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Del Dott. Alberto Volponi


Le richieste di autonomia differenziata della Lombardia, Veneto e, in forma più edulcorata, dell'Emilia-Romagna, è uscita, momentaneamente, dal radar del dibattito politico italiano. Nonostante il gran rumore mediatico, mancava però un disegno di riforma organica, strutturale, complessiva del nostro ordinamento istituzionale. Le richieste di maggiore autonomia delle regioni del nord non vertevano sulle modifiche dell'art.117 della Costituzione, l'articolo che regola i poteri dello Stato e delle Regioni, modifiche inutilmente  sottoposte  al referendum fallito del 2016, ma chiamavano in causa l'art. 116 con la semplice richiesta  di più poteri esclusivamente per loro. Il resto delle Regioni: se gratta (espressione colorita presa in prestito da Trilussa, "L'incontro de li sovrani"). La direzione di marcia sembrava infatti essere quella di un'accentuazione delle già forti ed evidenti differenze fra Regioni, tali da rendere realistica la classificazione in Regioni di serie A e di serie B. è ora necessario, quindi, invertire la tendenza per evitare di arrivare a declinare tutto l'alfabeto tanto da rendere i diritti costituzionali relativi e occasionali in ragione del luogo di nascita. In considerazione, poi, dei poteri già in atto delle Regioni, il diritto alla salute rischia di essere quello più opinabile. Molti dati statistici convalidano questo non esaltante quadro a iniziare dalla speranza di vita alla nascita, 83,2 al Nord, 82 al sud nonostante le migliori condizioni di vita ambientali e alimentari nel Mezzogiorno, almeno secondo le cartoline d'epoca. I posti letti ospedalieri sono 33,7 ogni diecimila abitanti al centro-nord, 28,2 al sud. L'assistenza domiciliare integrata garantisce servizi, su diecimila over 65, a 88 di essi al nord, 42 al centro e appena a 18 al sud. I dati sulla  mobilità sanitaria conferiscono plasticità a queste differenze. Su una spesa sanitaria (dati 2017) di 113,1 miliardi la spesa per la mobilità è di 4,5 miliardi, il 4% della spesa totale. Le prime tre Regioni con segno positivo sono, nemmeno a dirlo, la Lombardia, con +784,1 milioni, l'Emilia-Romagna con +307,5, il Veneto con +143,1. In fondo alla classifica, con il segno meno, la Campania, -318, penultima la Calabria con -281,1 e, a sorpresa, terzultimo il Lazio con -239,4, deficit in questo caso alimentato dal costo delle prestazioni dell'Ospe- dale Bambino Gesù, di proprietà del Vaticano, Stato estero. Il sistema della compensazione economica della mobilità sanitaria rappresenta un ulteriore elemento di arricchimento delle Regioni già ricche e un più accentuato impoverimento di quelle più povere alimentando un corto circuito infernale. A questo bisogna aggiungere la richiesta di drenare a livello regionale le imposte. Un tentativo in questo senso fu già messo in atto in occasione della manovra finanziaria dell'ormai lontano '90. Un tentativo, trasversale ai partiti, di parlamentari del Nord, di inserire un emendamento che prevedeva l'afflusso della "tassa sulla salute", pagata in base al reddito per finanziare il SSN, nelle casse della regione di appartenenza. Riuscii, scusate l'auto citazione, a imporre il ritiro dell'emendamento. Si ripropone, quindi, la necessità di conferire allo Stato una nuova capacità di indirizzo e verifica sulle Regioni, in particolare proprio in Sanità. La salute come obiettivo primario non deve essere perseguita solo da politiche sanitarie ma resa centrale nelle scelte di politiche sociali, economiche, industriali e soprattutto ambientali. Il divario Nord-Sud nel nostro Paese ha una storia antica e si è accentuato ogni qual volta lo Stato centrale ha abdicato al ruolo guida per delegare funzioni alle autonomie locali. Due esempi: l'istruzione e le infrastrutture. Con l'unità d'Italia si rese obbligatoria l'istruzione elementare, stante un tasso di analfabetismo al Sud dell'87% e al Nord-ovest del 55, delegando ai  Comuni il finanziamento delle scuole. Risultato fu che i Comuni del sud non riuscirono, se non parzialmente, a trovare le necessarie risorse e solo dopo il 1911, con la legge Daneo-Credaro che conferiva allo Stato l'obbligo del finanziamento, anche il sud, con un ritardo di cinquanta anni, cominciò a combattere più efficacemente l'analfabetismo. Anche gli interventi della Cassa per il Mezzogiorno negli anni '50-60 furono importanti per  la costruzione di infrastrutture al sud, acquedotti, strade, ferrovie, sostegni all'industrializzazione, fin quando la Cassa mantenne le vesti di ente tecnico. L'invasione della politica e soprattutto delle autonomie locali e infine la voracità delle nuove realtà regionali ne segnarono il cammino con la parcellizzazione di interventi ad alto contenuto campanilistico se non clientelare. Il quadro non è certo esaltante, anzi preoccupa non poco. Siamo a un bivio: o si torna a conferire maggiori poteri alla Stato centrale per garantire la migliore uniformità di scelte finalizzate al rispetto dei diritti costituzionali in un rinnovato spirito solidaristico e autenticamente nazionale o il processo di disgregazione sarà tale che torneremo a essere una semplice espressione geografica, così come ci considerava Metternich nella Vienna del 1815! Dopo due secoli di lotte, il Risorgimento, due guerre mondiali per diventare una Nazione che si è guadagnata una invidiabile posizione nel consesso internazionale, tornare, in un drammatico gioco dell'oca, al punto di partenza è inaccettabile. Ci viene in aiuto un ricordo giovanile: Joan Baez con il suo: We shall overcome... non trascurando che la struggente melodia dell'originario gospel potrebbe essere nata, guarda un pò, da un canto di pescatori siciliani nel lontano 1600.

