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di Rossella Gemma

Spermatozoi sani dentro e fuori: per determinare l’infertilità maschile non basta fermarsi all’aspetto ‘esteriore’ del liquido seminale – misurandone solo concentrazione, forma e motilità – ma è necessario andare a guardare anche dentro al suo DNA. I paramenti classici non sono più valori di riferimento assoluti per stabilire la linea di confine tra uomini fertili e infertili e dunque l’esame del liquido seminale non basta da solo per valutare la funzione riproduttiva maschile. E’ questo il cambio di paradigma dettato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), che, dopo ben 11 anni, ha aggiornato le linee guida per la diagnosi dell’infertilità maschile e introdotto per la prima volta nella pratica clinica lo studio del DNA spermatico, riconoscendo il potenziale diagnostico limitato dell’esame del liquido seminale, basato su valori indicativi e con esiti che possono variare anche sensibilmente in relazione all’esperienza dell’operatore che effettua e interpreta i dati. A curare l’edizione italiana delle nuove linee guida OMS sono state la Società Italiana di Andrologia (SIA) e la Società Italiana di Riproduzione Umana (SIRU). Il board scientifico incaricato dall’Oms - composto da Luca Boeri, Filippo Giacone, Luigi Montano, Tiziana Notari, Ilaria Ortensi e Paolo Turchi – l’ha resa disponibile in meno di dieci mesi online ed in formato cartaceo. 

“Il 50% dei problemi di infertilità di coppia è provocato da un problema maschile le cui cause sono inspiegate con valori nella norma in circa il 30% dei casi. E’ quindi fondamentale un migliore e più corretto inquadramento diagnostico, al fine di individuare e correggere eventuali patologie che possano compromettere la fertilità della coppia, soprattutto in un periodo storico in cui la natalità è in forte crisi, specialmente in Italia. Il nostro Paese, infatti, ha il tasso di fertilità più basso d’Europa e fra i più bassi del mondo (1,17 figli in media per donna) e oltre il 15% delle coppie ha problemi di fertilità, ovvero non riesce a concepire nel corso di un anno di tentativi non protetti  dichiarano Alessandro Palmieri, presidente SIA e Luigi Montano, presidente SIRU – L’esame per eccellenza è senza dubbio lo spermiogramma, che consiste nell’analizzare un campione di liquido seminale, valutando la concentrazione, la motilità e la forma. Ma si tratta solo di numeri che non possono condizionare il percorso di una gravidanza che è dato da tanti fattori e lo spermiogramma in assoluto non è predittivo. Resta il problema della qualità degli spermatozoi in termini di capacità fecondante che è strettamente collegato alla loro integrità genomica, oltre che allo stile di vita di chi lo produce e alle esposizioni ambientali come dimostrano i numerosi fallimenti della fecondazione sia naturale che assistita anche in pazienti con valori nella norma”.

“La diffusione dei contenuti delle nuove linee guida a tutti gli operatori dei laboratori di analisi, non solo a quelli dei centri di procreazione medicalmente assistita, per una più corretta e ampia analisi del liquido seminale migliorerà e aumenterà le diagnosi di infertilità, utili anche a fronteggiare il grave declino demografico del nostro Paese” - precisano Palmieri e Montano – Anzi, la valutazione del liquido seminale dovrebbe essere eseguita a 18 anni a tutti i giovani maschi prima della visita andrologica”.

Il Manuale OMS ha definito nuovi standard globali per migliorare la diagnosi di infertilità maschile descrivendo procedure operative ottimali, finalizzate a sostenere e a promuovere la qualità dell’analisi del liquido seminale e la comparabilità dei risultati ottenuti dai diversi operatori e laboratori.

La novità più importante della nuova versione riguarda l’inclusione dei test del DNA del liquido spermatico “L’OMS riconosce che non è più sufficiente fermarsi alla valutazione dei parametri classici, quali concentrazione, motilità e forma degli spermatozoi, ma è fondamentale integrare queste informazioni con quelle sulla frammentazione del DNA degli spermatozoi - afferma Ilaria Ortensi, componente del Comitato Esecutivo SIA, biologa tra le curatrici del nuovo Manuale.

“L’analisi della frammentazione del DNA visualizza la rottura dei filamenti del DNA degli spermatozoi, mentre la valutazione della cromatina consiste nell’esame di specifiche proteine che legano il DNA nemaspermico. Tra le procedure introdotte nello studio del DNA spermatico, sono inclusi anche i test genetici e genomici utilizzati, principalmente, per identificare il numero di cromosomi presenti negli spermatozoi” aggiunge Tiziana Notari, componente del Consiglio Direttivo SIRU e co-curatrice del Manuale.

