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di Rossella Gemma

“Per migliorare la qualità di vita di un malato raro, servono risorse, per mantenere e implementare in modo omogeneo lo screening neonatale in tutta Italia, in un percorso, che inizia prima del concepimento e che accompagni neonato e famiglia sin dalla diagnosi della malattia. L’ampliamento del panel di screening neonatale a nuove patologie ha però anche bisogno di un aggiornamento del modello organizzativo, che comprenda competenze e professionalità specifiche”. Lo affermano la Società Italiana di Neonatologia (SIN) e UNIAMO Federazione Malattie Rare in occasione della Giornata delle Malattie Rare, che si celebra il 28 febbraio.

Una malattia si definisce rara quando la sua prevalenza, intesa come il numero di casi presenti su una data popolazione, non supera la soglia dello 0,05%, ossia 1 caso su 2.000 persone. Si stima che i malati rari in Italia siano oltre 2 milioni e di questi 1 su 5 è un bambino (fonte: uniamo.org). Le malattie rare ad oggi conosciute sono tra le 7.000 e le 8.000 e sono generalmente gravi, spesso croniche, talvolta progressive, non sempre facilmente diagnosticabili. Circa il 30% dei malati rari, infatti, non ha una diagnosi e rischia di convivere con una malattia che resterà per sempre senza nome. Le indagini di Eurordis hanno permesso di quantificare in oltre quattro anni il ritardo diagnostico per le persone con malattia rara, senza mettere in conto coloro che stanno ancora aspettando un nome per la loro patologia”, dichiara Annalisa Scopinaro, Presidente UNIAMO Federazione Malattie Rare. “È necessario aumentare le patologie screenate via via che si sviluppano terapie, con procedimenti burocratici più snelli, sviluppando nel contempo un’accurata presa in carico successiva alla diagnosi”.

I bisogni dei bambini con malattie rare sono cambiati notevolmente negli anni, in rapporto a nuove e sempre più efficaci opportunità di diagnosi, cura e prevenzione. Test genetici, terapie enzimatiche, screening metabolico esteso sono realtà che vanno consolidandosi in tutto il Paese, anche se persistono ancora profonde differenze in termini di cura e prevenzione tra neonati in rapporto alla regione di nascita. “Il nostro impegno come neonatologi è quello di garantire a tutti i bambini le stesse opportunità. Per un malato raro avere una diagnosi tempestiva alla nascita e quindi le cure adeguate, può fare la differenza, anche tra la vita e la morte”, sostiene il dott. Luigi Orfeo, Presidente della Società Italiana di Neonatologia (SIN). “È per questo che progetti di screening neonatale attivati a livello regionale, grazie ad alcune realtà virtuose, dovrebbero diventare più presto possibile prassi consolidata in tutto il nostro Paese, per consentire omogeneità nelle cure ad un numero di neonati sempre più ampio”.

Nel 1993 le malattie rare sono state dichiarate priorità di Sanità Pubblica dalla Commissione Europea e nel 2008 è stata istituita la Giornata delle Malattie Rare, che ha l'obiettivo di sensibilizzare l’opinione pubblica e i decisori politici sulle malattie rare e il loro impatto sulla vita dei pazienti.
In tutti questi anni molti importanti risultati sono stati raggiunti, tra questi la recente approvazione del testo finale del Piano Nazionale Malattie Rare (Pnmr) 2023-2025, che delinea gli obiettivi su diagnosi, cure, formazione e informazione, per affrontare le malattie rare e per migliorare il più possibile la qualità di vita di chi ne è affetto ed il cui iter proseguirà con il passaggio in Conferenza Stato-Regioni. Frutto del lavoro costante delle istituzioni, dei clinici, delle associazioni di pazienti e di tutti i soggetti che compongono il CoNaMr, Comitato nazionale per le malattie rare del Ministero della Salute, Frutto del lavoro del gruppo appositamente costituito presso il Ministero della Salute, composto da istituzioni e rappresentanti di Uniamo, Telethon e Orphanet, che ha lavorato dal 2019 per consegnare a maggio 2022 la bozza che è poi stata licenziata con pochissimi emendamenti dal CoNaMr,  il Pnmr è un risultato importante e per darne piena attuazione occorreranno risorse economiche ed un percorso sanitario omogeneo e sempre più efficiente, con personale adeguatamente formato e centri attrezzati per diagnostica e terapie mirate, che oggi risultano ancora, purtroppo, insufficienti.

La ricerca sulle malattie rare, infatti, va avanti, così come le possibilità di cura, ma bisogna anche pensare ad ottimizzare le risorse e rendere unico il percorso diagnostico, a partire dallo screening neonatale, uno strumento importante per la diagnosi precoce di queste malattie. L’Italia è il primo Paese in Europa per numero di patologie inserite nello screening neonatale esteso (49), con una legge che ha permesso la costruzione della rete (279/2001) e con l’arrivo dei decreti nazionali di allargamento del panel, si potrebbe dare questa opportunità anche a bimbi affetti da ulteriori malattie. L’innovazione tecnologica da un lato e la ricerca biomedica dall’altro hanno messo a disposizione del mondo sanitario e delle istituzioni opportunità di intervento in grado di cambiare la storia naturale di molte malattie rare.  Nella Giornata delle Malattie Rare, Società Italiana di Neonatologia (SIN) e UNIAMO FIMR Onlus lanciano un appello globale a tutti gli stakeholders affinché si impegnino sempre di più per migliorare le condizioni di vita delle persone e delle famiglie che si trovano ad affrontare una malattia rara, ognuno per il proprio campo di competenza.                                                                                                                              

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di Rossella Gemma

Più della metà (56,1%) tra medici e dirigenti sanitari è insoddisfatta delle condizioni del proprio lavoro e 1 su 4 (26,1%) anche della qualità della propria vita di relazione o familiare. Un sintomo inequivocabile di quanto il lavoro ospedaliero sia divenuto causa di sofferenza e di alienazione. Una insoddisfazione che cresce con l’aumentare della anzianità di servizio e delle responsabilità, tanto che i giovani medici in formazione (24,6%) si dichiarano meno insoddisfatti dei colleghi di età più avanzata (36,5%), tra i quali si raggiunge l’apice nella fascia di età tra i 45 e i 55 anni, un periodo della vita lavorativa in cui si aspetta quel riconoscimento professionale che il nostro sistema, però, non riesce a garantire. Questi i principali risultati della survey condotta dall’Anaao Assomed cui hanno risposto 2130 tra medici e dirigenti sanitari.