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del dott. Alberto Volponi

Non  è un invito a esorcizzare le difficoltà quotidiane ma l'esortazione a riflettere sulla mancanza di medici. Siamo rimasti senza medici! Una emergenza annunciata, come tante altre. Negli anni '80 si agitava lo spauracchio della pletora medica paventando ripercussioni sulla preparazione dei medici nonché sulla dequalificazione nell'esercizio della professione di un esercito di semi disoccupati. "La pletora medica" fu un motivo determinante nel varare il numero chiuso nell'accesso ai corsi di laurea in medicina. Stante alle norme di legge, la più esplicita il decreto legislativo 229/99, art. 6 ter, il numero chiuso doveva essere oggetto di atti programmatici del Ministero della Sanità in base alle esigenze sanitarie della collettività nazionale. In verità il numero da programmare è diventato ben presto un "affare" esclusivo dell'Università e determinato in base alla capacità formativa delle stesse. In invarianza di queste, per oggettivi problemi strutturali, logistici, economico-finanziari, il numero dei medici da formare è rimasto invariato nei decenni, senza tener conto dei mutamenti sociali, dei dati epidemiologici di una società cambiata nel tempo. Ignorando inoltre l'andamento demografico degli stessi medici in servizio, destinati, come tutti gli esseri umani, ahimè, a invecchiare. Per questo ultimo aspetto l'unico ente o istituzione attenta all'evoluzione demografica è stato quello della Previdenza, dell'Enpam, giustamente previdente, vista la sua funzione, nel calcolare la "gobba" di uscita e affrontarla sia mettendo in cascina le risorse economiche necessarie, sia con la modifica dei trattamenti pensionistici. Tutti i dati che abbiamo ci dicono che oggi mancano all'appello 8 mila medici ospedalieri. Nel 2009 i medici in corsia erano 118.659, secondo lo studio dell'Anaao-Assomed, il sindacato più rappresentativo della dirigenza medica, scesi a 112.741 nel 2014 e nel 2017  a 110.885. Non stiamo meglio con i medici di famiglia. Dei 45mila e duecento medici di medicina generale, ci dice la loro Federazione, la Fimmg, ben 21.700 andranno in pensione entro il 2023, a fronte di uno sparuto gruppo di seimila giovani medici che entreranno nel sistema. Risultato della semplice operazione aritmetica è che nei prossimi anni mancheranno 16mila medici così che un terzo, degli italiani non avrà il suo medico di famiglia. Altro elemento quasi misconosciuto che assottiglia il numero dei medici disponibili è il fenomeno migratorio. Dal 2005 al 2015, 10.104 medici italiani sono espatriati; il 33% in Gran Bretagna, minacciati ora dalla Brexit, più al sicuro il 26% che ha scelto la Svizzera. Un dato allarmante è che di tutti i medici europei che emigrano dai loro paesi il 52% è italiano; il secondo paese di questa graduatoria di "fuggitivi" è la Germania con il 19%. Si cerca di correre ai ripari. Con un altro decreto omnibus - chiamato Calabria - a conferma di una carenza di visione strategica e di organicità nelle iniziative da intraprendere, in cui sono state inserite alcune norme quali l'aumento delle borse di studio per le specializzazioni da 6.100 a 8.000, e dagli attuali 10.000 aumentati a 11.600, i posti per Medicina. "Non un intervento risolutivo" ammette il ministro Grillo, ovvero un'altra pezza a colori del grande pacthwork italiano. Nello stesso decreto è previsto uno sblocco parziale del tournover e l'assunzione in particolare nel settore dell'emergenza degli specializzandi al terzo anno sui quattro o cinque previsti per conseguire il diploma. Questo è un aspetto delicatissimo. è chiaro che i medici non avendo compiuto il loro percorso formativo, né verificate con un esame finale le competenze acquisite e per di più destinati a un settore quale l'emergenza, rappresentano una preoccupazione per la qualità delle prestazioni che possono offrire. Nel frattempo ognuno cerca di arrangiarsi, innata virtù italica. Come in ogni condizione di pericolo si attivano i centri e i processi neurali della fantasia umana che non conosce confini. Il bello del fantasticare è che non sei obbligato a simulare gli effetti dei tuoi sogni. Cosi le Regioni attivano i più fantasiosi e onerosi rapporti di lavoro con i medici pensionati a volte da tempo immemorabile. Il ministro della Difesa ha generosamente mobilitato il glorioso esercito italiano che, per fortuna sua e nostra, da settant'anni non fa più guerre, ma si è distinto in questi lunghi anni