“Nel manuale si indicano valori soglia dell’esame del liquido seminale, che non sono da considerare parametri assoluti - stigmatizza Paolo Turchi, andrologo, specialista in sessuologia e componente della SIA - Introdotti nell’edizione antecedente, sulla base di paramenti di normalità ricavati dai dati di campioni seminali di individui sicuramente fertili, le cui partner hanno concepito entro 12 mesi dalla sospensione dei metodi contraccettivi, questa tabella è stata poi aggiornata in quest’ultima edizione del 2021, sulla base dello studio di una popolazione più ampia, in termini numerici e di distribuzione geografica. Tuttavia in pratica, viene sfumata quella illusoria linea netta di demarcazione tra fertilità e infertilità”. 

“Neanche la possibilità, già attuale di eseguire l’analisi computerizzata del liquido seminale viene indicata dall’OMS come una procedura da eseguire di routine nella pratica clinica: è utile per la ricerca ma non ci sono ancora evidenze scientifiche solide che ne giustifichino l’utilizzo standard” – evidenzia Luca Boeri, andrologo, Dipartimento di Urologia, Fondazione IRCCS Cà Granda-Ospedale Maggiore Policlinico di Milano, tra i curatori del manuale. 

Altre novità riguardano le tecniche di trattamento e crioconservazione degli spermatozoi, destinate principalmente ai biologi che operano nei Centri di Procreazione Medicalmente Assistita. “In particolare, è stata introdotta la tecnica della separazione degli spermatozoi migliori, dal rimanente pool di spermatozoi presenti nell’eiaculato, attraverso l’utilizzo di un campo magnetico attivato per la selezione cellulare, che viene denominata MACS, acronimo inglese di 'Magnetic Activated Cell Sorting'” - riferisce Filippo Giacone, biologo coordinatore del gruppo di interesse speciale SIRU per la donazione e preservazione della fertilità. Attenzione, invece, viene posta alla pratica diffusa che utilizza il cosiddetto gradiente di densità discontinuo, per separare gli spermatozoi migliori dall’intero popolazione spermatica e non presente nell’eiaculato, in quanto produrrebbe un aumento della frammentazione del DNA spermatico, che tuttavia rimane la metodica elettiva nella preparazione dei campioni seminali in coppie in cui il partner maschile è portatore di infezioni virali come, ad esempio, HIV ed epatite.

Infine, nel Manuale è stata introdotta anche la tecnica di vitrificazione per la crioconservazione degli spermatozoi, una tecnica ben nota agli addetti ai lavori, che però dovrebbe essere ancora considerata una procedura sperimentale. Nel settore della ricerca è stato, poi, introdotto lo studio dei canali ionici, che apre le porte, insieme con tutti gli altri esami proposti nel Manuale, ad approfondire sempre più le conoscenze riguardo la fertilità maschile, nel tentativo di ridurre al minimo quella fetta di popolazione di coppie con infertilità, ovvero in cui le cui cause non sono note.

 

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di Rossella Gemma

Una nuova possibilità di cura per i circa 6mila pazienti in attesa di trapianto di rene: è l’obiettivo del protocollo di intesa per l’avvio di un programma pilota di donazione di rene in modalità incrociata tra Italia e Stati Uniti siglato oggi al Ministero della Salute. L’accordo è stato sottoscritto dal Centro nazionale trapianti (Cnt), rappresentato dal direttore Massimo Cardillo, e dalla Alliance for Paired Kidney Donation (Apkd), fondazione non profit che gestisce uno dei programmi di trapianto di rene da vivente negli Usa, rappresentata dal suo presidente, il professor Michael A. Rees, direttore del Centro trapianti di rene dell’University of Toledo Medical Center, in Ohio. Alla firma del protocollo erano presenti il sottosegretario alla Salute Pierpaolo Sileri e il professor Ignazio Marino, direttore esecutivo del Jefferson Italy Center, l’organizzazione che promuove le iniziative di collaborazione sanitaria tra la Thomas Jefferson University di Philadelphia e le istituzioni italiane.

 Il nuovo programma Italia-Usa riguarda i cosiddetti trapianti di rene “crossover”, ovvero quelli che avvengono attraverso il reciproco “scambio” dell’organo tra coppie nelle quali il donatore è geneticamente incompatibile con il proprio ricevente ma compatibile con il ricevente di un’altra coppia. Grazie all’accordo tra Cnt e Apkd, coppie di pazienti italiani e statunitensi potranno essere incrociate tra di loro sulla base di un algoritmo condiviso che verificherà il livello di compatibilità tra gli iscritti nelle due liste d’attesa: in questo modo, i pazienti affetti da insufficienza renale cronica e che hanno a disposizione un donatore volontario inadatto avranno una possibilità maggiore di ricevere il trapianto di cui hanno bisogno.

