesso minore invasività rispetto alle altre cosiddette “terapie avanzate”. Le novità di questa terapia integrata sono rappresentate dalla pompa D-mine®, un device elettronico di ultima generazione, che permette anche il monitoraggio dell’aderenza al trattamento e da D-mine® care, un servizio di assistenza al paziente con infermieri e call center a disposizione fin dall’inizio e per tutto il periodo di cura. Una somministrazione più semplice insieme a un’assistenza infermieristica assicurata, sono due elementi unici nel panorama terapeutico oggi disponibile, che fanno la differenza per il paziente e il caregiver.

“Lo sforzo della ricerca scientifica degli ultimi anni – commenta il Prof Angelo Antonini dell’Università di Padova - è stato rivolto al tentativo di restituire al paziente parkinsoniano, in fase avanzata di malattia, quella stessa stabilità di condizione motoria garantita nei primi anni di trattamento. Particolare attenzione è stata posta sulle modalità di somministrazione di farmaci dopaminergici, così importante per il buon esito della terapia e che mira a superare le difficoltà del trattamento orale utilizzando una via di somministrazione sicura e più semplice come quella sottocutanea. L’opportunità terapeutica integrata di Dacepton rappresenta un importante passo avanti in tal senso, soprattutto perché è integrata con un servizio di assistenza infermieristica al paziente che parte dalla fase iniziale di formazione sul corretto utilizzo della pompa D-mine®, prosegue in maniera costante per tutta la durata del trattamento e prevede la raccolta di preziose informazioni sull’andamento della terapia, elaborate e condivise con il clinico di riferimento”.

L’innovazione terapeutica di Dacepton è stata resa possibile grazie al lavoro che EVER Pharma ha portato avanti in collaborazione con i clinici.

“Siamo molto coinvolti da questa nuova avventura nella cura della malattia di Parkinson - commenta Alessandro Motta, Amministratore Delegato di Ever Pharma Italia – e crediamo che la nuova proposta terapeutica integrata che presentiamo al Congresso dell’Accademia LIMPE-DISMOV possa fare la differenza nella gestione della malattia. Da sempre il paziente è al centro dell’impegno della nostra azienda che va oltre la ricerca e lo sviluppo di nuovi farmaci e amplia il suo raggio di azione nell’individuazione di quelle soluzioni e servizi che possano facilitare l’esperienza terapeutica di pazienti e caregiver”.

La malattia di Parkinson è la malattia neurologica che ha registrato negli ultimi anni il maggiore incremento in incidenza di nuovi casi e per la quale l’Organizzazione Mondiale della Sanità (WHO) ha iniziato di recente una campagna di sensibilizzazione globale perché rappresenta una delle cause maggiori di disabilità in neurologia. In Italia il Ministero della Salute stima che ci siano circa 230.000 persone ammalate, un dato possibilmente sottostimato soprattutto nelle persone più anziane. Circa il 10% dei pazienti contrae la malattia prima dei 50 anni e risultano più colpiti i maschi rispetto alle femmine. Si calcola che tra la popolazione generale venga diagnosticato un nuovo caso ogni 4.000 abitanti e, al di sopra dei 50 anni di età 1 nuovo caso ogni 1000.

La malattia di Parkinson è caratterizzata da una progressiva degenerazione delle cellule dopaminergiche e la diagnosi si basa sulla presenza di rallentamento motorio (bradi-acinesia), ipertono muscolare e tremore ed avviene quando oltre il 50% delle cellule dopaminergiche è già stato colpito. A questi sintomi si associa, più tardivamente, una progressiva compromissione dei meccanismi del controllo posturale e della deambulazione tali da compromettere le capacità motorie dei pazienti.

Pur nella sua gravità, la malattia rappresenta una eccezione in neurologia grazie alla possibilità di utilizzare una terapia sostitutiva che compensi il deficit dopaminergico che consente un buon controllo motorio per molti anni dopo la diagnosi.

 

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di Rossella Gemma

La morfina non riduce la dispnea grave nei pazienti con broncopneumopatia cronica ostruttiva (BPCO) secondo uno studio pubblicato su JAMA. 
«La mancanza di respiro a lungo termine è una causa comune di sofferenza continua che spesso si verifica con una malattia avanzata e alla fine della vita. La BPCO può causare dispnea danneggiando i polmoni e le vie respiratorie, e per le persone gravemente malate con dispnea grave a lungo termine, l'attività fisica è spesso una sfida» afferma Magnus Ekström, dell'Università di Lund e del Blekinge Hospital, in Svezia, che ha diretto il gruppo di lavoro. I ricercatori hanno studiato 156 pazienti con BPCO, che soffrivano di dispnea grave a lungo termine, per tre settimane. Nella prima settimana, i partecipanti sono stati randomizzati in tre gruppi, due gestiti con basse dosi regolari di morfina una volta al giorno (8 milligrammi al giorno o 16 milligrammi al giorno) e un terzo, come controllo, che ha ricevuto un placebo. Durante le due settimane successive, i partecipanti sono stati randomizzati a ricevere altri 8 milligrammi di morfina o placebo, in aggiunta al trattamento precedente, per studiare l'efficacia del trattamento e il rischio di effetti collaterali derivanti da un aumento della dose di farmaco. Gli esperti hanno quindi confrontato i gruppi per vedere come i partecipanti avessero valutato la loro esperienza di mancanza di respiro e, con l'aiuto di sensori di movimento, hanno misurato l'attività fisica dei partecipanti. «Alcuni si aspettavano che lo studio mostrasse che la morfina a basse dosi potesse consentire alle persone di essere più attive fisicamente. Sfortunatamente, questo non si è verificato. Non abbiamo visto alcun miglioramento in termini di dispnea e di esperienza dei partecipanti» spiega Ekström. Gli autori sottolineano che quanto da loro trovato non significa che la morfina non fornisca alcun sollievo ai pazienti con grave mancanza di respiro a riposo o in cure palliative alla fine della vita, in quanto non hanno valutato questo aspetto. Nella maggior parte dei casi, in effetti, i pazienti da loro considerati non soffrivano di mancanza di respiro a riposo. «Sulla base dei nostri risultati, comunque, non possiamo generalmente raccomandare la somministrazione di morfina a persone con dispnea cronica» concludono i ricercatori.