per professionalità, abnegazione, coraggio in ogni drammatica emergenza nazionale: dalla inondazione del Polesine a quella di Firenze, ai terremoti del Belice, Irpinia, Friuli, tanto per citare alcuni degli eventi calamitosi che hanno colpito la nostra Italia. Da qualche anno si registra la tendenza ad abusare della disponibilità e diremo della pazienza (quousque tandem...) del nostro esercito chiamato a spalare la neve a Roma, a tappare le buche della Città eterna, a far da guardia ai centri di raccolta dei rifiuti per evitare incendi dolosi. L'operazione strade sicure con presidi che vigilano su chiese, strade, monumenti, sedi pubbliche di partiti e private, 31 siti Unesco, dura dal '93, dal tempo delle stragi di mafia. Una emergenza che dura 26 anni! L'esercito svolge i propri compiti istituzionali con una forza di 5.950 militari, altri 7.100 sono l'esercito della "salvezza" per le attività improprie. La mancanza, quindi, di medici e i pallidi, a volte fantasiosi correttivi, non possono non preoccuparci. “Pensiamo alla salute” ovvero evitiamo di ammalarci, a meno di voler smentire Alessandro Magno che concluse la sua breve esperienza di vita con uno sconfortante: ”Muoio grazie all’aiuto di troppi dottori”.

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del dott. Alberto Volponi

 

Da anni la politica e la magistratura si misurano sul terreno delle cure mediche spesso prescindendo dall'evidenza scientifica. L'equilibrio fra poteri, in questo caso politico e giudiziario, è uno dei pilastri fondanti del sistema democratico. Di per sé, quindi, molto delicato. In vero, almeno per quanto riguarda il nostro Paese, un vero equilibrio non è stato mai raggiunto con il prevalere, ciclicamente, dell'uno sull'altro. Una volta erano i politici a condizionare le carriere dei magistrati; dagli anni ‘90, dall'epopea di "mani pulite", i ruoli si sono spesso invertiti. Solo sul terreno delle cure mediche si sono registrate, nel tempo, una serie di iniziative convergenti, quasi una santa alleanza, accompagnate dalla grancassa del solito circolo mediatico, oggi arricchito dai social. Iniziative che hanno un unico denominatore: la scarsa considerazione, o addirittura diffidenza, verso l'evidenza scientifica e che, dobbiamo ammetterlo, sono espressione di un più ampio deficit culturale nella Terra di Galileo Galilei! Uno dei primi episodi in cui si registrò questo strano connubio fu la vicenda del siero Bonifacio. Siamo nel 1959, giusto 60 anni fa, quando un veterinario siciliano, Bonifacio, ritenendo che le capre non si ammalano di cancro, supposizione fra l'altro errata, pensò di preparare dagli escrementi delle stesse e dalle loro urine, un siero da iniettare ai malati di cancro. Sotto la spinta di una ben orchestrata campagna di stampa l’allora Ministro della Sanità, Ripamonti, nonostante l'indignazione del mondo scientifico, autorizzò una sperimentazione su 16 pazienti. 4 morirono durante la sperimentazione che venne interrotta. Ma l'imperterrito dott. Bonifacio continuò a "curare" decine di poveri disperati fin quando un magistrato ipotizzò delle irregolarità nella sperimentazione e il Ministro di turno, Altissimo, pensò opportuno dare vita a una nuova sperimentazione. La relativa commissione nemmeno si insediò perché il dott. Bonifacio, forse a seguito della notizia di uno studio su cavie negli USA,  mise fine egli stesso alla produzione del siero. Ben più complessa la vicenda Di Bella, medico che fin dagli anni '60 aveva messo a punto un protocollo terapeutico per i malati di cancro (sempre loro, i più indifesi e facili vittime di promesse di soluzioni miracolistiche ) consistente in un cocktail di farmaci, vitamina D, acido retinoico, melatonina con aggiunta di somatostatina. Negli anni ‘90 la terapia raggiunge le cronache e se ne interessa la Commissione Oncologica Nazionale, quindi la Commissione unica del Farmaco, infine il Consiglio Superiore di Sanità , tutti unanimi nel loro parere negativo. A riaprire il caso fu un pretore di Maglie, cittadina pugliese che ricordavamo per aver dato i natali ad Aldo Moro, che ordinò all'allora USL di curare gratuitamente con il protocollo Di Bella un bambino affetto da tumore al cervello. Lo stesso Pretore pugliese firmò altre 16 ordinanze per altrettanti casi e a quel punto fu la corsa in tutta Italia a emettere analoghe ordinanze da parte di pretori, giudici del lavoro, immancabili TAR. I maggior anchorman di allora, ancora oggi sulla scena, Santoro, Costanzo, Mentana