Oltre agli aspetti tecnico-operativi (requisiti degli ospedali aderenti, algoritmo di matching, governance complessiva delle attività), l’accordo prevede che i costi relativi alla procedura di trapianto siano a carico delle coperture assicurative Usa per il paziente statunitense e per il donatore italiano, mentre il Servizio sanitario nazionale italiano coprirà le spese per il paziente italiano e per il donatore americano. A viaggiare saranno i donatori: il prelievo e il successivo trapianto del rene avverranno infatti nel paese del ricevente. La fase pilota riguarderà i primi tre casi e sarà circoscritta a tre ospedali: per l’Italia parteciperà il Centro trapianti di rene del Policlinico Agostino Gemelli di Roma, diretto dal professor Franco Citterio, presente alla firma dell’accordo, mentre per gli Usa saranno coinvolti lo University of Toledo Medical Center e i poli ospedalieri della Thomas Jefferson University di Philadelphia. Conclusa la sperimentazione operativa e gestionale, il programma verrà rivalutato per un possibile consolidamento del protocollo e per il progressivo allargamento agli altri centri di trapianto di rene da vivente della rete italiana.

Quello con gli Stati Uniti è secondo protocollo di scambio internazionale attivato dal nostro Paese: dal 2018 è in vigore un accordo che coinvolge Francia, Portogallo e Spagna e che si è concretizzato in tre trapianti incrociati proprio con quest’ultima nazione. Dal 2015 ad oggi il programma nazionale italiano di trapianto di rene crossover ha consentito la realizzazione di 77 interventi. Complessivamente nel 2021 in Italia sono stati eseguiti 2.043 trapianti di rene, di cui 341 da donatore vivente: di questi, 5 sono stati realizzati attraverso uno scambio tra coppie di donatori e riceventi.

 “I trapianti di rene da vivente sono un’opzione terapeutica efficace per i riceventi e assolutamente sicura per i donatori, ma ad oggi rappresentano meno del 17% dei trapianti di rene eseguiti ogni anno in Italia”, commenta il direttore del Cnt Massimo Cardillo. “Si tratta di una percentuale in forte crescita ma ancora insufficiente per rispondere ai tanti pazienti ancora in attesa. Questo accordo tra Italia e Stati Uniti apre letteralmente una nuova frontiera e ci consentirà di aumentare significativamente le possibilità di stabilire match positivi tra i diversi pazienti”. L’obiettivo finale, spiega ancora Cardillo, è una rete internazionale di trapianti incrociati: “A partire da questa esperienza potremo lavorare per un accordo di cooperazione tra tutti i paesi europei che ci consenta di internazionalizzare i programmi di donazione incrociata a beneficio dei pazienti”.

 "Negli Stati Uniti circa il 20% dei 6mila trapianti di rene da vivente vengono realizzati grazie agli scambi. Crediamo che questa collaborazione tra Cnt e Apkd potrà aumentare significativamente le opportunità per i pazienti con insufficienza renale sia italiani che statunitensi", sottolinea il professor Michael Rees. "Lo scambio di reni ci dimostra come le differenze possano essere un valore e una risorsa: allargare il bacino dei donatori a cui attingere aumenta le possibilità di trapianto, perché le incompatibilità genetiche si registrano più facilmente tra persone etnicamente omogenee. L'eterogeneità della popolazione americana darà maggiori opportunità di trovare donatori compatibili per i pazienti italiani rispetto a quanto avviene oggi negli incroci con i cittadini dell'Europa meridionale".

“Attualmente circa il 30% dei trapianti di reni tra vivi sono resi impossibili dall’incompatibilità tra donatore e ricevente”, dichiara il sottosegretario Pierpaolo Sileri. “Con l’accordo di oggi, anche se al momento in fase pilota, la ricerca di una coppia donatore-ricevente che abbia una compatibilità incrociata si allarga ad una popolazione numericamente consistente e geneticamente eterogenea come quella statunitense, aumentando così le probabilità di individuare donatori compatibili per questi pazienti di difficile trapiantabilità e che diversamente sarebbero destinati alla dialisi a vita”.

 

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di Rossella Gemma

Il 10% delle donne in gravidanza nel mondo consuma in qualche momento della gestazione alcol, in forma moderata o occasionale (Rapporti ISTISAN 21/25). L'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha individuato nella gravidanza e nell’allattamento due momenti di particolare vulnerabilità all'esposizione a sostanze alcoliche, sia per la madre sia per il feto, con possibili gravi conseguenze per la salute nel lungo termine.

In occasione della Giornata mondiale della sindrome feto-alcolica e disturbi correlati, che si celebra il 9 settembre, la Società Italiana di Neonatologia (SIN) ribadisce quanto l’esposizione all’alcol, seppur moderata, possa comportare seri rischi, sia per la madre, sia per il feto, con possibili gravi conseguenze per la salute nel lungo termine. Tra queste, la FASD, o Spettro dei Disturbi Feto Alcolici, una disabilità permanente neurocognitiva, conseguente all'esposizione all'etanolo in utero, di cui la FAS, o Sindrome Feto Alcolica ne è la forma clinica più grave e pienamente espressa.

“L’alcol passa sempre attraverso la placenta, a prescindere dall’epoca gestazionale, dalla quantità assunta o dal tipo di bevanda e anche un consumo “occasionale e moderato” può avere conseguenze permanenti e irreversibili sul nascituro a causa dell’azione embriotossica e teratogena dell’etanolo”, afferma il Dott. Luigi Orfeo, Presidente SIN. “Il feto, infatti, non è in grado di metabolizzare l’alcol, perché privo degli enzimi necessari e quindi anche una minima quantità ne pregiudica la salute. Perciò l’alcolemia fetale è sovrapponibile all’alcolemia materna, quando la mamma beve, il bimbo beve”.