Possono sembrare risultati scontati, ma oggi più che mai è importante controllare e misurare la temperatura dell’insoddisfazione che serpeggia nelle corsie ospedaliere fra i colleghi riguardo alle condizioni del loro lavoro, anche perchè dal CCNL ai nastri di partenza attendiamo risposte alle necessità e alle aspirazioni dei medici e dirigenti sanitari del nostro Paese. Comprendere i motivi di un disagio diffuso, e prospettare possibili soluzioni, può contribuire a rallentare l’esodo dei medici ospedalieri verso il settore convenzionato o privato o verso l’estero, nonchè a evitare forme di ‘uberizzazione’ dell’attività medica che contribuisce a generare contratti a cottimo tanto ricchi quanto poco chiari sulle norme e sulla sicurezza. 

Per quanto riguarda i cambiamenti desiderati nel lavoro, il podio è occupato da incrementi delle retribuzioni con il 63,9 % delle risposte, e da una maggiore disponibilità di tempo con il 55,2%, con una prevalenza del fattore tempo per le donne (39,5%) sugli uomini (47,56%) che invece mirano, in maggiore misura, a retribuzioni più adeguate. Si evidenzia anche come per gli over 65 (15,8%) sia prioritaria una maggiore sicurezza rispetto ai colleghi più giovani (6,3%). Al contrario, l’esigenza dei giovani di una maggior disponibilità di tempo per la famiglia e il tempo libero è più alta (37,9 %) rispetto ai colleghi con maggior anzianità di servizio (27,6%). In generale aumento delle retribuzioni e del tempo libero hanno un peso maggiore nelle aspettative rispetto alla progressione di carriera.

La domanda finale sul futuro del proprio lavoro registra risposte che rappresentano il segnale più inquietante della crisi della più antica professione di cura.

Il 36%, ovvero quasi 1 su 3, specie nelle classi di età tra i 45 e i 55 anni, appare disposta a cambiare il lavoro attuale. Il 20% degli intervistati si dichiara ancora indeciso, segno del fatto che almeno una volta si è interrogato sul futuro della professione e sul suo ruolo all’interno del sistema. Forte è il rischio che, procedendo la sanità pubblica per la impervia strada del definanziamento e della privatizzazione, vadano ad accrescere le fila delle migliaia di desaparecidos che già oggi abbandonano la professione in cerca di altri lidi o, perché no, di altri lavori.

Se guardiamo alla collocazione geografica, non sorprende che la crisi della professione sia più sentita al sud rispetto al nord: si va dal 53,6% del nord, passando al 56,3% del Centro per finire al Sud e Isole con ben il 64,2% di insoddisfatti. Ma il dato appare talmente diffuso da configurare quasi una patologia endemica con la quale convivere e per la quale non esiste vaccino o terapia.

Invece la terapia esiste, e non è solo di carattere economico, anche se pesa il fatto che l’Italia spenda solo il 6.1% del Pil per la sanità, la cifra più bassa tra i paesi del G7, ben al di sotto della media europea di 11.3% con il costo della sanità privata pari al 2.3%, poco sopra la media europea. Per recuperare il gap accumulato con le altre nazioni occorrerebbe un incremento annuo del FSN di 10 miliardi di euro. Ma pesano anche questioni di organizzazione e di scelte politiche, se il sistema di cure universalistico non appare in grado, per come oggi è, di reggere l’onda d’urto di nuove patologie infettive o della epidemia delle patologie croniche che accompagnano il sensibile aumento della aspettativa di vita.

Occorre immaginare – propone l’Anaao Assomed - un nuovo modello che tenga nella dovuta attenzione la presa in carico del paziente, sia cronico che in acuzie, aumentando posti letto e personale, e implementando quella medicina di prossimità che appare oggi sempre più teorica, liberando i professionisti dalla medicina di carta che sottrae tempo alla cura.

Ma, soffrire, e morire, sul lavoro non è un destino, tantomeno stare male può essere accettato come fatto “normale”. Per uscire dalla attuale crisi professionale, il lavoro deve essere vissuto come fattore di cambiamento, mezzo per recuperare la autonomia nel leggere le necessità del paziente, evitando la riduzione a macchina ubbidiente. Al quale riconoscere un diverso valore, sociale e salariale, diverse collocazioni giuridiche e diversi modelli organizzativi che riportino i medici e i dirigenti sanitari, e non chi governa il sistema campando sul lavoro altrui, a decidere sulle necessità del malato.

Serve una profonda riprogrammazione strategica delle politiche sanitarie, un cambio di paradigma che realizzi un netto investimento sul lavoro professionale, che nella sanità pubblica rappresenta il capitale più prezioso. Altrimenti anche il Pnrr rappresenterà la ennesima occasione perduta.

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di Rossella Gemma

Circa un neonato ogni 100 nati vivi in Italia è affetto da una cardiopatia congenita, definita come una anomalia del cuore e/o dei grandi vasi, già presente durante la vita fetale. Le cardiopatie congenite rappresentano il 40% di tutte le malformazioni: hanno una mortalità del 4% in epoca neonatale (periodo che comprende i primi 28 giorni di vita) ed un rischio di complicanze ed esiti che differisce in base alla severità e complessità del difetto presente. Alcune cardiopatie congenite sono definite critiche: sono tutte quelle malformazioni semplici o complesse a rischio di scompenso acuto e che necessitano di una procedura interventistica o correzione chirurgica entro il primo mese di vita; si stima una prevalenza di 1 ogni 1000 nati vivi. Rientrano nella categoria delle cardiopatie congenite critiche la sindrome del cuore sinistro ipoplasico, le cardiopatie con ostruzione all’efflusso sinistro (stenosi aortica severa, coartazione aortica, interruzione dell’arco aortico), le cardiopatie con ostruzione all’efflusso destro (stenosi polmonare critica o atresia della polmonare a setto intatto, Tetralogia di Fallot estrema), la trasposizione delle grandi arterie, il ritorno venoso polmonare anomalo totale.

In occasione della Giornata Mondiale delle cardiopatie congenite, che ricorre il 14 febbraio, la Società Italiana di Neonatologia (SIN) e la Società Italiana di Cardiologia Pediatrica e delle Cardiopatie Congenite (SICP), sensibilizzano le famiglie riguardo a questo tema, per una corretta informazione su un percorso di prevenzione, diagnosi e cura mirati a queste patologie. Le cardiopatie congenite, come tutte le malformazioni, riconoscono una patogenesi multifattoriale, nella quale giocano un possibile ruolo fattori ambientali e tossici, accanto a fattori genetici, sempre più frequentemente identificati. Tra le misure preventive possibili, idonee a ridurre il rischio di insorgenza di malformazioni congenite, la dieta ricca di acido folico (supplementazione da iniziare almeno tre mesi prima del concepimento), l’adozione di stili di vita appropriati (evitare alcuni farmaci, fumo e alcool) durante l’intera gravidanza e la vaccinazione contro le principali malattie infettive a rischio teratogeno, risultano particolarmente raccomandate.