sposarono la causa. Il ministro della Salute, Bindi, costituì la rituale commissione che terminò i suoi lavori affermando che su 386 pazienti trattati con il metodo Di Bella solo tre avevano evidenziato dei modesti risultati positivi. La Regione Lombardia, in un'analoga sperimentazione, aveva avuto riscontri identici: su 333 casi solo uno aveva presentato un qualche miglioramento. L'eco della cura Di Bella sembrava spegnersi quando il ministro della Salute, Storace, appena insediatosi, e siamo arrivati al maggio del 2005, nel nome della libertà della cura, rilancia: la somatostatina sarà inserita nel prontuario terapeutico in fascia A ovvero sarà gratuita. Il ministro fece anche sapere che si sarebbe recato a "portare un fiore" sulla tomba del Prof. Di Bella, deceduto due anni prima, come doveroso omaggio a “uno scienziato e un benefattore dell'umanità”. Ci sono voluti altri anni di clamorosi insuccessi e di sconfessioni da parte della comunità scientifica internazionale per far tramontare il metodo Di Bella. L'eco del caso stamina si è da poco spento. In questa vicenda l'azione della Magistratura è stata ancor più invasiva e così contraddittoria per cui, in molti casi, chi veniva autorizzato dal magistrato a somministrare la terapia con cellule staminali era indagato da altri magistrati! L'ideatore del metodo, un certo Vannoni Davide, con una laurea in semiotica e specialista in pubbliche relazioni e cura dell'immagine, nel 2004 si era recato in Ucraina, noto Paese all'avanguardia  nella ricerca medico-scientifica, per curarsi una emiparesi con un trattamento a base di cellule staminali. Tornato, affermò di essere migliorato al 50% e, con l'aiuto di due biologi russi, che presto torneranno in patria, mise a punto una terapia per malattie neurodegenerativa con cellule staminali: costi da 20 a 50mila euro per trattamento. Arriva la prima denuncia per truffa, e fra una ordinanza  che vieta il trattamento e una che lo autorizza esplode il caso. Questa volta è la trasmissione Le Iene a sponsorizzare il metodo e a suggestionare anche Celentano che scrive una lettera aperta al Ministro Balduzzi. Pronto, subito, un decreto legge per autorizzare la prosecuzione dei trattamenti, e una legge di conversione con uno stanziamento di tre milioni di euro per la sperimentazione. Gli esiti della sperimentazione, le prese di posizione del mondo scientifico internazionale, i guai giudiziari del sig. Vannoni hanno chiuso anche questa dolorosa e sconcertante vicenda. È invece più fresca la polemica sui vaccini e i loro effetti collaterali. Anche in questo caso una forza politica ha cavalcato a lungo le posizioni no-vax fin quando, assumendo la responsabilità diretta del Ministero della Salute, ha avviato una più ponderata riflessione sul ruolo dei vaccini nella difesa della salute del singolo e della collettività. La Magistratura non ha perso occasione, con qualche procura e tribunale, di dare il meglio di sé nello sposare teorie, da tempo ampiamente smentite, sui danni che i vaccini possono provocare. È stata riesumata la storia dell'autismo, sindrome di ignota etiopatogenesi, forse genetica, addebitata invece al vaccino trivalente, una storia nata come una vera e propria truffa nel Regno Unito, smascherata con successiva radiazione dall'albo del medico che l’aveva inventata e  che - come si dice a Roma - ogni tanto "riciccia", insieme ad altre sconsiderate teorie che finiscono per disorientare l'opinione pubblica. Non è un caso che l'Eurobarometro, in una recentissima indagine, valuta in 48% gli italiani convinti che i vaccini provocano effetti collaterali dannosi. Nel concludere questa così poco edificante carrellata di assurde vicende c'è da riflettere nel sistematico richiamo  che politici e magistrati a sostegno delle loro posizioni fanno dell'art. 32 della nostra Costituzione, articolo che sancisce il diritto alla salute come diritto fondamentale e implicitamente la libertà di scelta delle cure. Libertà che deve essere, tuttavia, funzionale a rendere concreto e fruibile il diritto costituzionalmente garantito. Cure, quindi, scientificamente validate per essere autorizzate e rese gratuite in un quadro di scelte politiche nell'allocazione delle risorse necessarie. Insomma abbiamo bisogno di certezze scientifiche: non possiamo essere ancora l’Italia di maghi, imbonitori, fattucchiere, madonne che piangono dappertutto e ora anche di terrapiattisti, se non vogliamo continuare a essere il paese del mitico sarchiapone.