Il rapporto dei nati con FASD dalle donne che assumono alcol è di 1:67 e dei nati con FAS di 1:300. Dati verosimilmente sottostimati per il numero limitato di studi effettuati, per la metodologia utilizzata nella raccolta delle informazioni, per la variabilità dei fattori e determinanti socio-ambientali presi in considerazione, per l’assenza di un’anamnesi alcologica materna mirata nella diagnosi differenziale di FASD e per l'inconsapevolezza, da parte della popolazione e degli operatori sanitari, sui possibili danni per la salute materno-infantile legati al consumo di alcol anche quando è minimo o occasionale.

Al fine di promuovere una campagna di sensibilizzazione e prevenzione della FASD, l'Istituto Superiore di Sanità ha avviato uno studio, ancora in corso, su “Prevenzione, diagnosi precoce e trattamento mirato dello Spettro dei Disturbi Feto Alcolici (FASD) e della Sindrome Feto Alcolica (FAS)“ coordinato dalla Dott.ssa Simona Pichini, con l’obiettivo di monitorare il reale consumo di alcol in gravidanza ed esposizione all’etanolo in utero, di sensibilizzare la popolazione sui danni alcol correlati per la salute materno-infantile e di formare il personale socio-sanitario sulla prevenzione, diagnosi e il trattamento mirato della FASD.

Il progetto, il primo nazionale che raccolga dati oggettivi sulla situazione italiana in merito al consumo di alcol in gravidanza, ha visto coinvolti numerosi Neonatologi della SIN, tra i quali il Dott. Luigi Memo, past president del Gruppo di Studio di Genetica Medica della SIN ed Operatori Sanitari in sei Unità Operative distribuite per aree geografiche di competenza, che hanno attivato a loro volta centri collaboratori in tutta Italia.

Il reclutamento ha previsto il coinvolgimento di 2000 gestanti e 2000 neonati sul territorio nazionale, senza criteri di esclusione specifici e la raccolta di dati sia soggettivi che oggettivi, con un questionario sulle abitudini alimentari prima e durante la gravidanza e la donazione di un campione biologico da parte delle mamme (una ciocca dei loro capelli o un campione di meconio del neonato nelle prime ventiquattro ore di vita) per la ricerca in laboratorio dell’etilglucuronide, un biomarcatore specifico del metabolismo dell’alcol. Attivati, inoltre, numerosi interventi di formazione e sensibilizzazione del personale sanitario, rivolti ad Ostetriche, Pediatri, Medici di base, Ginecologi, Assistenti Sociali e Psicologi.

Il reclutamento, accompagnato dalla distribuzione di materiale informativo in 28 centri, è stato pensato per essere anche un’occasione di sensibilizzazione, fondamentale per cambiare il concetto secondo cui “piccola dose piccolo danno” e trasformarlo in “zero alcol zero FASD”, perché i disordini feto-alcolici sono prevenibili al 100% se si evita totalmente l’alcol in gravidanza.

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di Rossella Gemma

Il Ministero della Salute ha emanato la Circolare n. 37615 del 31 agosto 2022 con la quale vengono aggiornate le indicazioni sulla gestione dei casi e dei contatti stretti di caso COVID-19 alla luce del decreto-legge 24 marzo 2022, n. 24 sulla cessazione dello stato di emergenza e considerata l’attuale evoluzione del quadro clinico dei casi di malattia Covid-19.

Le persone risultate positive al test diagnostico (molecolare o antigenico) per SARS-CoV-2 sono sottoposte alla misura dell’isolamento con le modalità di seguito riportate:

Per i casi che sono sempre stati asintomatici oppure sono stati dapprima sintomatici ma risultano asintomatici da almeno 2 giorni, l’isolamento potrà terminare dopo 5 giorni, purché venga effettuato un test, antigenico o molecolare, che risulti negativo, al termine del periodo d’isolamento.

In caso di positività persistente, si potrà interrompere l’isolamento al termine del 14° giorno dal primo tampone positivo, a prescindere dall’effettuazione del test.

Per i contatti stretti in caso di infezione da SARS-Cov-2 restano in vigore le indicazioni contenute nella Circolare ministeriale n. 19680 del 30 marzo 2022 (commentata con la Circolare Federfarma n. 167 del 1 aprile 2022) che per comodità si riportano di seguito:

A coloro che hanno avuto contatti stretti con soggetti confermati positivi al SARS-CoV-2 è applicato il regime dell’autosorveglianza, consistente nell’obbligo di indossare dispositivi di protezione delle vie respiratorie di tipo FFP2, al chiuso o in presenza di assembramenti, fino al decimo giorno successivo alla data dell’ultimo contatto stretto. 