«La mancanza di respiro a lungo termine è una causa comune di sofferenza continua che spesso si verifica con una malattia avanzata e alla fine della vita. La BPCO può causare dispnea danneggiando i polmoni e le vie respiratorie, e per le persone gravemente malate con dispnea grave a lungo termine, l'attività fisica è spesso una sfida» afferma Magnus Ekström, dell'Università di Lund e del Blekinge Hospital, in Svezia, che ha diretto il gruppo di lavoro. I ricercatori hanno studiato 156 pazienti con BPCO, che soffrivano di dispnea grave a lungo termine, per tre settimane. Nella prima settimana, i partecipanti sono stati randomizzati in tre gruppi, due gestiti con basse dosi regolari di morfina una volta al giorno (8 milligrammi al giorno o 16 milligrammi al giorno) e un terzo, come controllo, che ha ricevuto un placebo. Durante le due settimane successive, i partecipanti sono stati randomizzati a ricevere altri 8 milligrammi di morfina o placebo, in aggiunta al trattamento precedente, per studiare l'efficacia del trattamento e il rischio di effetti collaterali derivanti da un aumento della dose di farmaco. Gli esperti hanno quindi confrontato i gruppi per vedere come i partecipanti avessero valutato la loro esperienza di mancanza di respiro e, con l'aiuto di sensori di movimento, hanno misurato l'attività fisica dei partecipanti. «Alcuni si aspettavano che lo studio mostrasse che la morfina a basse dosi potesse consentire alle persone di essere più attive fisicamente. Sfortunatamente, questo non si è verificato. Non abbiamo visto alcun miglioramento in termini di dispnea e di esperienza dei partecipanti» spiega Ekström. Gli autori sottolineano che quanto da loro trovato non significa che la morfina non fornisca alcun sollievo ai pazienti con grave mancanza di respiro a riposo o in cure palliative alla fine della vita, in quanto non hanno valutato questo aspetto. Nella maggior parte dei casi, in effetti, i pazienti da loro considerati non soffrivano di mancanza di respiro a riposo. «Sulla base dei nostri risultati, comunque, non possiamo generalmente raccomandare la somministrazione di morfina a persone con dispnea cronica» concludono i ricercatori.

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di Rossella Gemmma

Con la stagione autunnale sono tornate di grande attualità le vaccinazioni, una grande opportunità di salute pubblica. A richiamare l’attenzione sul tema sono due vaccini familiari: il richiamo annuale contro l’influenza e il nuovo vaccino contro il Covid-19, bivalente e diretto sia al ceppo originario del SARS-CoV-2 che alla variante Omicron e alle sue sottovarianti. A questi, si aggiungono i vaccini contro pneumococco, Herpes Zoster e meningococco, fondamentali soprattutto nei soggetti fragili, quali over 65, malati cronici, immunocompromessi. Questi vaccini contro pneumococco, Herpes Zoster e meningococco possono essere somministrati anche nella stessa seduta della vaccinazione contro l’influenza, permettendo di aumentare la protezione nei confronti di queste malattie che comportano un alto grado di disabilità e complicazioni individuali, oltre che un elevato consumo di risorse del SSN. Possono essere somministrati, seguendo le regole indicate dal tutorial SIMG, nella stessa seduta o comunque possono essere programmati con il paziente a scadenze successive. Proprio su questo tema è partita la nuova iniziativa congiunta di tre società scientifiche, la Società di Medicina Generale e delle Cure Primarie – SIMG, la Società Italiana di Malattie Infettive e Tropicali – SIMIT, la Società Italiana di Igiene, Medicina Preventiva e Sanità Pubblica – SItI, le quali hanno lanciato la campagna “Non Solo Flu: porgi l’altra spalla 3.0. Stagione antinfluenzale 2022, un’opportunità per aumentare le coperture vaccinali”. Nella presentazione dell’iniziativa sono intervenuti il Prof. Claudio Cricelli, Presidente SIMG; Alessandro Rossi Responsabile SIMG Patologie Acute; Roberto Parrella, Vicepresidente SIMIT; Enrico Di Rosa, Coordinatore del Collegio Operatori SItI; a moderare il giornalista scientifico Daniel della Seta.

Dopo due anni in cui l’influenza ha colpito meno, si teme un ritorno aggressivo del virus. “Come ogni anno, siamo alla vigilia della vaccinazione antinfluenzale, che partirà intorno a metà ottobre in tutte le regioni – sottolinea il Prof. Claudio Cricelli – Occorre mantenere alta la guardia su questa epidemia, che si sospetta possa essere rilevante, sia per i dati dell’emisfero australe sia perché per due anni per le misure restrittive ha circolato poco è c’è un’immunità di comunità molto affievolita. Queste previsioni impongono la necessità di raggiungere elevati livelli di copertura. Inoltre, la vaccinazione contro l’influenza può fare da driver per altre vaccinazioni, a partire dal nuovo vaccino contro il Covid, che può essere anche somministrato nella stessa seduta senza alcun rischio per sicurezza ed efficacia. Il ruolo della Medicina Generale è come sempre di sostegno alle vaccinazioni dell’adulto a 360° e questa è un’occasione di rilancio. Proprio noi medici di famiglia possiamo indirizzare i diversi pazienti sulle forme di protezione più indicate per ciascuno”. Il proprio medico di famiglia resta dunque il principale punto di riferimento per stabilire le forme più appropriate di prevenzione. È possibile rivolgersi anche ai servizi vaccinali dei Dipartimenti di Prevenzione delle ASL territoriali e agli ambulatori vaccinali ospedalieri, mentre per il Covid restano in funzione alcuni hub vaccinali.

L’iniziativa – dichiara il Dott. Antonio Ferro, Presidente SItI – mira a ribadire l’importanza di vaccinarsi contro l’influenza, ma anche confermare quanto sia sicura la doppia somministrazione (anti-Covid-19 ed antinfluenzale), soprattutto per gli anziani. È fondamentale che le persone non aspettino l’ultimo momento a vaccinarsi. Quest’anno dovremo affrontare un’influenza particolarmente ‘aggressiva’, visto che le nostre difese immunitarie, negli ultimi due anni, per via della Pandemia, non sono state sollecitate. C’è preoccupazione proprio per questo motivo, ma anche per via del numero delle somministrazioni antinfluenzali in netto calo. Stiamo parlando di un ceppo ben identificato che proviene dall’Australia ed i vaccini che utilizziamo sono fatti proprio su questo. Il tutto, poi, dipenderà da come evolverà la situazione in generale, se torneremo ad impiegare le mascherine o no, una decisione che spetterà al Ministero”.