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del Dott. Alberto Volponi

Il Servizio Sanitario Nazionale ha compiuto, nel dicembre scorso, quarant'anni. La sua istituzione è stata una delle grandi conquiste civili degli anni '70, che chiudeva un indimenticabile, e da allora irripetibile, decennio riformatore. Il passaggio dal sistema mutualistico, fondato su un principio tecnico-assicurativo, legato, e diversamente declinato nelle prestazioni, al tipo di lavoro svolto (e se svolto!), a quello universalistico che sostanziava il principio costituzionale del diritto alla salute "come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività", è stato epocale. Il nostro Servizio Sanitario si è progressivamente affermato scalando le classifiche mondiali fino a conquistare il secondo posto della classifica OMS nel 2000. Una medaglia d'argento che abbiamo saputo difendere anche se cambiando i criteri di compilazione cambiano, ovviamente, le posizioni in classifica. Per Blomberg siamo ancora al quarto posto, per la Euro Health Consumer, dove è preminente la valutazione della soddisfazione del paziente, siamo al ventiduesimo. Nonostante le politiche dei tagli perpetrate da anni, con un numero di posti letto ridotti da cinquecentomila del '78 a duecentomila, la perdita di oltre quarantamila operatori (e sembrano non destare preoccupazione gli annunciati nuovi esodi di massa), la spesa in rapporto al PIL scesa dalla media annuale del 7,1 degli anni 2001-2006, al 6,6, una discesa che non rallenterà nei prossimi anni (6,3 programmato per il 2020) contro il 9,5 della Francia e il 9,6 della Germania, con un costo per ogni cittadino rispettivamente di 2613, 3593, 4405 euro. Nonostante ciò il nostro Servizio Sanitario è capace di dare prestazioni complessivamente superiori agli altri Paesi spendendo di meno. Altro miracolo italiano di cui forse gli operatori della sanità qualche merito lo hanno! Insomma questo nostro Servizio Sanitario sembra portare, ancora bene, i suoi quarant'anni: evocando Nanni Moretti di "Caro Diario" si può parlare di uno "splendido quarantenne" proprio nel confronto con altri Paesi. è evidente che questi riconoscimenti non possono bastare e annullare i disagi, le frustrazioni di tanti cittadini  nell'attesa, spesso messianica, per una visita specialistica o nei sovraffollati pronto-soccorso, a volte autentici gironi danteschi, e neanche ad azzerare le diseguaglianze fra aree del Paese con una crescente mobilità sanitaria, veri viaggi della speranza, in particolare dal sud verso il nord dell'Italia. Sono necessari, quindi, interventi strutturali, mettere in campo nuove idee, strategie di ampio respiro, iniziando con il ridefinire il ruolo dello Stato centrale e quello delle Regioni per assicurare l'omogenità dell'accesso alle cure, e ai trattamenti sanitari in genere, su tutto il territorio nazionale, riducendo il gap fra regioni così da evitare che, proprio per la mobilità sanitaria, quelle ricche diventino sempre più ricche a spese di quelle povere, sempre più povere. Bisognerà poi rivedere gli assetti organizzativi e la stessa natura giuridica della Asl, i rapporti di lavoro, in particolare del personale medico, per ricondurli a unicità, presupposto essenziale per una reale  integrazione fra territorio e ospedale, medicina di base e specialistica. E perché il nostro "splendido quarantenne" rimanga tale è fondamentale puntare sulla prevenzione, un vero caposaldo delle politiche sanitarie, e adottare nuove strategie sociali e sanitarie per le persone anziane che, già oggi, consumano metà della spesa sanitaria.  