Se durante il periodo di autosorveglianza si manifestano sintomi suggestivi di possibile infezione da Sars-Cov-2, è raccomandata l’esecuzione immediata di un test antigenico o molecolare per la rilevazione di SARS-CoV-2 che in caso di risultato negativo va ripetuto, se ancora sono presenti sintomi, al quinto giorno successivo alla data dell’ultimo contatto.

Si richiama, poi, l’attenzione sulla previsione della circolare del 30 marzo 2022 che prevede l’obbligo per gli operatori sanitari di eseguire un test antigenico o molecolare su base giornaliera fino al quinto giorno dall’ultimo contatto con un soggetto contagiato.

 

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di Rossella Gemma

La polipillola composta da tre farmaci, un antipertensivo, una statina e l’aspirina, riduce del 30% il rischio di ictus e infarto in chi ha già avuto un attacco cardiaco. Sono questi i risultati del più ampio e lungo studio internazionale su questo nuovo approccio, condotto in 113 centri di 7 Paesi, tra cui l’Italia, su oltre 2500 persone seguite per tre anni, che erano andate incontro ad un infarto miocardico nei sei mesi precedenti. Lo studio appena pubblicato sul New England Journal of Medicine, è stato presentato nel corso della prima giornata di ESC Congress 2022, il meeting annuale della European Society of Cardiology, in programma dal 26 al 29 agosto a Barcellona.

Soltanto il 9,5% delle persone che hanno assunto la polipillola è andato incontro a mortalità cardiovascolare, a un secondo infarto, un ictus o è stato sottoposto a un’angioplastica o altri interventi al cuore, in confronto al 12,7% del gruppo sottoposto al trattamento standard.

La polipillola, contenente aspirina, un ACE inibitore e una statina è risultata più efficace dei trattamenti standard nel ridurre il rischio cardiovascolare in pazienti con precedente infarto miocardico, senza però incidere per la mortalità per tutte le cause – commenta Ciro Indolfi, presidente della Società Italiana di cardiologia (SIC) – La polipillola è comoda da usare per i pazienti in quanto combina diversi farmaci in una sola pasticca che viene assunta una sola volta al giorno, semplificando così la terapia e migliorando l’aderenza, meccanismo responsabile dei benefici di questa strategia terapeutica. I risultati di questo studio suggeriscono che la polipillola potrebbe diventare parte integrante delle strategie di prevenzione degli eventi cardiovascolari nei pazienti post-infartuati ma, – avverte l’esperto – non si tratta di una combinazione ‘magica’. La polipillola contenente tre farmaci in dosi fisse non consente, però, l'ottimizzare della terapia e potrebbe esserci il rischio di sotto dosaggio, a causa dell'impossibilità di regolare i singoli componenti della polipillola sulla base delle esigenze di ciascun paziente. Infine, permane anche un ostacolo pratico, come la mancanza di interesse commerciale”.

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di Rossella Gemma

In un caso su tre i tumori del colon-retto, anche quelli più aggressivi e che non rispondono alle terapie a bersaglio molecolare note, potrebbero trovare beneficio dall’impiego di farmaci mirati ai sistemi di risposta al danno del DNA che nelle cellule tumorali in parte risultano difettosi rendendo i sistemi ‘superstiti’ essenziali per la sopravvivenza del cancro. Ad aprire la strada a questa nuova strategia terapeutica è una ricerca dell’IRCCS di Candiolo (TO) appena pubblicata sulla prestigiosa rivista Clinical Cancer Research dell’American Academy of Cancer Research, condotta su ben 112 linee cellulari di tumori del colon-retto differenti per il profilo genomico. I risultati, confermati su organoidi derivati da pazienti, indicano che farmaci mirati a proteine coinvolte nei sistemi di riparazione del DNA potrebbero diventare una concreta risposta per molti pazienti a oggi senza opportunità terapeutiche: principi attivi di questo tipo sono già in fase I-III di sperimentazione clinica. Anche per questo motivo, secondo gli autori sarebbe opportuno ipotizzare l’uso di un “biomarcatore composito”, che includa la valutazione di alcuni di questi possibili target terapeutici, così da stratificare più razionalmente i pazienti con tumore al colon-retto e identificare quelli che avrebbero la maggiore probabilità di trarre un beneficio clinico dall’uso dei nuovi farmaci mirati ai sistemi coinvolti nella riparazione del danno al DNA.