Il messaggio lanciato dagli specialisti porta l’attenzione anche ad altri vaccini non meno importanti, soprattutto per la popolazione sopra i 65 anni e per i soggetti immunocompromessi. Alcune infezioni virali e batteriche che provocano anche gravi conseguenze possono infatti essere prevenute. “Ci sono tre importanti malattie infettive da cui bisogna proteggersi: pneumococco, Herpes Zoster e meningococco – sottolinea il Prof. Claudio Mastroianni, Presidente SIMIT – In particolare, l’Herpes Zoster (spesso noto come Fuoco di Sant’Antonio) è una malattia gravata da severe complicanze soprattutto nei soggetti sottoposti a terapie immunosoppressive e che compromette in maniera importante la qualità della vita delle persone che ne sono affette. Da non sottovalutare lo pneumococco che è una la più frequente causa di polmonite, soprattutto nei soggetti anziani, in cui può avere una evoluzione sfavorevole. Oggi abbiamo la possibilità di utilizzare dei vaccini estremamente efficaci, che prevengono queste infezioni con sicurezza senza effetti collaterali. Inoltre, con una maggiore prevenzione si evitano ospedalizzazioni e uso inappropriato di antibiotici, contribuendo così alla lotta all’antibiotico-resistenza, che rappresenta uno dei più seri problemi di sanità pubblica nei prossimi decenni”.

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di Rossella Gemma

Buone notizie per i 3 milioni di italiani con problemi renali cronici, che riguardano il 10% della popolazione mondiale, con nuove diagnosi in drammatico aumento. Da oggi è possibile contrastare la progressione della malattia renale cronica, grazie a un trattamento rivoluzionario finora approvato solo contro il diabete e l’insufficienza cardiaca. Lo studio internazionale EMPA-KIDNEY, condotto dall’Università di Oxford con la partecipazione dell’IRCCS Ospedale Policlinico San Martino di Genova, centro coordinatore per l'Italia, ha dimostrato che la terapia non ha controindicazioni nei pazienti, e riduce del 28% l'avanzamento della malattia e il rischio di morte cardiovascolare. Lo studio clinico ha ricevuto lo stop anticipato per gli evidenti effetti positivi registrati dopo il trattamento e i suoi risultati sono stati appena pubblicati sull’importante rivista The New England Journal of Medicine.

La malattia renale cronica (MRC) è una delle principali cause di mortalità a livello globale: si stima che ogni anno nel mondo ci siano almeno 5 milioni di decessi con un numero di casi in costante crescita, essendo la MRC strettamente collegata ad altre patologie metaboliche e cardiovascolari, tra cui il diabete, l’ipertensione e l’obesità. Pertanto, la diagnosi precoce e la cura di MRC possono avere importanti e favorevoli ricadute sulla salute pubblica e sulla spesa sanitaria.

Fino ad oggi la strategia terapeutica per rallentare il peggioramento della malattia era tradizionalmente basata sul controllo e la correzione dei fattori di rischio renale e cardiovascolare, come la pressione o l’indice glicemico - dichiara Roberto Pontremoli, direttore della Clinica di Medicina Interna 2 del Policlinico San Martino, professore ordinario di Medicina Interna dell’Università di Genova e coordinatore  nazionale dello studio – Questa strategia, tuttavia, si è dimostrata solo parzialmente efficace e la maggior parte dei pazienti manifesta un progressivo deterioramento nel tempo della funzione renale. Recentemente, dapprima nei pazienti con diabete tipo 2 e anche in pazienti con malattia renale cronica ma senza diabete, le glifozine hanno dimostrato una spiccata capacità di rallentare l’evoluzione della malattia”. 

Le glifozine sono una nuova classe di farmaci che agiscono con un meccanismo metabolico del tutto nuovo, inizialmente studiati e utilizzati come antidiabetici. “Questi farmaci – chiarisce Pontremoli - bloccano il funzionamento di alcune proteine renali, chiamate cotrasportatori sodio-glucosio, fondamentali per il mantenimento dei livelli ottimali di glucosio nel sangue. Le glifozine, inibendo il funzionamento di queste proteine, prevengono l’accumulo di glucosio in eccesso che viene espulso dall’organismo attraverso le urine. Il passaggio di glucosio attraverso il rene nelle urine innesca meccanismi che portano molteplici effetti protettivi sulle cellule renali”.

EMPA-KIDNEY è uno studio internazionale di nefroprotezione, ad oggi il più esteso, che ha coinvolto, oltre l’Italia, 7 paesi, Stati Uniti, Canada, Regno Unito, Germania, Malesia, Giappone e Cina. L’indagine ha valutato in 6.609 pazienti con problemi renali, con e senza il diabete, la sicurezza e l’efficacia del trattamento con empagliflozin. L’obiettivo primario dello studio era valutare se il farmaco rallentasse la progressione della malattia renale e riducesse il rischio di morte per cause renali o cardiovascolari.

I pazienti, con età media di 63.8 anni, sono stati seguiti per due anni per valutare l’andamento della malattia, la mortalità e i ricoveri – precisa Pontremoli – Un evento cardiovascolare (infarto o ictus) o renale si è verificato in 432 dei 3.304 pazienti del gruppo che ha assunto il farmaco e in 508 dei 3.305 pazienti del gruppo placebo, dimostrando che il farmaco riduce del 28% la progressione della malattia in forma più grave, sia nei pazienti diabetici che in quelli senza diabete. Inoltre, – aggiunge l’esperto – nel gruppo che ha assunto empagliflozin si è registrato un minor numero di ricoveri, con una riduzione del 14% rispetto al gruppo placebo. Questo studio è importante perché suggerisce la possibilità di estendere l’impiego dell’empagliflozin in pazienti con problemi renali cronici anche senza diabete - conclude Pontremoli – Inoltre, il trattamento è destinato ad influenzare significativamente gli standard terapeutici per i prossimi 10-20 anni. Potrà infatti migliorare la prognosi dei pazienti nefropatici, ritardando la necessità di sottoporsi a dialisi e/o a trapianto del rene ed evitando malattie cardiache associate a problemi renali”.

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di Rossella Gemma

L’Agenzia Italiana del Farmaco ha pubblicato il tredicesimo Rapporto di farmacovigilanza sui vaccini anti-COVID-19. I dati raccolti e analizzati riguardano le segnalazioni di sospetta reazione avversa registrate nella Rete Nazionale di Farmacovigilanza tra il 27 dicembre 2020 e il 26 settembre 2022 per i vaccini in uso nella campagna vaccinale in corso. Nel periodo considerato sono pervenute 139.548 segnalazioni su un totale di 140.689.690 di dosi somministrate (tasso di segnalazione di 99 ogni 100.000 dosi), di cui l’81,5% riferite a eventi non gravi, come dolore in sede di iniezione, febbre, astenia/stanchezza, dolori muscolari.