Purtroppo difronte a un quadro così complesso e alla necessità di scelte incisive e coraggiose ci si preoccupa al massimo di cambiare i membri del Consiglio Superiore di Sanità, organismo superfluo, se non inutile, nella sua funzione, e che per questo andrebbe abolito. Cambiamento che sembra più  ubbidire alla logica di uno spoil-system all'amatriciana, ovvero "levate tu che me ce metto io", soprattutto se nelle scelte si conferma il criterio dell'appartenenza vera o presunta a determinate aree politiche: criterio tutt'altro che scientifico! Forse la conoscenza e la competenza non sono più requisiti fondamentali. Questa può essere la preoccupante chiave di lettura di alcuni interventi legislativi quali una sanatoria, tanto per cambiare, per le figure professionali non mediche, ovvero infermieri, ostetriche, fisioterapisti e così via, diciassette figure istituite con DM del 3 maggio 1994. Con successivo DM del 27 luglio 2000 furono stabilite le equipollenze rispetto ai titoli conseguiti con precedenti ordinamenti didattici. La nuova norma prevede che coloro che abbiano esercitato una determinata professione, senza titolo specifico o non riconosciuto, per 36 mesi non consecutivi nell'arco degli ultimi 10 (pensate quanta professionalità è possibile acquisire in un arco di tempo così breve e frammentato) sono equiparati a coloro che il titolo se lo sono sudato. Quindi si riconosce il titolo a chi ha esercitato, e lo autocertifica, senza titolo: una volta si chiamava esercizio abusivo della professione. Segue lo stesso ordito la norma che prevede la possibilità di assumere nel settore dell'emergenza, il più delicato dell'organizzazione sanitaria, medici senza titolo specifico ma che abbiano svolto, negli ultimi 10 anni, 4 anni in strutture sanitarie nel settore dell'emergenza. Tom Nichols nel suo libro "La conoscenza e i suoi nemici" sottotitolo "L'era della incompetenza e i rischi per la democrazia" ci ricorda che nell'era dell'incapacità l'aspetto più grave è nel fatto che "siamo orgogliosi di non sapere le cose" e che"l'ignoranza è diventata una virtù". In una sua lettera Ernesto Rossi, economista e uno dei padri, con Spinelli e Colorni, del Federalismo europeo scriveva: "Non bastano le buone intenzioni. Ho conosciuto un bambino che credeva di far il bene d'un pesce rosso tirandolo fuori dall'acqua per asciugarlo con un fazzoletto. E molte persone grandi fanno per buon cuore quello che voleva fare il bambino. Credono di aiutare, e invece fanno solo del male, perché non sanno quali sono le conseguenze delle loro azioni. Per saperlo, almeno fin dove è possibile, bisogna studiare". L'impreparazione  è alla base di una carenza di strategie, di inventiva nel progettare soluzioni per costruire un futuro diverso. è anche questo "presentismo", ovvero affrontare e pensare di esaurire i grandi temi che ci attanagliano, da quelli dell'economia, a quelli del lavoro, della coesione sociale, dell'immigrazione nell'arco temporale di una giornata ricca di slogan sparati a raffica con twitter. Nessuno sembra proprio  avere memoria del monito degasperiano (De Gasperi: chi era costui?) che distingueva il politico che pensa alle prossime elezioni dallo statista che si preoccupa delle prossime generazioni. Siamo a Groucho Marx: "Perché dovrei fare qualcosa per i posteri? Cosa hanno fatto questi posteri per me?"

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di Alberto Volponi


Dal libro della Genesi: “Poi il Signore disse: non è bene che l'uomo sia solo: gli voglio fare un aiuto che gli sia simile”. Il primo, quindi, a preoccuparsi della solitudine umana è stato il Padreterno e questo a conferma che l'uomo, nella sua natura, è un essere sociale. La condizione di solitudine, che è in primis uno stato d'animo determinato dalla convinzione di essere soli, di non essere capiti, di non avere relazioni sociali soddisfacenti, una dimensione legata alla qualità dei rapporti più che alla quantità, ha accompagnato l'uomo fin dal suo primo apparire sulla terra. Nel tempo, essa è stata diversamente definita e valutata. Aristotele la riteneva non “umana” per cui “chi è felice nella solitudine o è una bestia selvaggia o un dio”. Un’infinita schiera di poeti si è misurata sul concetto di solitudine e il massimo cantore rimane Leopardi (anche il passero era “solitario”, la luna “solinga”, il caro "ermo”, solitario, colle, luogo di “sovrumani silenzi e profondissima quiete”). Leopardi aveva anche una definizione, possiamo dire ironica, della solitudine ovvero “una lente di ingrandimento: se stai solo e stai bene, stai benissimo, se stai solo e stai male, stai malissimo”. Struggenti i quattro immortale versi di Quasimodo in cui la solitudine diventa mesta compagna del breve palpito della vita: “Ognuno sta solo... trafitto da un raggio di sole, ed è subito sera”. C'è poi chi, come