"Ogni giorno siamo esposti a sostanze chimiche o agenti fisici, come il benzene o i raggi UV, che possono danneggiare il DNA: queste lesioni vengono continuamente risolte senza conseguenze per le normali funzioni cellulari grazie a un complesso sistema di riparazione del DNA – spiega Sabrina Arena, IRCCS Candiolo e Dipartimento di Oncologia dell’Università di Torino, autrice ed ideatrice dello studio – Questo processo è ancora più importante nei tumori, dove alcuni di questi sistemi di riparazione del DNA sono difettosi ed è perciò indispensabile che quelli ancora funzionanti possano portare avanti la loro attività per permettere al tumore di ‘sopravvivere’. Tali sistemi conferiscono ai tumori una maggiore aggressività ma si possono rivelare un ‘tallone d’Achille’ e un ottimo bersaglio molecolare, perché se vengono ‘zittiti’ le cellule tumorali soccombono ai danni al DNA”. Gli inibitori PARP sono farmaci che colpiscono questi sistemi e sono già utilizzati in clinica per tumori alla mammella e all’ovaio; oggi altri farmaci di nuova generazione inibiscono altre componenti del sistema di riparazione del DNA e potrebbero perciò diventare un’opportunità preziosa anche nel tumore al colon-retto metastatico che non risponde ad altre terapie a bersaglio molecolare. La ricerca, realizzata grazie al contributo della Fondazione Piemontese per la Ricerca sul Cancro (FPRC) e dell’Associazione Italiana per Ricerca e la cura del cancro (AIRC), ha perciò avuto l’obiettivo di capire se i farmaci di nuova generazione possano essere utili in tumori per i quali a oggi non esistono opportunità terapeutiche efficaci.

“Abbiamo effettuato un screening farmacologico utilizzando principi attivi mirati a proteine coinvolte nei sistemi di riparazione del DNA, alcuni già in sperimentazione clinica in fase I-III, in 112 modelli preclinici di tumore del colon-retto differenti per profilo genetico, che includevano linee cellulari e organoidi realizzati a partire da campioni tumorali di pazienti – spiega Alberto Bardelli, IRCCS Candiolo  e Dipartimento di Oncologia dell’Università di Torino, coautore dello studio – I dati mostrano che circa il 30% dei casi, inclusi quelli refrattari alle attuali terapie, potrebbe rispondere ad almeno uno di questi farmaci di nuova generazione in grado di inibire la funzione di diverse proteine coinvolte nella riparazione del danno del DNA. È importante sviluppare nuove metodologie diagnostiche che consentano di identificare chi potrebbe beneficiare di questo tipo di terapie, per le quali sono già in corso studi clinici per dimostrarne la reale efficacia sui pazienti: un biomarcatore che valuti i diversi bersagli possibili potrebbe aiutare a stratificare il rischio e individuare i candidati che potrebbero rispondere meglio al trattamento. La strada è ancora lunga, ma questi risultati pongono le basi scientifiche e sperimentali per nuove e più efficaci terapie da applicare in futuro anche ad altri tipi di tumore”. 

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di Rossella Gemma

Costante idratazione, corretta alimentazione, adeguata esposizione al caldo, una possibile rimodulazione delle terapie a base di farmaci anti-ipertensivi e diuretici, particolare attenzione al mare e in montagna. Sono questi i principali consigli stilati dalla Siprec, Società Italiana per la Prevenzione Cardiovascolare, per affrontare al meglio le ondate di calore.

“Chi prende farmaci anti-ipertensivi o diuretici, in accordo con il proprio medico, può necessitare di una riduzione dei dosaggi o una temporanea sospensione. Indispensabili poi una buona idratazione quotidiana, adeguato apporto di elettroliti attraverso un’alimentazione basata su frutta e verdure che contengano potassio, calcio, magnesio” sottolinea il Prof. Massimo Volpe, Presidente SIPREC.

La SIPREC ha anche promosso lo sviluppo di un’app “Heart way”, per essere vicini anche a distanza a chi ha problemi di cuore. “Questo progetto di telemedicina - spiega Volpe - persegue l’obiettivo primario di controllare i principali fattori di rischio: pressione arteriosa e colesterolemia. Poi ci sono altre finalità non meno importanti, come l’incentivo a un’attività fisica quotidiana del paziente, l’aderenza alle terapie, un corretto stile di vita anche dal punto di vista dell’alimentazione, una definizione del profilo di rischio, l’analisi del peso corporeo e la definizione di altri parametri che possono essere misurati dal paziente”.

E l’allarme per le ondate di calore e gli sbalzi termici, arriva anche dai neurologi. "I cosiddetti acciacchi prodotti dalle violenti escursioni termiche non sono solo legati al passaggio dal caldo al fresco, ma anche al fenomeno dell'evaporazione del sudore che è un meccanismo rinfrescante fisiologico", spiega Piero Barbanti, responsabile dell'Unità per la cura e la ricerca sulle cefalee e il dolore dell'Irccs San Raffaele di Roma, chiarendo i vari fattori alla base di questi malanni di stagione.

Prevenire è sempre meglio che curare, anche perché il mal di testa martellante è in agguato in queste situazioni. Il nesso con il condizionatore persiste, ma le ragioni fisiologiche mutano: "L'emicrania e la cefalea di tipo tensivo non dipendono dal grado di contrazione muscolare - chiarisce Barbanti - Passa attraverso le suture delle ossa del cranio, dove emergono sottili filuzzi nervosi riconducibili al trigemino, fenomeno assimilabile al passaggio dei fili d'erba attraverso il manto stradale. Queste terminazioni trigeminali sono per definizione ipersensibili nei soggetti emicranici e facilmente attivabili dagli sbalzi termici". "Ai soggetti predisposti conviene quindi indossare un cappello morbido e leggero sia quando sono esposti al caldo intenso che quando soggiornano al fresco dell'aria condizionata. Una volta che si sono acclimatati, però, possono ovviamente toglierlo senza alcun timore", conclude Barbanti.