Nel terzo trimestre del 2022 i tassi di segnalazione relativi alla 1a dose restano più elevati rispetto alle dosi successive e sono notevolmente più bassi dopo la 4a dose (2a dose booster) per i vaccini per i quali è prevista. Le segnalazioni gravi corrispondono al 18,5% del totale, con un tasso di 18 eventi gravi ogni 100.000 dosi somministrate, in linea con i precedenti Rapporti. Si ricorda che la gravità delle segnalazioni viene definita in base a criteri standardizzati che non sempre coincidono con la reale gravità clinica dell’evento.

Gli eventi avversi più segnalati per tutti i vaccini, indipendentemente dalla gravità, sono febbre, cefalea, dolori muscolari/articolari, brividi, disturbi gastro-intestinali, reazioni vegetative, stanchezza, reazione locale o dolore in sede di iniezione. Al 26/09/2022, le vaccinazioni con le formulazioni bivalenti aggiornate alle nuove varianti Omicron erano già iniziate ma non si registravano segnalazioni di sospette reazioni avverse.

I dati contenuti in questo Rapporto periodico sono coerenti rispetto a quelli pubblicati fino a oggi e in linea con le informazioni di sicurezza già discusse a livello europeo.

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di Rossella Gemma

Fino al 40% delle donne italiane viene colpito almeno una volta nella vita da infezioni urinarie. E circa il 20% di loro racconta di aver avuto episodi che si sono ripetuti nel tempo. In quattro casi su cinque si tratta di cistite, un’infiammazione della vescica causata quasi sempre da batteri presenti nella flora intestinale che, per diversi motivi, possono arrivare a far danno nelle vie urinarie. La soluzione non sta, come troppo spesso si pensa, in cure antibiotiche fai-da-te perché rischiano di essere controproducenti, facendo aumentare la probabilità di sviluppare l’antibiotico-resistenza. È necessario rivolgersi all’esperto del settore, ovvero all’urologo: solo lui può indicare il percorso terapeutico più adatto a risolvere il problema, che spesso passa anche da piccoli interventi nello stile di vita. Delle ultime strategie per affrontare le infezioni urinarie hanno discusso in questi giorni gli esperti nazionali e internazionali al 95° Congresso nazionale della Società Italiana di Urologia (SIU), che si conclude oggi a Riccione. Quattro giorni con decine di simposi e sessioni, talk show e corsi di aggiornamento cui hanno partecipato quasi 2000 urologi provenienti da tutta Italia.
 
“I campanelli d’allarme con cui si presenta la cistite di solito sono sempre gli stessi: uno stimolo urgente e spesso doloroso a urinare, un forte bruciore durante la minzione, la sensazione di non riuscire mai a svuotare completamente la vescica. Le urine possono apparire torbide e maleodoranti, talvolta con tracce di sangue. Soprattutto si avverte un senso di pesantezza e fastidio nella parte bassa dell’addome – spiega Andrea Salonia, professore di Urologia all’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano e responsabile dell’Ufficio Educazionale della SIU.

Perché la cistite è una malattia soprattutto femminile? “Il primo motivo è di carattere anatomico: infatti, nelle donne l’uretra, cioè il canale che porta alla vescica, è più corta rispetto agli uomini e più facilmente transitabile da parte degli agenti microbici – continua il prof. Salonia –. La anatomia femminile nella zona genitale rende peraltro le vie urinarie e l’ultimo tratto dell’intestino molto vicini tra loro, e certamente più che negli uomini, rendendo più facile il compito ai batteri, che possono arrivare con facilità alla vescica. I fattori scatenanti sono vari. Per esempio i rapporti sessuali penetrativi, a seguito dei quali i batteri possono risalire lungo le vie urinarie. Oppure la stipsi e la sindrome del colon irritabile. In questi casi gli stessi batteri si moltiplicano e possono diffondersi dal distretto intestinale a quello delle vie urinarie. O ancora la menopausa, perché la carenza di estrogeni altera il pH della mucosa vaginale e favorisce le infezioni. Infine, un’igiene intima scorretta: oggi c’è una tendenza a esagerare con saponi troppo aggressivi, che indeboliscono le difese e rendono più probabili le infezioni vaginali”.

Le strategie per risolvere il problema passano anzitutto da un intervento sugli stili di vita. Una regola d’oro in caso di cistite episodica, che però vale anche come forma di prevenzione, è quella di bere tanto: “Almeno 8 bicchieri di acqua al giorno, per depurare l’organismo ed evitare l’accumulo di tossine e batteri responsabili dell’infiammazione. Per le stesse ragioni è molto importante cercare di non trattenersi, ma assecondare subito lo stimolo a urinare, perché il ristagno di urina nella vescica facilita la proliferazione di batteri. Urinare prima e dopo il rapporto sessuale. Usare detergenti intimi a pH neutro e non aggressivi. Per controllare la stipsi, potenziale alleata della cistite, può essere utile mangiare un paio di kiwi al giorno: regolano l’intestino e sono ricchi di vitamina C, che riduce la basicità dell’urina”.

Per quanto riguarda il grande capitolo delle terapie farmacologiche, gli esperti mettono in guardia contro un uso spregiudicato degli antibiotici: “Ricorrere a questi farmaci senza sentire prima l’urologo è rischioso, perché non fa altro che favorire l’antibiotico resistenza, cioè quel fenomeno per cui i batteri sviluppano una capacità di sopravvivere all’azione di uno o più farmaci di questo tipo. Ed espone al rischio di avere cistiti sempre più frequenti e molto spesso delle fastidiose candidosi vaginali– precisa il prof. Salonia –. Per questo, qualora l’urinocoltura, cioè l’esame delle urine che identifica i batteri responsabili dell’infezione in corso, rivelasse una carica batterica bassa, sarebbe più opportuno intervenire assumendo probiotici, che contribuiscono a rendere più acide la superficie delle mucose genitali, inibendo l’azione dei batteri patogeni. Se invece la carica batterica fosse elevata, sarà l’urologo, sulla base dei risultati dell’urinocoltura e delle caratteristiche della paziente, a stabilire un’eventuale terapia antibiotica specifica”.