In considerazione di un possibile esordio clinico neonatale a carattere di emergenza, la diagnosi prenatale risulta fondamentale per una corretta definizione del difetto cardiaco congenito e per la pianificazione del parto in Centri dotati di cardiologia pediatrica, terapia intensiva cardiologica e cardiochirurgia pediatrica, al fine di intervenire tempestivamente già  nei primi giorni di vita.  La sensibilità diagnostica prenatale delle cardiopatie congenite in Italia si pone su livelli elevati (all’incirca del 65-70%) e consente, in particolare, l’identificazione di quelle malformazioni che si accompagnano a sbilanciamento delle camere cardiache. Tuttavia, la peculiarità della circolazione fetale può mascherare una anomalia congenita critica e alterare poco la crescita fetale. La criticità si evidenzierà solo dopo la nascita, quando avviene la transizione dalla circolazione fetale alla circolazione di tipo adulto. Inoltre, alcune patologie critiche hanno la caratteristica di evolvere, ovvero possono peggiorare con l’avanzare della gravidanza ed è quindi importante ripetere le ecografie fetali, studiando, in particolare, la morfologia cardiaca, attorno alla 34a-36a settimana di gestazione.

Se l’ecografia prenatale pone il sospetto di cardiopatia congenita critica, il parto dovrebbe avvenire in contesti ospedalieri in cui è possibile l’intervento multidisciplinare (cardiologi, cardiologi interventisti, neonatologi e cardiochirurghi). Per questo è spesso necessario il trasferimento della gravida in centri di secondo livello dotati di cardiologia pediatrica interventistica e cardiochirurgia; in qualche caso, per esigenze di pianificazione del timing della nascita, può essere proposta l’induzione del parto o, in casi selezionati, anche il parto con taglio cesareo. Se la diagnosi non è nota, una precisa anamnesi ostetrica (infezioni, diabete, farmaci) ed un accurato esame clinico del neonato possono supportare il pediatra nel sospettare una cardiopatia congenita nelle prime 48-72 ore di vita. La valutazione del colorito cutaneo (cianosi, pallore), del respiro (respiro veloce o difficoltoso), dei polsi femorali (deboli/assenti), del ritmo cardiaco (in genere accelerato), l'auscultazione cardiaca (presenza di soffi cardiaci peraltro non udibili nel 50% delle cardiopatie congenite critiche) possono orientare verso un quadro clinico ascrivibile ad una cardiopatia congenita.

Il controllo della saturazione di ossigeno (pulsossimetria) al neonato prima della dimissione dal Nido è una metodica diffusa e potenzialmente utile per aiutare nella diagnosi, ma solo alcune forme (quelle cianogene, cioè associate a basso contenuto di ossigeno nel sangue periferico) vengono facilmente intercettate, mentre in altri casi il test risulta normale (saturazione normale), anche se il difetto è presente. In questi neonati i sintomi compaiono spesso dopo la dimissione e per tale motivo è fondamentale istruire i genitori a cogliere eventuali segni clinici precoci di malessere del neonato al domicilio (alterazione del colorito, difficoltà ad alimentarsi, aumento della frequenza respiratoria), che richiedono una valutazione clinica tempestiva  e programmare, comunque, in per tutti i neonati una visita pediatrica di controllo entro i 10 giorni di vita per confermare il benessere del piccolo.

Qualora una cardiopatia congenita critica venga sospettata, la diagnosi finale è affidata alla ecocardiografia che consente di precisare in dettaglio il tipo di anomalia presente e di dare indicazioni sulle opzioni di trattamento. In molti casi, queste malformazioni si definiscono dotto-dipendenti, in quanto la stabilità del neonato è legata alla presenza del dotto di Botallo, struttura fetale che tende a chiudersi dopo la nascita. Per questo motivo è fondamentale iniziare prontamente un farmaco “salvavita”: le prostaglandine, che riaprono il dotto. Sarà, poi, l’intervento (chirurgico o in emodinamica) a risolvere l’emergenza con risultati ottimali e definitivi nella maggioranza dei casi. I neonati trattati successivamente necessiteranno di regolari controlli ambulatoriali presso le cardiologie pediatriche, affidati ad una equipe multidisciplinare con competenze anche pediatriche e neurologiche integrate, al fine di garantire una adeguata crescita ed un adeguato sviluppo psicomotorio. Il parto a volte lontano da casa, la precoce separazione del neonato dalla mamma per la corretta stabilizzazione, il ricovero in Terapia Intensiva, la necessità di un intervento correttivo precoce sono tutti elementi che mettono alla prova la coppia che ha appena accolto il proprio piccolo. È precipuo compito degli operatori essere non solo esperti, ma anche sensibili e disponibili alla comunicazione, per ridurre al massimo il disagio emotivo di mamma e papà ed accompagnarli nel percorso difficile, ma spesso ad esito positivo.

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di Rossella Gemma

La prevenzione e la salute al femminile sono importanti. Il corpo della donna richiede, infatti, attenzione e cure mirate, diverse e specifiche per ogni età e fase della vita. Allo stesso modo è fondamentale avere la giusta formazione e gli strumenti più adeguati, per prevenire e prendere in carico le patologie che possono compromettere il benessere della donna, della coppia e della diade madre-neonato.

EuTylia Academy, network di formazione ed aggiornamento professionale per medici ed operatori sanitari specializzati nella salute della donna, presenta il programma di corsi per il 2023. I massimi esperti a livello nazionale interverranno su temi di grande attualità, con un focus sulle ultime novità scientifiche e tecnologiche e sulle best practices in ambito ginecologico ed ostetrico. “I disturbi del ciclo: conoscerli per curarli”, Responsabile scientifico il Prof. Costantino Di Carlo (Policlinico Università Federico II di Napoli) e l’intervento del Prof. Carlo Alviggi (Policlinico Università Federico II di Napoli), aprirà, il 3 marzo, il ciclo di incontri, che si svolgeranno presso la sede di EuTylia Academy, affrontando problematiche come la diagnosi differenziale, la sindrome dell'ovaio policistico (PCOS), gli ipogonadismi, amenorree da causa ipotalamica, ipofisaria ed ovarica, Deficit ipofisario ed ovarico: dalla PMA alla preservazione della fertilità.

Quattro saranno gli appuntamenti dedicati alla diagnostica: “Ecografia ginecologica”, con la Prof.ssa Caterina Exacoustos (Dipartimento ad Attività Integrata di Scienze Chirurgiche, UOC di Ginecologia, Fondazione Policlinico Tor Vergata, Roma) e la Dr.ssa Brunella Zizolfi (Policlinico Università Federico II di Napoli), “Ecografia delle anomalie cerebrali fetali nel primo trimestre e delle anomalie del Cono-Tronco”, Responsabili scientifici il Prof. Gianluigi Pilu (Policlinico di S. Orsola, Bologna) ed il Dr. Paolo Volpe (Ospedale di Venere, Bari), “Ecografia in sala parto”, in collaborazione con il Policlinico di Milano, Mangiagalli Center e l’Università di Parma e l’intervento del Prof. Enrico M. Ferrazzi, del Prof. Tullio Ghi e della Dr.ssa Floriana Carbone ed “Ecografica Ostetrica”, in collaborazione con SIGO Young – AOGOI giovani (Presidenti Prof. Nicola Colacurci / Prof. Antonio Chiàntera).