Cesare Pavese, un tipo non proprio allegro, finito suicida, la ritiene una iattura per cui l'uomo cerca rifugio nella religione, ovvero “nel trovare una compagnia che non falla: Dio”. La solitudine torna a intrecciarsi con ricordi biblici espressi in maniera dissacrante da Paul Valery: “Dio ha creato l'uomo e, non trovandolo sufficientemente solo, gli ha dato una compagna per fargli sentire di più la solitudine”. Una dichiarazione tutta maschilista a cui fa eco Cechov: “Se avete paura della solitudine non sposatevi”! Per fortuna non pochi apprezzano anche l'essere soli e addirittura, gioiosamente, la beatificano. è il caso di San Bernardo di Chiaravalle, dei monaci cistercensi, di cui possiamo ammirare le millenarie abbazie gotiche, che soleva ripetere: “Beata solitudo,sola beatitudine”. Anche il mondo, più frivolo, delle canzoni non ha trascurato il tema: Laura Pausini si è lanciata, San Remo 1993, nel firmamento internazionale con "La solitudine" (Marco se n'è andato e non ritorna più...). Potremmo continuare così ma crediamo sia il caso di affrontare la questione da un nuovo, più impegnativo, versante: la solitudine come problema sociale che finisce per intersecare problematiche sanitarie. È dimostrato che gli anziani sono i soggetti che maggiormente soffrono la condizione di solitudine ora che anche la televisione non è più il “nuovo focolare” cantato da Arbore in “Indietro tutta”, spento nella solitudine degli smart phone. Il rapporto ISTAT del 2018 ci dice che il 40% dei soggetti con più di 75 anni non hanno un amico o qualcuno a cui rivolgersi in caso di necessità. In considerazione degli indici di natalità negativi e con un numero crescente di anziani il problema sarà sempre più acuto nei prossimi anni, assumendo un carattere emergenziale anche sotto il profilo sanitario, essendo ormai da considerare la solitudine un vero fattore di rischio. Negli anni vari studi, sopratutto nel mondo anglosassone, hanno evidenziato questo legame. Una ricerca negli Stati Uniti, iniziata nel 1979 e durata nove anni, ha scoperto, studiando settemila persone, che i soggetti “scollegati dagli altri” avevano una probabilità di morire tre volte superiore a quelli con forti legami sociali e come, fra quest'ultimi, anche quelli con abitudini di vita poco salutari (fumo, sedentarietà...) vivevano più a lungo di quelli con abitudini considerate migliori ma con scarse relazioni sociali. Nel 1984 uno studio conosciuto come Ruberman, su 2320 soggetti di sesso maschile infartuati, evidenziò, nei 3 anni successivi, un diverso indice di mortalità: quelli con interazioni sociali buone avevano il 50% di probabilità in più di sopravvivenza. Dati sostanzialmente confermati da studi italiani (Perissinotto, 2012). Controverso è, invece, il rapporto solitudine-depressione. Rapporto risolto, senza esitazioni, da Pacth Adams, l'inventore della clownterapia, terapia del riso, che ha un suo fondamento scientifico nell'effetto del buon umore nella produzione di catecolamine ed endorfine, con una diminuzione del cortisolo e corrispettivo aumento della risposta immunitaria. Egli scrisse: “La depressione è un’epidemia di portata mondiale. Nel 2020 secondo le stime dell'OMS, la depressione sarà la malattia più diffusa del pianeta. Personalmente credo che la maggior parte delle depressioni abbiano le loro radici nella solitudine, ma la comunità medica preferisce parlare di depressione piuttosto che di solitudine. è più facile liberarsi del problema dando una diagnosi e una scatola di farmaci. Perché se cominciassimo a parlare di solitudine sapremmo, per certo, che non ci sono farmaci. Non c'è industria medica che tenga, basta l'amore umano”. Nella stessa direzione ci porta  uno degli studi fra i più importanti mai effettuati, il Grant Study, che dal 1939 raccoglie dati, approfondisce analisi. Il motivo conduttore rimane lo stesso: l'attesa di vita si allunga con il migliorare della vita di relazione. Un quotidiano nazionale ha, in un titolo, così commentato e sintetizzato i risultati di tale studio: “Il segreto per vivere bene? L'amore e l'amicizia contano più del colesterolo”. Chissà se un giorno qualcuno ci chiederà conto, come medici, di tante restrizioni alimentari inflitte!!