C’è una forma di cistite molto diversa e molto più invalidante di quella provocata dalle infezioni batteriche: è la cistite interstiziale, un’infiammazione cronica e dolorosa della parete della vescica, che colpisce con grande prevalenza le donne (in rapporto di 5 a 1 rispetto agli uomini). “I suoi sintomi principali sono bruciore, dolore vescicale avvertito sia durante la minzione che come pelvico, cioè in tutta la parte dell’addome sotto l’ombelico. In più si ha un persistente e urgente bisogno di urinare – spiega Salonia –. Le cause non sono ancora completamente note; si sono però osservati una discontinuità e un indebolimento della pellicola che riveste internamente le pareti della vescica, favorendo uno stato infiammatorio costante. In pratica, è come avere una cistite ostinata che non vuole saperne di guarire, con gravi conseguenze sulla qualità della vita quotidiana, dal lavoro ai rapporti sociali, fino, ovviamente, a compromettere la sessualità. Due sono le principali vie terapeutiche: quella farmacologica, che comprende anche terapie a base di glicosaminoglicani utilizzati per ripristinare e rafforzare il tessuto; e quella endoscopica, con una procedura chiamata idrodistensione della vescica, che oltre ad avere scopo diagnostico può agire sulle terminazioni nervose responsabili dei dolori”.
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di Rossella Gemma

“Peggio della malattia stessa”. E’ così che descrivono stigma e discriminazione, di cui sono troppo spesso vittime, con conseguenze sulla qualità e sulla durata della vita, le persone con un disturbo di salute mentale provenienti da 40 Paesi del mondo, in un’indagine condotta da una Commissione della rivista The Lancet, appena pubblicata in un editoriale. Lo stigma legato ai disturbi mentali ha molte forme che portano a una miriade di conseguenze, spesso sottovalutate. Gli effetti, infatti, si riflettono sulle opportunità di lavoro e di reddito, sull’inclusione sociale e addirittura sulle cure non solo della malattia stessa ma anche delle altre patologie non collegate a quella mentale, incidendo sull’aspettativa di vita che, tra i pazienti con disturbi psichici, è inferiore al resto della popolazione. Si tratta di una piaga mondiale, molto evidente anche in Italia, dove secondo uno studio la mortalità per tumore e infarto è 2,6 volte più alta tra i pazienti con problemi di salute mentale. Un dato, quest’ultimo, reso noto di recente da una ricerca sulla mortalità dei pazienti psichiatrici, condotta in collaborazione con la Regione Emilia Romagna, e pubblicata sulla rivista Psychiatry Research. Lo studio ha esaminato 137.351 pazienti presi in carico dai Servizi di Salute Mentale della regione Emilia Romagna tra il 2001 e il 2018. I dati sulla mortalità sono stati confrontati con quelli di un campione di popolazione generale, con caratteristiche simili di età, sesso e condizione sociale. “Nel periodo osservato, sono stati registrati 11.236 decessi per comuni patologie cardiovascolari e oncologiche - commentano Massimo di Giannantonio ed Enrico Zanalda, co-presidenti Società Italiana di Psichiatria (SIP) - Il numero di decessi dei pazienti psichiatrici è risultato due volte più alto rispetto a quello della popolazione generale, registrando ben 5.594 morti in eccesso. Questo significa - precisano gli esperti - che avere un disturbo psichiatrico comporta un rischio di morte superiore a più del doppio di quello atteso nella popolazione generale. Ma il dato più allarmante riguarda la depressione, in quanto quasi la metà delle morti in eccesso (46,2%) impatta questa patologia. I dati emersi - sottolineano gli esperti - indicano che lo stigma pesa anche sui ritardi negli accessi alle cure e sulle difficoltà di adesione a programmi di prevenzione e screening. Gli stessi operatori sanitari, infatti, non sempre sanno diagnosticare e curare al meglio le persone con problemi di salute mentale. E’ dunque fondamentale per ridurre la mortalità, eliminare lo stigma con azioni radicali e urgenti, a livello globale a partire da corsi di formazione obbligatori per tutto il personale sanitario e socio assistenziale, sui diritti e i bisogni delle persone con disturbi psichici – avvisano di Giannantonio e Zanalda, unendosi all’appello lanciato da The Lancet.

L’analisi della Commissione denuncia anche le dimensioni dell’emergenza sulla salute mentale “Stime recenti suggeriscono che una persona su otto, quasi un miliardo di persone a livello globale, vive con un disturbo di salute mentale. Nei giovani dai 10 ai 19 anni d'età a soffrirne è invece una persona su 7”.

La pandemia ha contribuito a far luce sull'emergenza salute mentale a livello globale. “Solo nel primo anno dell'emergenza Covid-19 continuano gli autori dell’indagine - si è verificato un aumento del 25% della prevalenza di depressione e ansia. Tuttavia, nonostante l'elevata incidenza dei disturbi di salute mentale in tutto il mondo, sono diffusi anche lo stigma e la discriminazione legati a essi, che, nei Paesi a più basso reddito, portano all'esclusione delle vittime dalla società e alla negazione dei diritti umani fondamentali, come il diritto al voto, di sposarsi o di ricevere un’eredità”.

La Commissione ha esaminato le evidenze riguardanti eventuali interventi efficaci per ridurre lo stigma e chiede un'azione immediata da parte di governi, organizzazioni internazionali, datori di lavoro, operatori sanitari e organizzazioni dei media, insieme a contributi attivi da parte di persone con esperienza di malattie mentali, per lavorare insieme al fine di eliminare lo stigma e la discriminazione sulla salute mentale.

Occorre fare di più anche sul fronte degli investimenti nei servizi di salute mentale. La Commissione di The Lancet ha rilevato che nel mondo, in media, la spesa per la salute mentale è di solo il 2 per cento della spesa sanitaria totale; e le condizioni di salute mentale sono spesso escluse del tutto dai regimi di assicurazione sanitaria, a differenza della maggior parte delle condizioni di salute fisica. “In Italia si investe nei servizi di salute mentale il 2,9% del Fondo Sanitario Nazionale. Troppo poco – sottolineano di Giannantonio e Zanalda – per rispondere adeguatamente ai bisogni di oltre 4 milioni di italiani con un disturbo della salute mentale, un numero costantemente in crescita”.

La SIP si unisce così all’appello della Commissione The Lancet e, oltre a condividerne le finalità, ne approva anche gli strumenti raccomandati, frutto di un’attenta analisi delle evidenze oggi disponibili. Tra questi, oltre i corsi di formazione per il personale sanitario, anche la promozione di programmi di ritorno al lavoro per le persone con problemi di salute mentale, come stabilito nelle linee guida OMS, e di programmi scolastici per migliorare la comprensione delle condizioni di salute mentale. “Per contrastare lo stigma e la discriminazione in modo efficace – evidenziano i co-presidenti SIP bisogna coinvolgere attivamente le persone che hanno esperienza con queste problematiche. Ed è necessario che tutti i governi, le organizzazioni internazionali, le scuole, i datori di lavoro, l'assistenza sanitaria, la società civile e i media agiscano in maniera coordinata. Solo insieme possiamo porre fine allo stigma e alla discriminazione dei pazienti con disturbi psichiatrici, un obiettivo che abbiamo l’obbligo di raggiungere”.