Grande attenzione sarà riservata, inoltre, alla Colposcopia (Dr. Vincenzo M. Prestia, Ospedale di Vizzolo Predabissi, MI) ed alla Isteroscopia, con due incontri (Prof. Attilio Di Spiezio Sardo, Policlinico Università Federico II di Napoli).

Alle “Emergenze in Sala Parto” saranno, infine, dedicate tre giornate ECM, sostenute da EuTylia Academy, in collaborazione con Gruppo GEO, Gruppo Emergenze Ostetriche, Responsabile Scientifico Dott. Claudio Crescini (Ospedale Treviglio-Caravaggio di Treviglio, BG), per preparare ginecologi ed ostetriche che lavorano in sala parto ad affrontare con competenza e sicurezza le più comuni situazioni di urgenza e di emergenza, concentrandosi sulla distocia di spalle, sul parto operativo con ventosa e sull’importanza del supporto ecografico. Nei tre giorni si terrà anche una simulazione pratica di Ecografia in Sala parto (Dott.ssa Floriana Carbone e Dott. Enrico Iurlaro, Policlinico di Milano, Mangiagalli Center).

Il programma di corsi di EuTylia Academy rappresenta un'occasione unica per ginecologi ed ostetriche per aggiornare le loro conoscenze e migliorare la pratica clinica, grazie al confronto con gli specialisti del settore, per orientare la donna verso una corretta prevenzione e garantire un’assistenza sempre più sicura. Iscrizione e partecipazione ai corsi sono a titolo completamente gratuito. Per info: Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo. - www.eutylia.it

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di Rossella Gemma

Non può capitare nulla”. È la preoccupante convinzione con cui i giovani maschi approcciano le problematiche andrologiche e le malattie sessualmente trasmissibili. Non se ne preoccupano perché semplicemente non le conoscono, nonostante siano online praticamente tutto il giorno. Le informazioni sui rischi e sui pericoli per la salute sessuale maschile, infatti, sono spesso sommarie: ad esempio solo un ragazzo su 5 è consapevole che le malattie andrologiche possano causare infertilità. E, addirittura, oltre il 50% dei ragazzi, soprattutto i più giovani, delle 30 e più malattie sessualmente trasmissibili, arriva ad elencare soltanto l’AIDS/HIV.  Non stupisce quindi che meno del 5% degli under 35 si è sottoposto a un controllo andrologico, soprattutto da quando non c’è più la visita di leva, con il rischio di arrivare alla diagnosi di un problema molto tardi. 

Alla luce di questi dati preoccupanti diffusi dalla Società Italiana di Andrologia (SIA), per migliorare le conoscenze dei giovani e diffondere la prevenzione andrologica, la SIA ha chiamato i rinforzi e ha chiesto l’intervento dell’Esercito Italiano e della Croce Rossa Italiana (CRI). La nuova campagna di sensibilizzazione #e-SIA-prevenzione coinvolgerà infatti, nei prossimi due anni, proprio i giovani militari, la CRI, ma anche tutti i ragazzi che frequenteranno o si rivolgeranno a una delle oltre 2.500 tra autoscuole e studi di consulenza automobilistica dell’Unione Nazionale Autoscuole e Studi di Consulenza Automobilistica (UNASCA), che aderisce alla campagna assieme alla Società Italiana Medici Certificatori (SIMCE). L’iniziativa sarà anche l’occasione per un’indagine in collaborazione con l’International University of Languages and Media (IULM), che consentirà uno studio sociologico e statistico sul tema della prevenzione e diffusione delle malattie andrologiche fra i giovani; la campagna culminerà a giugno 2023 con la Giornata Andrologica di Primavera, un grande appuntamento dedicato all’informazione che si terrà a Roma in concomitanza con il Congresso Nazionale SIA.

La campagna di sensibilizzazione andrologica #e-SIA-prevenzione vuole intercettare i giovani e far capire loro che devono e possono rivolgersi all’andrologo senza paura – spiega Alessandro Palmieri, Presidente SIA e Professore di Urologia alla Università Federico II di Napoli –. Sono 2 milioni gli under 35 con un problema andrologico, ma solo 1 su 5 sa che può compromettere la fertilità, solo il 33% dei diciottenni maschi, per esempio, usa sempre il profilattico, pochissimi hanno chiaro cosa siano le malattie a trasmissione sessuale: per oltre il 50% esiste solo l’AIDS. I ragazzi di oggi hanno le stesse conoscenze e le stesse idee di quelli di 10 anni fa, con l’aggravante che oggi la tecnologia consente un’informazione continua – avverte Palmieri -. Il fattore tempo è dunque fondamentale per evitare che patologie banali diventino irreversibili. Purtroppo molti pazienti con malattie congenite o acquisite dell’apparato riproduttivo e sessuale per vari motivi, dalla disinformazione alla timidezza e la scarsa confidenza, non si rivolgono all’andrologo e raramente ne parlano ai medici di medicina generale, finendo anche per sviluppare ansie e fobie di ogni tipo”.

La campagna si rivolge sia ai giovani militari, che, con l’aiuto dei medici e degli infermieri, saranno coinvolti anche come testimonial in spot su web e social di SIA e attraverso conferenze informative in Accademie, Scuole, Comandi e Caserme dell’Esercito Italiano, sia alle varie componenti della Croce Rossa Italiana. Entrambi potranno accedere ai materiali informativi resi disponibili online e aumentare le conoscenze sulle patologie andrologiche. 

"Da sempre l'Esercito Italiano è molto attento alla salvaguardia della salute dei giovani ed è quindi veramente un piacere poter collaborare ad un'iniziativa così meritoria – dichiara il Tenente Generale Massimo Barozzi dell’Esercito Italiano -.  Anche come medico, sono ben consapevole dell'importanza delle campagne di medicina preventiva, e in particolare in un settore misconosciuto e sottovalutato da parte della popolazione maschile italiana, ma molto spesso foriero di problematiche che possono avere serie conseguenze sulla salute, fisica e psicologica, e sulla qualità della vita e che possono essere in molti casi evitate con semplici interventi terapeutici. Un'adeguata informazione ed educazione sanitaria, come quella che sarà garantita da questa campagna, è quindi fondamentale".

“Da sempre la Croce Rossa Italiana è attiva in progetti e campagne di prevenzione volti a tutelare la salute pubblica e a promuovere stili di vita sani - aggiunge Rosario Valastro, Presidente della Croce Rossa Italiana -. Per questa ragione, abbiamo accolto con favore la proposta della Società Italiana di Andrologia di collaborare a questa iniziativa, volta ad informare i giovani sui rischi e sulla diffusione delle malattie andrologiche. Questa campagna ha il duplice scopo di rendere più consapevoli gli under 35 sulle cause e sugli effetti di questo tipo di patologie ma anche di misurare le loro conoscenze a riguardo. Due elementi fondamentali per promuovere un’educazione alla salute inclusiva e responsabile”.