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Le pubblicazioni si interrompono per ferie dal 18 al 22 luglio.

 

Grazie!!!

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di Rossella Gemma

Con un calo nella raccolta del plasma per la produzione di medicinali plasmaderivati del 5,4% nei primi cinque mesi dell’anno (fonte: Centro Nazionale Sangue) e l’estate appena iniziata, emergono le preoccupazioni dei pazienti per i quali i farmaci plasmaderivati costituiscono dei salvavita. A rendere più complesso il quadro generale si deve tener conto della diminuzione di raccolta del plasma negli Stati Uniti, da cui l’Europa dipende per l’importazione di medicinali plasmaderivati, con conseguente incremento dei prezzi degli stessi medicinali.

“Voglio lanciare un invito a tutti i donatori perché prendano in considerazione la possibilità di donare una volta di più. Ricordo infatti che, secondo la legge italiana, è possibile donare il plasma ogni 15 giorni, mentre l’intervallo di tempo tra una donazione di sangue intero ed una di plasma è di soli 30 giorni. Al contempo invito chi ancora non ha scoperto la bellezza di donare a non lasciarsi sfuggire questa occasione per fare veramente la differenza nella vita di qualcuno che in questo momento ha bisogno di noi. Sono molti i pazienti che necessitano di medicinali plasmaderivati: immunodeficienze primitive, neuropatie disimmuni, emofilia, sono solo alcune delle patologie che richiedono medicinali plasmaderivati” è l’appello di GiovanniMusso, Presidente Nazionale FIDAS.

Sono diversi i fattori che stanno influenzando negativamente la raccolta di sangue e plasma nel nostro Paese: l’onda lunga della pandemia, lo scarso ricambio generazionale dei donatori, l’imminente partenza per le vacanze, la carenza di personale medico e la riduzione degli orari di apertura dei Servizi Trasfusionali per le chiusure estive. Un insieme di fattori che rischia di avere un effetto sommatorio dalle conseguenze molto serie per tutti i pazienti con malattia rara la cui esistenza dipende proprio dalle donazioni di plasma.

Le conseguenze della crisi della raccolta sono sia a breve che a medio termine dato che la fase di lavorazione per la produzione dei medicinali prevede tempistiche comprese tra gli 8 e i 12 mesi. La programmazione del 2022 prevede di raccogliere 14,5 kg di plasma ogni mille abitanti, mentre la sfida più grande, che consentirebbe l’autosufficienza nazionale, consiste nel tagliare il traguardo dei 18 kg ogni mille abitanti. Un obiettivo alla portata del Sistema Trasfusionale italiano, raggiungibile promuovendo la consapevolezza dell’importanza della donazione del plasma. Con la conferenza stampa alla Camera dei deputati di iniziativa dell’Onorevole Angela Ianaro, FIDAS vuole stringere un’alleanza ancora più salda tra donatori e pazienti per scongiurare l’indisponibilità di farmaci: “ai donatori noi dobbiamo dire grazie ma anche garantire che il loro dono sia utilizzato in maniera corretta, appropriata ed efficiente. Stiamo studiando la possibilità di una cabina di regia per gli acquisti e riteniamo che sia necessario ragionare in una prospettiva europea, creando un coordinamento europeo. Infine, dobbiamo lavorare ad una gestione dei centri che permetta di migliorare la raccolta” ha dichiarato l’On. Ianaro. 

Nel mese di maggio sono stati 74.199 i kg di plasma conferiti alle aziende per la produzione di medicinali plasmaderivati (registrando così un +2,9% rispetto al mese di maggio 2021). Le Regioni ad aver contribuito a raggiungere il segno positivo sono state: Abruzzo, Emilia Romagna, Lazio, Liguria, Lombardia, Marche, Sicilia, Toscana. Sostanzialmente stabili la Calabria e il Piemonte.

Se ampliamo lo sguardo al periodo gennaio-maggio, tuttavia, il bilancio non è positivo ma si chiude con un –5,4% rispetto allo stesso periodo del precedente anno. Complessivamente sono 345.143 i kg di plasma conferiti alle aziende in questo arco temporale, a fronte dei 364.955 kg conferiti nel 2021 nello stesso periodo. Le Regioni che sono riuscite a conferire alle aziende più di quanto fatto nello stesso periodo del precedente anno sono state solamente: Calabria, Lombardia, Molise, Provincia Autonoma di Bolzano. Sostanzialmente stabile la Regione Liguria.