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di Rossella Gemma

Alle donne vengono prescritti più farmaci e farmaci studiati per gli uomini, con la conseguenza che 6 ricoveri su 10 per effetti avversi ai medicinali, da quelli per la tiroide agli ormoni, riguarda proprio loro. Allo stesso tempo, nel 53% dei casi le donne vengono operate per infarto in ritardo, ovvero oltre i 90 minuti dall’arrivo in ospedale, a fronte del 40% di quanto accade negli uomini e il rischio di morte dopo il bypass coronarico è il doppio. Questi alcuni dei numeri che emergono dagli studi presentati al decimo Congresso della Società internazionale di Medicina di Genere. "Le donne - spiega Teresita Mazzei, Professore di Farmacologia presso l'Università degli Studi di Firenze e Vicepresidente del congresso - hanno, ad esempio, il 27% di probabilità in più di aver prescritti degli antibiotici, secondo una metanalisi 1 basata su 11 studi che hanno raccolto 44 milioni di prescrizioni in diversi paesi europei, inclusa l'Italia. Eppure, l'uomo ha una probabilità quasi 3 volte più alta di ammalarsi di infezioni, incluse quelle da batteri resistenti, e di morirne.

In base a uno studio norvegese, l’incidenza di mortalità per sepsi era di 36 decessi per 100.000 persone l’anno negli uomini, rispetto a 28 per 100.000 nelle donne. A ‘difendere’ queste ultime, probabilmente è un sistema immunitario più efficace, grazie agli ormoni estrogeni. Ma sono anche diversi stili di vita: in genere fumano meno e bevono meno alcol". Le donne, però, hanno più reazioni avverse ai farmaci, non solo perché assumono più medicinali ma anche perché assumono le stesse dosi di quelli che vengono studiati su uomini del peso medio di 70 chili. "Le donne – prosegue Mazzei - hanno da 1,5 a 1,7 volte in più la probabilità di sviluppare effetti collaterali avversi rispetto agli uomini e più ospedalizzazioni per questo motivo: il 60% dei ricoveri ospedalieri per reazioni avverse ai farmaci, tra cui aritmie, si riferisce alle donne, come evidenzia uno studio dell'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) 3 e condotto su 15 milioni di casi segnalati tra 1967 e il 2018 in tutti i continenti".

I farmaci che provocano più reazioni avverse nelle donne sono quelli ormonali, anti-obesità, per la tiroide e per l'osteoporosi. Proprio quest'ultima malattia racconta, invece, un'altra contraddizione: "i farmaci per la salute delle ossa vengono sottoprescritti agli uomini anche se proprio loro rischiano di più di morire per le conseguenze indirette di fratture". Dai 75 anni in poi, secondo il rapporto Osmed 2021 dell’Agenzia italiana del Farmaco (AIFA), per gli uomini c'è una spesa lorda pro capite di 12 euro mentre per la donna 24. Donne curate in ritardo per il cuore e muoiono di più La parità di accesso a cure appropriate è uno degli obiettivi principali del Servizio Sanitario Nazionale. Per verificare quanto questo sia garantito, uno strumento utile sono i dati del Programma Nazionale Esiti (PNE), una raccolta annuale di indicatori di performance degli ospedali italiani realizzato dall’Agenzia Nazionale dei Servizi Sanitari Regionali (AGENAS), nell’ambito del quale quest’anno è stata per la prima volta introdotta una sezione specifica su “Equità e genere”, i cui risultati saranno presentati al congresso internazionale di Medicina di Genere in corso a Padova. A partire dai dati del Sistema Informativo Ospedaliero (2020), un team di ricercatori di AGENAS, Istituto Superiore di Sanità (ISS), Dipartimento di epidemiologia del Lazio e ISTAT, ha utilizzato 18 indicatori rappresentativi di 5 aree cliniche e implementato un modello che ha utilizzato anche misurazioni per genere. Tra le prestazioni sanitarie, la percentuale di interventi coronarici eseguiti entro 90 minuti dall'accesso all'ospedale per infarto è considerato uno degli indici di adeguato trattamento: la percentuale di chi ne ha beneficiato è inferiore per le pazienti di sesso femminile (40,5% rispetto a 53,4%). Per lo stesso gruppo è stato osservato anche un più alto tasso di mortalità entro 30 giorni dall'intervento di bypass coronarico (3% rispetto 1,6%).

D'altra parte, i pazienti di sesso maschile hanno maggiori rischi per l'area ortopedica, con una percentuale inferiore di interventi chirurgici di frattura dell'anca eseguiti entro 48 ore dall'arrivo all'ospedale: ne hanno beneficiato nel 45,7% dei casi rispetto al 51,8% delle donne. Questo va di pari passo con un tasso di mortalità più elevato entro un anno dall'intervento: 28,5 % rispetto a 16,2%. “Dati scientifici mostrano - sottolinea Walter Ricciardi, Professore Ordinario di Igiene e Medicina Preventiva all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma - che diverse malattie presentano differenze significative tra donne e uomini in termini di incidenza, diagnosi, progressione e risposta alla terapia. In particolare, le differenze nell'epidemiologia e nella storia naturale di malattie cardiovascolari, condizioni autoimmuni o tumori, sono oggi abbastanza ben riconosciute. Le politiche sanitarie, quindi, dovrebbero tener conto dei risultati degli studi scientifici e promuovere azioni di equità più efficaci. Tuttavia, - conclude - ancora oggi l'accesso ai sistemi sanitari, nel mondo e in Italia, presenta forti diseguaglianze tra i generi. Per questo, l'Agenda 2030 per lo Sviluppo sostenibile dell'OMS punta l’attenzione sull'urgenza di promuovere politiche sensibili al genere anche nel settore sanitario”.