La campagna inoltre vede la partecipazione di oltre 2.500 autoscuole e agenzie di pratiche automobilistiche di UNASCA, con cui vengono in contatto moltissimi giovani nella fascia dai 16 ai 35 anni per conseguire una patente di guida o gestire documenti relativi ai propri mezzi di trasporto: nelle autoscuole e agenzie e sui loro siti, oltre che sul sito web UNASCA, sarà possibile accedere ai materiali informativi o scaricarli, inoltre i medici SIMCE durante la visita per la patente informeranno i giovani in merito alla campagna. “Siamo lieti di partecipare a questa iniziativa, perché si tratta di una campagna di sensibilizzazione e di prevenzione di grande significato e utilità sociale, volta a tutelare le nuove generazioni”, commenta Antonio Datri, Presidente di UNASCA.

Le autoscuole e studi consulenza automobilistica, così come Esercito e la Croce Rossa Italiana, informeranno infatti i giovani anche in merito all’indagine in collaborazione con IULM per valutare le conoscenze, le difficoltà, le esperienze in materia di malattie andrologiche così come gli ostacoli alla prevenzione e i comportamenti a rischio. Online su web o su smartphone i partecipanti potranno rispondere a un questionario che prevede 30 domande a cui se ne aggiungono 15 per la/il partner.  

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di Rossella Gemma

C’è un nuovo tassello nella conoscenza di come il sistema immunitario combatte il cancro e soprattutto di come possa essere aiutato a farlo. Il “mantello dell’invisibilità” che i tumori indossano per nascondersi dalle nostre difese immunitarie può essere sollevato, così che l’immunoterapia possa funzionare anche contro le neoplasie che non rispondono alle terapie standard. Potrebbe essere possibile “risvegliare” la memoria immunitaria di vaccinazioni eseguite da bambini, iniettando nel tumore antigeni contro cui erano diretti i vaccini dell’infanzia, riattivando così la risposta immune contro il cancro.  

Lo suggerisce uno studio coordinato dall’IRCCS Ospedale Policlinico San Martino di Genova con l’Università di Genova, l’Università del Piemonte Orientale e ’Istituto di Tecnologie Biomediche del CNR di Segrate (Milano), appena pubblicato sul Journal for Immunotherapy for Cancer, che su modello animale ha dimostrato come questo approccio possa arrestare la crescita, fino a debellare, anche tumori molto aggressivi. I ricercatori hanno iniettato nel microambiente tumorale nanoparticelle di fibroina, una proteina della seta, usandole come un vero “cavallo di Troia”. Le cellule tumorali, “ghiotte” di fibroina, hanno assorbito le nanoparticelle e con loro l’ovalbumina che contenevano e contro cui gli animali erano già stati vaccinati. La memoria immunitaria del vaccino ha così riacceso la risposta immune, che si è diretta contro il tumore: una nuova strategia che potrebbe perciò arricchire il ventaglio delle possibilità dell’immunoterapia ampliandola ai casi in cui i tumori riescono a nascondersi alle cellule-sentinella dell’organismo. 

 

L’immunoterapia consiste nell’armare il sistema immunitario dell’organismo contro le cellule tumoraliIl tumore, sin dalle sue primissime fasi, riesce spesso a nascondersi grazie ad una sorta di ‘mantello dell’invisibilità’ che gli consente di sfuggire al riconoscimento da parte del sistema immunitario e quindi di crescere indisturbato” - spiega Gilberto Filaci, direttore dell’Unità di Bioterapie del San Martino e coordinatore dello studio –  “Lo scopo delle immunoterapie contro il cancro precisa - è rendere nuovamente visibile il tumore alle cellule immunitarie, così che possano riconoscerlo come ospite indesiderato e distruggerlo. Il vaccino sarebbe l’immunoterapia ideale - sottolinea Filaci - vaccinare il paziente contro un componente del suo tumore dovrebbe far sviluppare una risposta immunitaria capace di aggredire la neoplasia, esattamente come accade contro un agente infettivo quando si viene vaccinati contro di esso. Ma i tentativi fatti per sviluppare vaccini antitumorali hanno spesso fallito in termini di efficacia clinica perché i tumori riescono a impedire o spegnere le risposte immunitarie contro le proprie componenti molecolari. I tumori però nulla possono contro le risposte immunitarie già esistenti, come quelle che si sviluppano quando ci si vaccina da bambini contro il tetano, l’epatite virale o la difterite – sostiene Filaci - I pazienti con tumore non contraggono queste malattie proprio perché mantengono la protezione immunitaria contro di esse”. Da qui è nata l’idea di rendere il tumore visibile come se fosse un bersaglio contro cui si è già stati vaccinati in precedenza, in modo da dover soltanto risvegliare una risposta immunitaria già presente. 

Per farlo i ricercatori hanno utilizzato modelli animali di melanoma e di tumore della vescica; gli animali sono stati precedentemente vaccinati contro l’ovalbumina, quindi una volta che il tumore si è sviluppato sono state iniettate nella neoplasia nanoparticelle contenenti ovalbumina, tre volte a distanza di una settimana. Reindirizzando contro il tumore la potente risposta immune, che deriva da una vaccinazione precedente allo sviluppo della malattia, è stato possibile l’arresto della crescita o, in alcuni casi, la scomparsa della massa tumorale.

Per introdurre all’interno del tumore l’antigene, l’ovalbumina, contro cui era stato eseguito il vaccino, abbiamo utilizzato un vero e proprio ‘cavallo di Troia’, ovvero nanoparticelle di fibroina – racconta Marina Torre, ordinario di Tecnologia Farmaceutica all’Università del Piemonte Orientale -. I tumori sono particolarmente ‘ghiotti’ di queste piccolissime particelle, che possono essere caricate di ovalbumina e iniettate direttamente nel tumore, riempiendo letteralmente le cellule cancerose di antigene. Il sistema immunitario dei topolini vaccinati si accorge subito della presenza di ovalbumina nel tessuto neoplastico, aggredendolo: questo ha consentito di arrestare la crescita del tumore e, in molti animali, ha portato alla sua completa distruzione”.

"L’analisi proteomica dei tessuti ha confermato l’efficacia del trattamento ed evidenziato come il microambiente tumorale si sia drasticamente modificato – aggiunge Dario Di Silvestre, ricercatore dell’Istituto di Tecnologie Biomediche del CNRe componente del team di Proteomica e Metabolomica che ha collaborato allo studio – 245 e 332 proteine sono risultate differenzialmente espresse rispettivamente dal melanoma e dal tumore della vescica negli animali che hanno ricevuto le nanoparticelle rispetto ai controlli. L’effetto ha avuto un impatto evidente su diversi meccanismi molecolari, inclusi quelli relativi alla progressione tumorale e alla formazione di nuovi vasi sanguigni che nutrono i tumori. Approcci computazionali nell’ambito della biologia dei sistemi hanno inoltre messo in luce la centralità di specifiche proteine, nella risposta immunitaria attivata dal trattamento e nella cascata di eventi susseguenti. Ruolo che le candida a target d’indagine e approfondimento per studi futuri.”