“L’autosufficienza del plasma è un obiettivo strategico per tutto il sistema sangue italiano, che garantirà le terapie salvavita per centinaia di migliaia di pazienti senza doversi preoccupare delle fluttuazioni del mercato internazionale. Ma se questo obiettivo, solo qualche anno fa, pareva a un passo, oggi la situazione è peggiorata a causa del Covid, che forse non fa più così paura ma sta ancora facendo sentire il suo peso sulla raccolta di sangue e plasma. Fortunatamente la generosità dei donatori non è mai venuta meno, neanche nei momenti più bui, e alla fine credo che basti solo un piccolo sforzo in più da parte di tutti gli attori in campo per tornare a muovere i passi nella giusta direzione” ha commentato Vincenzo De Angelis, Direttore del Centro Nazionale Sangue. 

“Il plasma è una materia prima molto peculiare, non è un prodotto di sintesi, ma deriva da un processo di donazione volontaria e non retribuita da parte dei cittadini, la produzione di questi farmaci quindi è ispirata al più alto valore etico di dono e di solidarietà. Ma questo pone una variabilità nella sua disponibilità che apre al rischio carenza” sottolinea Filippo Cristoferi Responsabile Affari Istituzionali di AIP, (l’associazione che riunisce i pazienti con immunodeficienze primitive).

Massimo Marra, Presidente CIDP Italia aps è intervenuto con un video messaggio per presentare l’esperienza dei pazienti affetti da neuropatie disimmuni: “Ciascuno di noi che fa un dosaggio di immunoglobuline ad alte dosi necessita per poter camminare, per poter prendere un oggetto in mano, per poter essere autonomi nella propria vita quotidiana, anche di 700 donazioni all’anno.  Tanti pazienti ci segnalano di come sia stato ridotto il dosaggio del singolo trattamento o aumentato l’intervallo tra una somministrazione e le successive. Così come nuove diagnosi ci segnalano come gli sia prospettato dai clinici il fatto che la terapia di prima linea sia quella a base di immunoglobuline umane ma purtroppo, per una indisponibilità del mercato, non è possibile assicurare loro quello che è considerato il miglior trattamento possibile. Siamo consapevoli che l'unico modo per uscire da questa situazione è l'autosufficienza nazionale nella raccolta del plasma”.

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di Rossella Gemma

Nuova attenzione, soprattutto con la ripresa degli accertamenti nel post Covid, alle patologie che colpiscono ossa e muscoli, rispettivamente osteoporosi e sarcopenia. Si inizia a parlare di “osteosarcopenia”, una sindrome di recente definizione che vede la concomitante manifestazione delle due patologie, accentuata in una società che invecchia come quella italiana. Le conseguenze sono un incremento di cadute e fratture, con relativa disabilità e mortalità. Questo è stato il tema al centro di un recente programma di training per Medici di Medicina Generale con Responsabile Scientifico il Prof. Stefano Lello, Consulente Scientifico dipartimento Salute Donna e Bambino Fondazione Policlinico Gemelli, presentato nel recente webinar “Progetto Osteoporosi e Sarcopenia. Train the trainer”.

L’osteoporosi aumenta il rischio di fratture a vertebra, polso, femore ed anche in altri siti scheletrici. L’impatto può essere molto rilevante: in caso di frattura del femore il tasso di mortalità nell’arco di un anno è di circa il 20%, a cui si aggiunge una disabilità nel 40% dei casi, nonostante il miglioramento delle tecniche ortopediche. Per fare una diagnosi di sarcopenia si valutano la forza, la quantità di tessuto muscolare e la prestazione fisica con l’analisi di una serie di performance con strumenti come il dinamometro e il test del cammino che valuta la velocità di camminata. Questi parametri integrati mostrano l’incremento della fragilità del soggetto che si può fratturare e ammalare.

“La comunità scientifica rivolge crescente attenzione a questi due aspetti spesso visti come separati: da una parte, la perdita di massa ossea e di resistenza dell’osso, ossia l’osteoporosi; dall’altra, la perdita di massa, forza e performance muscolare, la sarcopenia – ha sottolineato il Prof. Stefano Lello – Osso e muscolo si influenzano vicendevolmente e allo stesso modo la salute di ossa e muscoli viaggia insieme: fare movimento, avere una dieta corretta con un introito adeguato di calcio, mantenere un buon livello di vitamina D sono aspetti di cui si giovano sia l’osso che il muscolo. L’interdipendenza è acuita dal fatto che l’età media della popolazione è in crescita, con riduzione complessiva della massa ossea e di quella muscolare. Entrambe determinano un aumento della fragilità e del rischio di cadute e di fratture. Uno studio del 2011, ad esempio, dimostra che nelle donne che si fratturano il femore, il 58% soffre anche di sarcopenia”.

Gli esperti ricordano che la prevenzione può iniziare sin da giovani con uno stile di vita sano, acquisendo sempre più rilievo con il passare del tempo. Per valutare l’efficacia dello stile di vita e il monitoraggio dell’invecchiamento di ossa e muscoli, è fondamentale il ruolo del Medico di Medicina Generale, che ha la possibilità di conoscere la storia clinica del paziente e di comprendere la sua evoluzione.