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di Rossella Gemma

Spermatozoi sani dentro e fuori: per determinare l’infertilità maschile non basta fermarsi all’aspetto ‘esteriore’ del liquido seminale – misurandone solo concentrazione, forma e motilità – ma è necessario andare a guardare anche dentro al suo DNA. I paramenti classici non sono più valori di riferimento assoluti per stabilire la linea di confine tra uomini fertili e infertili e dunque l’esame del liquido seminale non basta da solo per valutare la funzione riproduttiva maschile. E’ questo il cambio di paradigma dettato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), che, dopo ben 11 anni, ha aggiornato le linee guida per la diagnosi dell’infertilità maschile e introdotto per la prima volta nella pratica clinica lo studio del DNA spermatico, riconoscendo il potenziale diagnostico limitato dell’esame del liquido seminale, basato su valori indicativi e con esiti che possono variare anche sensibilmente in relazione all’esperienza dell’operatore che effettua e interpreta i dati. A curare l’edizione italiana delle nuove linee guida OMS sono state la Società Italiana di Andrologia (SIA) e la Società Italiana di Riproduzione Umana (SIRU). Il board scientifico incaricato dall’Oms - composto da Luca Boeri, Filippo Giacone, Luigi Montano, Tiziana Notari, Ilaria Ortensi e Paolo Turchi – l’ha resa disponibile in meno di dieci mesi online ed in formato cartaceo. 

“Il 50% dei problemi di infertilità di coppia è provocato da un problema maschile le cui cause sono inspiegate con valori nella norma in circa il 30% dei casi. E’ quindi fondamentale un migliore e più corretto inquadramento diagnostico, al fine di individuare e correggere eventuali patologie che possano compromettere la fertilità della coppia, soprattutto in un periodo storico in cui la natalità è in forte crisi, specialmente in Italia. Il nostro Paese, infatti, ha il tasso di fertilità più basso d’Europa e fra i più bassi del mondo (1,17 figli in media per donna) e oltre il 15% delle coppie ha problemi di fertilità, ovvero non riesce a concepire nel corso di un anno di tentativi non protetti  dichiarano Alessandro Palmieri, presidente SIA e Luigi Montano, presidente SIRU – L’esame per eccellenza è senza dubbio lo spermiogramma, che consiste nell’analizzare un campione di liquido seminale, valutando la concentrazione, la motilità e la forma. Ma si tratta solo di numeri che non possono condizionare il percorso di una gravidanza che è dato da tanti fattori e lo spermiogramma in assoluto non è predittivo. Resta il problema della qualità degli spermatozoi in termini di capacità fecondante che è strettamente collegato alla loro integrità genomica, oltre che allo stile di vita di chi lo produce e alle esposizioni ambientali come dimostrano i numerosi fallimenti della fecondazione sia naturale che assistita anche in pazienti con valori nella norma”.

“La diffusione dei contenuti delle nuove linee guida a tutti gli operatori dei laboratori di analisi, non solo a quelli dei centri di procreazione medicalmente assistita, per una più corretta e ampia analisi del liquido seminale migliorerà e aumenterà le diagnosi di infertilità, utili anche a fronteggiare il grave declino demografico del nostro Paese” - precisano Palmieri e Montano – Anzi, la valutazione del liquido seminale dovrebbe essere eseguita a 18 anni a tutti i giovani maschi prima della visita andrologica”.

Il Manuale OMS ha definito nuovi standard globali per migliorare la diagnosi di infertilità maschile descrivendo procedure operative ottimali, finalizzate a sostenere e a promuovere la qualità dell’analisi del liquido seminale e la comparabilità dei risultati ottenuti dai diversi operatori e laboratori.

La novità più importante della nuova versione riguarda l’inclusione dei test del DNA del liquido spermatico “L’OMS riconosce che non è più sufficiente fermarsi alla valutazione dei parametri classici, quali concentrazione, motilità e forma degli spermatozoi, ma è fondamentale integrare queste informazioni con quelle sulla frammentazione del DNA degli spermatozoi - afferma Ilaria Ortensi, componente del Comitato Esecutivo SIA, biologa tra le curatrici del nuovo Manuale.

“L’analisi della frammentazione del DNA visualizza la rottura dei filamenti del DNA degli spermatozoi, mentre la valutazione della cromatina consiste nell’esame di specifiche proteine che legano il DNA nemaspermico. Tra le procedure introdotte nello studio del DNA spermatico, sono inclusi anche i test genetici e genomici utilizzati, principalmente, per identificare il numero di cromosomi presenti negli spermatozoi” aggiunge Tiziana Notari, componente del Consiglio Direttivo SIRU e co-curatrice del Manuale.

“Nel manuale si indicano valori soglia dell’esame del liquido seminale, che non sono da considerare parametri assoluti - stigmatizza Paolo Turchi, andrologo, specialista in sessuologia e componente della SIA - Introdotti nell’edizione antecedente, sulla base di paramenti di normalità ricavati dai dati di campioni seminali di individui sicuramente fertili, le cui partner hanno concepito entro 12 mesi dalla sospensione dei metodi contraccettivi, questa tabella è stata poi aggiornata in quest’ultima edizione del 2021, sulla base dello studio di una popolazione più ampia, in termini numerici e di distribuzione geografica. Tuttavia in pratica, viene sfumata quella illusoria linea netta di demarcazione tra fertilità e infertilità”. 

“Neanche la possibilità, già attuale di eseguire l’analisi computerizzata del liquido seminale viene indicata dall’OMS come una procedura da eseguire di routine nella pratica clinica: è utile per la ricerca ma non ci sono ancora evidenze scientifiche solide che ne giustifichino l’utilizzo standard” – evidenzia Luca Boeri, andrologo, Dipartimento di Urologia, Fondazione IRCCS Cà Granda-Ospedale Maggiore Policlinico di Milano, tra i curatori del manuale. 

Altre novità riguardano le tecniche di trattamento e crioconservazione degli spermatozoi, destinate principalmente ai biologi che operano nei Centri di Procreazione Medicalmente Assistita. “In particolare, è stata introdotta la tecnica della separazione degli spermatozoi migliori, dal rimanente pool di spermatozoi presenti nell’eiaculato, attraverso l’utilizzo di un campo magnetico attivato per la selezione cellulare, che viene denominata MACS, acronimo inglese di 'Magnetic Activated Cell Sorting'” - riferisce Filippo Giacone, biologo coordinatore del gruppo di interesse speciale SIRU per la donazione e preservazione della fertilità. Attenzione, invece, viene posta alla pratica diffusa che utilizza il cosiddetto gradiente di densità discontinuo, per separare gli spermatozoi migliori dall’intero popolazione spermatica e non presente nell’eiaculato, in quanto produrrebbe un aumento della frammentazione del DNA spermatico, che tuttavia rimane la metodica elettiva nella preparazione dei campioni seminali in coppie in cui il partner maschile è portatore di infezioni virali come, ad esempio, HIV ed epatite.