“Questa strategia immunoterapica innovativa presenta numerosi vantaggi - conclude Filaci - Può infatti essere applicata a ogni paziente, perché l’unico requisito richiesto è che sia stata ricevuta almeno una vaccinazione pediatrica che possa essere sfruttata per reindirizzare contro il tumore la risposta immune. Inoltre, l’approccio è possibile contro ogni forma di tumore e la procedura di somministrazione è molto semplice e praticabile ovunque, perché è sufficiente pungere il tumore per iniettare le nanoparticelle caricate con l’antigene giusto, senza necessità di attrezzature sofisticate. Naturalmente rimane molta strada da fare prima che questo nuovo approccio terapeutico possa essere somministrato ai pazienti, ma cercheremo di percorrere rapidamente le tappe necessarie a raggiungere questo traguardo”. 

 

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di Rossella Gemma

Dallo yoga all’agopuntura, dalla nutrizione personalizzata a specifici programmi di fitness, fino a consulenze psicologiche e integratori naturali. Le cosiddette ‘terapie integrate’ possono essere di grande aiuto per le donne in cura contro un carcinoma mammario. Possono infatti rendere i trattamenti più sopportabili, favorendo così l'aderenza terapeutica, e anche più efficaci. Tuttavia, nel nostro Paese meno di una paziente con tumore al seno su due ricorre alle terapie integrate perché il più delle volte nessuno gliene parla o per assenza di disponibilità nella struttura in cui sono in cura. La ricerca oncologica deve concentrarsi anche su queste tematiche strettamente legate alla qualità di cura e di vita per le pazienti affette da tumore al seno. Ad alzare il velo su questa carenza sono gli specialisti della Rete Oncologica Pazienti Italia (ROPI, www.reteoncologicaropi.it), in una ricerca sull'argomento presentata in occasione del primo incontro “Terapie integrate e carcinoma mammario” che si è tenuto questa mattina a Roma presso la Fondazione Policlinico “A. Gemelli” IRCCS.

“Le terapie integrate in oncologia consistono nella combinazione di cure mediche standard con trattamenti complementari, al fine di migliorare la tolleranza alle terapie antitumorali e nella promozione di stili di vita salutari – spiega Stefania Gori, Direttore del Dipartimento Oncologico IRCCS Sacro Cuore Don Calabria di Negrar di Valpolicella e Presidente Rete Oncologica Pazienti Italia (ROPI) -. Promuovere sani stili di vita può ridurre il rischio di recidive tumorali o l’insorgenza di secondi tumori legati al persistere di abitudini comportamentali a rischio”

Nelle terapie integrate incluse nelle linee guida della SIO (Society for Integrative Oncology) accettate anche dalla Società Americana di Oncologia Medica (ASCO), vengono incluse musicoterapia, meditazione e yoga per la riduzione dell’ansia/stress; meditazione,  rilassamento,  yoga, massaggi e musicoterapia per la depressione/disturbi dell’umore; meditazione e  yoga per migliorare la qualità della vita; digitopressione e agopuntura per ridurre la nausea e il vomito indotti dalla chemioterapia. 

“Nonostante le numerose evidenze scientifiche che dimostrano l'efficacia delle terapie integrate nel migliorare la qualità della vita delle pazienti e, di conseguenza, anche l'aderenza terapeutica, nonché nel ridurre il rischio recidive, in Italia sono ancora sottoutilizzate – aggiunge Alessandra Fabi, responsabile della Medicina di Precisione Neoplasia della Mammella al Policlinico Universitario A. Gemelli IRCCS e, insieme alla dr.ssa Gori, coordinatrice dell’evento di questa mattina –. Questo perché in parte c'è una scarsa formazione dei medici e in parte perché non tutte le strutture prevedono al loro interno servizi e consulenze mirate a tale scopo. È importante concentrarsi anche sulla ricerca scientifica per sperimentare modalità di nuovi interventi che migliorino la qualità di vita delle pazienti oggi lungosopravviventi”.

La ricerca è stata condotta attraverso l'analisi delle risposte a circa 200 questionari sottoposti a pazienti con carcinoma mammario avanzato in fase precoce e in fase avanzata, in cura in diverse strutture in Italia, in un periodo che va da ottobre a dicembre 2022. Dai risultati – che saranno presentati da Fabrizio Nicolis- Rete Oncologica Pazienti Italia-è emerso che solo il 46% delle donne con carcinoma mammario ha utilizzato una o più terapie integrate. Di queste donne, il 74% ne ha avuto accesso al di fuori del SSN e ne ha usufruito per gestire meglio gli effetti collaterali, sia fisici che psicologici, delle terapie e della malattia. Tra le terapie integrate a cui si ricorre maggiormente ci sono le cosiddette “discipline body-mind” (22%), tra cui lo yoga, il tai chi, il Qui gong, la mindfullness; e in egual misura (22%) le cosiddette “terapie complementari”, cioè agopuntura, shiatsu, riflessologia. Seguono l'arteterapia (5%), la musicoterapia (2%) e altre non ben specificate.

“Nonostante il 96% delle pazienti ritiene di aver tratto beneficio dalle terapie integrative, il 54% delle donne con carcinoma mammario – riferisce la dr.ssa Fabi – non ne ha utilizzata neanche una. La metà di queste pazienti perché non ne ha sentito parlare, il 30% perché non ne ha voglia e tempo, e il 15% perché non ha possibilità di accedervi nella zona in cui vive”.

Tra le pazienti che hanno ricorso alle terapie integrate, il 51% si è rivolto a professionisti privati e solo il 21% ne ha usufruito presso il proprio centro di cura. Mentre il 23% ha avuto accesso grazie alle associazioni di volontariato.

“I dati indicano chiaramente la necessità di diffondere nozioni relative alle terapie integrate tra gli oncologi e tra quanti gestiscono le pazienti con carcinoma mammario – aggiunge la dr.ssa Gori – per permettere la diffusione di una cultura basata sull’evidenza relativa a queste terapie, evitando informazioni non veritiere e il ricorso a terapie alternative da parte delle pazienti. E questo è importante sia per il numero elevato di nuove diagnosi di carcinoma mammario in Italia, nel 2022 è stato infatti il tumore più frequentemente diagnosticato (55.700 casi, +0,5% rispetto al 2020), sia per i progressi ottenuti dai trattamenti oncologici nei confronti del carcinoma mammari in fase precoce e in fase metastatica”.