Infine, nel Manuale è stata introdotta anche la tecnica di vitrificazione per la crioconservazione degli spermatozoi, una tecnica ben nota agli addetti ai lavori, che però dovrebbe essere ancora considerata una procedura sperimentale. Nel settore della ricerca è stato, poi, introdotto lo studio dei canali ionici, che apre le porte, insieme con tutti gli altri esami proposti nel Manuale, ad approfondire sempre più le conoscenze riguardo la fertilità maschile, nel tentativo di ridurre al minimo quella fetta di popolazione di coppie con infertilità, ovvero in cui le cui cause non sono note.

 

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di Rossella Gemma

Una nuova possibilità di cura per i circa 6mila pazienti in attesa di trapianto di rene: è l’obiettivo del protocollo di intesa per l’avvio di un programma pilota di donazione di rene in modalità incrociata tra Italia e Stati Uniti siglato oggi al Ministero della Salute. L’accordo è stato sottoscritto dal Centro nazionale trapianti (Cnt), rappresentato dal direttore Massimo Cardillo, e dalla Alliance for Paired Kidney Donation (Apkd), fondazione non profit che gestisce uno dei programmi di trapianto di rene da vivente negli Usa, rappresentata dal suo presidente, il professor Michael A. Rees, direttore del Centro trapianti di rene dell’University of Toledo Medical Center, in Ohio. Alla firma del protocollo erano presenti il sottosegretario alla Salute Pierpaolo Sileri e il professor Ignazio Marino, direttore esecutivo del Jefferson Italy Center, l’organizzazione che promuove le iniziative di collaborazione sanitaria tra la Thomas Jefferson University di Philadelphia e le istituzioni italiane.

 Il nuovo programma Italia-Usa riguarda i cosiddetti trapianti di rene “crossover”, ovvero quelli che avvengono attraverso il reciproco “scambio” dell’organo tra coppie nelle quali il donatore è geneticamente incompatibile con il proprio ricevente ma compatibile con il ricevente di un’altra coppia. Grazie all’accordo tra Cnt e Apkd, coppie di pazienti italiani e statunitensi potranno essere incrociate tra di loro sulla base di un algoritmo condiviso che verificherà il livello di compatibilità tra gli iscritti nelle due liste d’attesa: in questo modo, i pazienti affetti da insufficienza renale cronica e che hanno a disposizione un donatore volontario inadatto avranno una possibilità maggiore di ricevere il trapianto di cui hanno bisogno.

Oltre agli aspetti tecnico-operativi (requisiti degli ospedali aderenti, algoritmo di matching, governance complessiva delle attività), l’accordo prevede che i costi relativi alla procedura di trapianto siano a carico delle coperture assicurative Usa per il paziente statunitense e per il donatore italiano, mentre il Servizio sanitario nazionale italiano coprirà le spese per il paziente italiano e per il donatore americano. A viaggiare saranno i donatori: il prelievo e il successivo trapianto del rene avverranno infatti nel paese del ricevente. La fase pilota riguarderà i primi tre casi e sarà circoscritta a tre ospedali: per l’Italia parteciperà il Centro trapianti di rene del Policlinico Agostino Gemelli di Roma, diretto dal professor Franco Citterio, presente alla firma dell’accordo, mentre per gli Usa saranno coinvolti lo University of Toledo Medical Center e i poli ospedalieri della Thomas Jefferson University di Philadelphia. Conclusa la sperimentazione operativa e gestionale, il programma verrà rivalutato per un possibile consolidamento del protocollo e per il progressivo allargamento agli altri centri di trapianto di rene da vivente della rete italiana.

Quello con gli Stati Uniti è secondo protocollo di scambio internazionale attivato dal nostro Paese: dal 2018 è in vigore un accordo che coinvolge Francia, Portogallo e Spagna e che si è concretizzato in tre trapianti incrociati proprio con quest’ultima nazione. Dal 2015 ad oggi il programma nazionale italiano di trapianto di rene crossover ha consentito la realizzazione di 77 interventi. Complessivamente nel 2021 in Italia sono stati eseguiti 2.043 trapianti di rene, di cui 341 da donatore vivente: di questi, 5 sono stati realizzati attraverso uno scambio tra coppie di donatori e riceventi.

 “I trapianti di rene da vivente sono un’opzione terapeutica efficace per i riceventi e assolutamente sicura per i donatori, ma ad oggi rappresentano meno del 17% dei trapianti di rene eseguiti ogni anno in Italia”, commenta il direttore del Cnt Massimo Cardillo. “Si tratta di una percentuale in forte crescita ma ancora insufficiente per rispondere ai tanti pazienti ancora in attesa. Questo accordo tra Italia e Stati Uniti apre letteralmente una nuova frontiera e ci consentirà di aumentare significativamente le possibilità di stabilire match positivi tra i diversi pazienti”. L’obiettivo finale, spiega ancora Cardillo, è una rete internazionale di trapianti incrociati: “A partire da questa esperienza potremo lavorare per un accordo di cooperazione tra tutti i paesi europei che ci consenta di internazionalizzare i programmi di donazione incrociata a beneficio dei pazienti”.

 "Negli Stati Uniti circa il 20% dei 6mila trapianti di rene da vivente vengono realizzati grazie agli scambi. Crediamo che questa collaborazione tra Cnt e Apkd potrà aumentare significativamente le opportunità per i pazienti con insufficienza renale sia italiani che statunitensi", sottolinea il professor Michael Rees. "Lo scambio di reni ci dimostra come le differenze possano essere un valore e una risorsa: allargare il bacino dei donatori a cui attingere aumenta le possibilità di trapianto, perché le incompatibilità genetiche si registrano più facilmente tra persone etnicamente omogenee. L'eterogeneità della popolazione americana darà maggiori opportunità di trovare donatori compatibili per i pazienti italiani rispetto a quanto avviene oggi negli incroci con i cittadini dell'Europa meridionale".

“Attualmente circa il 30% dei trapianti di reni tra vivi sono resi impossibili dall’incompatibilità tra donatore e ricevente”, dichiara il sottosegretario Pierpaolo Sileri. “Con l’accordo di oggi, anche se al momento in fase pilota, la ricerca di una coppia donatore-ricevente che abbia una compatibilità incrociata si allarga ad una popolazione numericamente consistente e geneticamente eterogenea come quella statunitense, aumentando così le probabilità di individuare donatori compatibili per questi pazienti di difficile trapiantabilità e che diversamente sarebbero destinati alla dialisi a vita”.