“L’importanza della qualità di vita deve sempre essere un obiettivo della ricerca clinica in ambito oncologico – conclude Massimo Di Maio, Dipartimento di Oncologia, Università degli Studi di Torino, direttore dell’Oncologia dell’A.O. Ordine Mauriziano di Torino, e segretario nazionale AIOM –. Questo argomento è stato spesso relegato a endpoint ‘Cenerentola’ della ricerca, ma negli ultimi anni sta acquistando un’importanza crescente per la comunità scientifica e anche nel processo di valutazione dei farmaci da parte delle agenzie regolatorie. La ricerca oncologica deve valorizzare il punto di vista dei pazienti sulle terapie che ricevono. Trovo culturalmente importante che si discuta e si faccia formazione scientifica su questo tema”.  

 

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di Rossella Gemma

L’OMS e l’UNICEF così come il Ministero della Sanità sottolineano l’importanza di un‘assistenza che metta al centro i bisogni di salute della diade madre-neonato. La Società Italiana di Neonatologia (SIN), la Società Italiana di Pediatria (SIP), la Società Italiana di Ginecologia ed Ostetricia (SIGO) e l’Associazione Ostetrici e Ginecologi Ospedalieri Italiani (AOGOI), come principali società scientifiche italiane d’area perinatale, sono da tempo impegnate nel promuovere la relazione madre-bambino e l’allattamento al seno, investimenti duraturi con positivi risvolti socio-sanitari.

La moderna organizzazione delle Maternità attualmente prevede la gestione congiunta di madre e bambino, il cosiddetto rooming-in, che va proposto fornendo il necessario sostegno pratico e psicologico alla nuova famiglia.

La gestione separata di madre e neonato, prevalente in epoche passate, ostacola invece l’avvio della relazione genitore-famiglia-neonato, è contraria alla fisiologia, anche dell’allattamento, e non garantisce da eventi neonatali imprevisti e tragici. Facciamo riferimento in particolare al “collasso post natale” conosciuto come SUPC (Sudden Unexpected Postnatal Collapse). Si tratta di un evento improvviso ed inaspettato, molto raro (colpisce 8 neonati ogni 100 mila), ma documentato a livello internazionale. Si verifica nella prima settimana di vita, a volte a causa di patologie sottostanti non diagnosticate, ma il più delle volte in bambini apparentemente sani. Le attuali indicazioni delle società scientifiche per prevenirla si basano sull’eliminazione nei limiti del possibile dei fattori di rischio associati.

La condivisione del letto fra una madre vigile ed un neonato sano, messo in una posizione di sicurezza, è un fatto naturale, pratico, indiscutibile. Le società scientifiche però attualmente raccomandano di evitare la condizione del co-sleeping, giudicata non sicura, suggerendo di riporre il bambino a fine poppata nella propria culla, in particolare quando non siano presenti altri caregiver (familiari o operatori sanitari). Questa prudenza è giustificata ben oltre la permanenza di mamma e bambino nel Punto Nascita e interessa tutti i primi 6 mesi di vita.

È però inevitabile che, nonostante tutte le cautele, mamma e bambino possano spontaneamente addormentarsi nello stesso letto. Si tratta di un evento che più che essere drammatizzato, richiede un rinforzo di informazione alle famiglie sulla sicurezza del bambino durante il sonno.

La carenza a livello nazionale del personale sanitario, pesantemente sofferta anche nell’area del percorso nascita, non è motivo sufficiente per giungere ad ipotizzare proposte assistenziali involute e di minore qualità come la gestione separata di madre e bambino.

In conclusione, SIN, SIP, SIGO-AOGOI sottolineano il valore essenziale della pratica del rooming-in, raccomandando che l’implementazione del rooming-in per essere appropriata preveda che le famiglie siano adeguatamente informate, coinvolte e supportate e che gli operatori sanitari offrano un’assistenza per quanto possibile individualizzata ed empatica in modo che l’indicazione istituzionale a praticare il rooming-in sia declinata in maniera appropriata.

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di Rossella Gemma

Il colesterolo rappresenta uno tra i più importanti fattori di rischio cardiovascolare, causando per il Servizio sanitario nazionale un impatto clinico, organizzativo ed economico enorme. Basti pensare che in Italia, ogni anno, muoiono più di 224mila persone per malattie cardiovascolari: di queste, circa 47mila sono imputabili al mancato controllo del colesterolo. I costi, in termini di spesa sanitaria diretta e indiretta sono quantificabili in circa 16 miliardi di euro l’anno. Nonostante questo scenario, su oltre 1 milione di pazienti a più alto rischio l’80% non raggiunge il target indicato dalle più recenti linee guida internazionali.

Fortunatamente in quest’area le terapie a disposizione, tutte estremamente efficaci, hanno portato evidenze scientifiche robuste e consolidate negli anni sul loro valore preventivo e curativo sia in prevenzione primaria sia in prevenzione secondaria, ma oggi è necessario intervenire ulteriormente perché ci sono bisogni insoddisfatti.

Su questo tema e sulle possibilità di potenziare e migliorare il percorso di prevenzione, diagnosi e cura delle malattie cardiovascolari si sono interrogati gli esperti all’evento “PNRR, IPERCOLESTEROLEMIA, RISCHIO CARDIOVASCOLARE TRA BISOGNI IRRISOLTI, INNOVAZIONE E NUOVE NECESSITÀ ORGANIZZATIVE – TRIVENETO”, organizzato da Motore Sanità con il contributo incondizionato di Daiichi-Sankyo.

Come cardiologo ho un problema molto serio: quello di garantire il target lipidico nei pazienti che hanno avuto una sindrome coronarica acuta”, conferma Claudio Bilato, Presidente ANMCO Veneto e Delegato SIPREC - Società Italiana per la Prevenzione Cardiovascolare Triveneto. “Ciò, probabilmente, è dovuto al fatto che non riusciamo a controllare completamente quello che chiamiamo rischio residuo, nonostante le terapie mediche ottimali che mettiamo in atto. Questo rischio residuo è la somma di vari elementi: diabete, rischio trombotico, rischio di un’infiammazione cronica che si mantiene, ma soprattutto è legato al fatto che, molto spesso, non controlliamo in maniera adeguata i livelli di colesterolo LDL (che, con le nuove linee guida suggerite dalla Società Europa di Cardiologia e la Società Europea dell’Aterosclerosi, in pazienti a rischio cardiovascolare, vanno portati sotto il 55%)”.

Gli strumenti insomma ci sono, il problema è come riuscire a raggiungere il target organizzativo, per far sì che i pazienti che necessitano di cure appropriate possano avere la terapia appropriata. 

Ha parlato degli strumenti anche Nadia Citroni, Responsabile Centro Dislipidemie e Aterosclerosi, ospedale di Trento, con queste parole: “Da sempre ci occupiamo di pazienti con dislipidemia e per noi questo è un buon momento storico: siamo entusiasti di avere a disposizione nuove opzioni farmacologiche che ci permettono teoricamente di portare a target pazienti. In questo contesto di possibilità terapeutiche ci sono però dei limiti, come quello dell’intolleranza alle statine che riguarda il 9% dei pazienti trattati. Altra problematica, quella di portare a target pazienti che sono a rischio vascolare molto alto, o anche rischio estremo. Vediamo anche pazienti con ipercolesterolemia familiare, nei quali tante volte anche le opzioni terapeutiche disponibili associate non ci portano i pazienti a  target, per cui c’è un problema di non raggiungimento dei target nei pazienti che hanno eventi secondari. Altro capitolo importante sono le criticità organizzative e gestionali che hanno portato anche all’avvento di queste nuove terapie organizzative. Bisogna trovare percorsi legati nei vari contesti, per cercare di mettere insieme criteri di monitoraggio”.  

E poi c’è il problema dalla bassa aderenza terapeutica, sottolineato  da Giorgio Colombo, Direttore Scientifico CEFAT Centro Economia e valutazione del Farmaco e delle Tecnologia Sanitarie Università degli studi di Pavia: “Secondo i dati dell’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA), i soggetti sopra i 65 anni prendono più di 10 sostanze all’anno. Quello che mi spaventa non è tanto il numero dei farmaci, ma chi si prende in carico di ottimizzare queste terapie. Lo fa il medico di famiglia? Il farmacista? Questo è un tema importante che deve entrare in ambito di politica sanitaria. Ricordiamoci inoltre che l’aderenza dipende non solo dalla complessità del trattamento, ma anche dal costo del farmaco (compartecipazione del soggetto alla spesa). Più questo è oneroso, minore è l’aderenza del paziente. Ultima riflessione, è che quando aumenta la compartecipazione, si riduce l’aderenza e aumentano i costi per il Servizio Sanitario Nazionale. Da qui ecco le principali strategie per aumentare l’aderenza: programmi di auto-monitoraggio e auto-gestione dei medicinali, maggiore spiegazione in merito all’utilità dei farmaci e ai danni della loro scorretta assunzione, coinvolgimento diretto dei farmacisti nella gestione dei farmaci, adozione di schemi terapeutici quanto più possibile semplificati”.

Sulla presa in carico dei pazienti si è espresso Andrea Di Lenarda, Direttore SC Patologie Cardiovascolari ASUGI: “Finché anche noi specialisti siamo frammentati nel territorio, è evidente che la presa in carico di questi pazienti per portarli a target non è facile. Una delle soluzioni che abbiamo proposto e che è stata accettata per favorire la presa in carico del paziente cronico e per aumentare la probabilità di portarlo a target, è costituire un nuovo dipartimento di cure specialistiche territoriale, che mette insieme cardiologi, diabetologi, nefrologi e pneumologi”. 

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di Rossella Gemma

Alcune persone invecchiano meglio di altre, vivono molto più a lungo della media e mantengono un buono stato di salute fino alla fase più avanzata della loro vita. Questo grazie anche al loro DNA. Il gene che codifica la proteina BPIFB4, nella sua variante LAV (Longevity Associated Variant), meglio noto come “gene della longevità”, si è dimostrato, infatti, essere molto frequente nelle persone che superano i cento anni di vita. Oggi questo gene e la proteina a esso associata confermano nuovamente il loro ruolo antiaging, mostrando di poter “ringiovanire” uno degli organi più importanti dell’organismo: il cuore. La scoperta arriva da uno studio appena pubblicato su Cardiovascular Research[1], coordinato dal professor Annibale Puca del Gruppo MultiMedica di Milano e dal professor Paolo Madeddu dell’Università di Bristol, finanziato dalla British Heart Foundation e dal Ministero della Salute italiano.

L’analisi, durata 3 anni, è stata eseguita in vitro e in vivo. Nell’ambito dello studio in vitro, a opera del team MultiMedica, le cellule del cuore di pazienti anziani con problemi cardiaci e sottoposti a trapianto, provenienti dall’Azienda Sanitaria Universitaria Integrata di Udine, sono state messe a confronto con quelle di individui sani. “Le cellule dei primi, in particolare quelle che supportano la costruzione di nuovi vasi sanguigni, denominate ‘periciti’, sono risultate meno performanti e più invecchiate”, spiega Monica Cattaneo, ricercatrice del Gruppo MultiMedica, primo autore del lavoro. “Aggiungendo al mezzo di coltura di queste cellule la proteina LAV-BPIFB4, ossia quella prodotta in laboratorio che corrisponde alla variante diffusa tra i centenari, abbiamo assistito a un vero e proprio processo di ringiovanimento cardiaco: i periciti dei pazienti anziani e malati hanno ripreso a funzionare correttamente, dimostrandosi più efficienti nell’indurre nuovi vasi sanguigni”.

Un risultato coerente con quanto osservato in parallelo dall’analisi in vivo condotta a Bristol su una popolazione di topi. Somministrando, tramite vettore virale, la proteina LAV-BPIFB4 a topi anziani al fine di indurre il ringiovanimento, e a topi di mezza età per prevenire l’invecchiamento, lo studio ne ha confermato l’efficacia attraverso un miglioramento della vascolarizzazione, una più efficiente gittata del sangue e un decremento della fibrosi, che sono tre aspetti chiave per valutare lo stato di invecchiamento cardiaco. Quest’ultimo risultato corrisponde a un riavvolgimento dell'orologio biologico del cuore dell’uomo di oltre 10 anni.

“La terapia genica con LAV-BPIFB4 in modelli murini (topi) di patologia aveva già dato prova di prevenire l'insorgenza dell’aterosclerosi, l’invecchiamento vascolare e le complicazioni diabetiche, e di ringiovanire il sistema immunologico”, afferma Annibale Puca, capo laboratorio presso l’IRCCS MultiMedica e professore dell'Università di Salerno, che negli ultimi venti anni ha concentrato la propria attività di ricerca sullo studio del DNA dei centenari, arrivando a identificare una variante genica denominata LAV (Longevity Associated Variant) nel gene BPIFB4, che correla positivamente con la longevità e negativamente con il grado di compromissione cardiovascolare. “Oggi abbiamo una nuova conferma e un allargamento del potenziale terapeutico di LAV-BPIFB4. Attualmente sono in corso studi in vivo che impiegano la proteina ricombinante nel cuore anziano, nel cuore diabetico e nell’aterosclerosi. Ci auguriamo di poterne presto testare l’efficacia anche nell’ambito di trial clinici su pazienti con insufficienza cardiaca”.

Dal punto di vista pratico, se le evidenze emerse in quest’ultimo studio fossero confermate dai trial clinici, in futuro una terapia con la proteina LAV-BPIFB4 potrebbe essere adottata per il ringiovanimento non soltanto del sistema vascolare e immunologico, come precedentemente descritto dal gruppo di ricerca del professor Puca, ma anche della pompa cardiaca.