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del dott. Alberto Volponi

La mattina del 5 dicembre 1952 Londra si svegliò avvolta da una densa, grigiastra nube. La capitale della Gran Bretagna era  famosa per fenomeni di nebbia misti a fumi provenienti dai comignoli delle case, dalle ciminiere delle fabbriche, dagli automezzi, per cui era stata coniata la parola smog che, grammaticalmente, è una crasi, fra smoke e fog, ovvero fumo e nebbia (specialità linguistica degli inglesi, visto che anche il termine Brexit è una crasi). Lo smog a Londra era diventato un segno distintivo per la città tanto che il suo colore grigio scuro aveva dato il nome a un colore, un tessuto, fumo di Londra, da cui un vestito che il grande Alberto Sordi non esitò a indossare, in maniera impeccabile con tanto di bombetta, nel suo film, "Fumo di Londra", degli anni settanta. In quel dicembre, però, il fenomeno era ben più consistente per una serie di congiunture climatiche sfavorevoli, non ultimo il riposizionamento più a nord dell'anticiclone delle Azzorre, croce e delizia delle nostre estati italiane, oltre i paralleli dove tradizionalmente stazionava nei periodi invernali. Lo smog durò fino al 9 dicembre, con un bilancio apocalittico per gli abitanti: 12 mila morti, 150 mila ricoverati per patologie respiratorie. Finalmente, per primi gli Inglesi presero coscienza della gravità del problema e si diedero da fare per rimuovere le cause e, bisogna dire, riuscendovi. Per anni abbiamo concentrato la nostra attenzione sugli effetti per l'apparato respiratorio con patologie, comprese quelle tumorali, determinate dai prodotti della combustione di varie sostanze. Negli anni '90 le particelle presenti nell'aria inquinata classificate in base al loro diametro, espresso in micron, in PM10 e PM2,5, cominciano a essere individuate come responsabili anche di patologie acute cardio-vascolari. Studi successivi, sempre più documentati e condotti con il necessario rigore scientifico, hanno chiaramente evidenziato questo stretto nesso di causalità. L'autorevole American College of Cardiology, in una recentissima pubblicazione, arriva a quantificare come, nelle aree dove si registrano picchi di concentrazione  di PM2,5, si ha un aumento del 3% degli infarti e a lungo termine, un anno, l'aumento è del 10%. LDa segnalare che l'OMS nel suo rapporto sulla salute fino al 2008 come fattori di rischio per le malattie cardiovascolari, elencava soltanto i tradizionali: fumo, sedentarietà, obesità, abitudini alimentari errate, ipercolesterolemia. Tutti fattori che certamente entrano, il più delle volte in concorso tra di loro, nell'etiopatogenesi delle malattie cardio-vascolari, ma nessuno di essi ha un'azione diretta sulle pareti arteriose come le polveri sottili che, inalate, superano la barriera alveolo-polmonare, vanno in circolo  e hanno campo libero nel correre a danneggiare qualsiasi parete arteriosa, provocando il successivo trombo ostruttivo e, quindi, a valle l'ischemia o l'infarto del tessuto irrorato. Solo nel maggio 2016 l'OMS ha messo sul banco degli imputati, come causa di morte primaria, l'inquinamento ambientale e in particolare quantifica in 8,2 milioni i decessi attribuiti alle patologie più diffuse, da correlare all'inquinamento  ambientale, etichettate come malattie non trasmissibili (MNT) ovvero malattie cardio-vascolari, tumori, malattie respiratorie. Con oltre il 60% dei decessi riconducibili a patologie cardio-vascolari. Certamente contro questi fattori patogeni legati all'inquinamento da polveri sottili, tanto determinanti nell'insorgere delle malattie quanto misconosciuti al di fuori degli addetti ai lavori, c’è bisogno di scelte prescrittive delle autorità di governo locali ma soprattutto nazionali, che possono essere risolutive come prevenzione su vasta scala. Al contrario i tradizionali fattori di rischio, che riguardano  lo stile di vita e quindi la sfera individuale, sono più difficili da influenzare e correggere. Nel frattempo a chi pensa come una bella pedalata in bicicletta, in pieno centro città, sia altamente salutare - al di là dei rischi di essere travolti o soltanto di finire in qualche buca stradale - si dovrebbe spiegare che l'aria inalata, il cui volume si amplia per l'aumento fisiologico della ventilazione polmonare, è carica delle famose PM. Altrettanto bisognerebbe avvertire gli ignari avventori di trattorie e ristoranti on the road, quelli con i tavoli sui marciapiedi, che mentre, per ragioni salutistiche, stanno mangiando una bella insalata con un goccio d'olio extravergine di oliva - che fa tanto bene - si stanno riempiendo i polmoni di gas tossici prodotti dagli scarichi delle auto che gli scivolano a fianco. Il problema dell'inquinamento dell'aria da polveri sottili ha una dimensione mondiale. Un rapporto del 2017 della Commissione Europea su Air quality in European  cities, evidenzia come le più alte concentrazioni  di PM si registrano in Polonia, in maniera piuttosto diffusa, nei territori dell'ex Germania dell'est, nella nostra pianura padana e a sud di Roma, nella martoriata provincia di Frosinone, lungo la valle del Sacco, già classificata come SIN, sito di interesse nazionale, per l'inquinamento del suolo e delle acque, e ora sugli altari delle cronache nazionali ed europee per quello atmosferico, che chiude un drammatico cerchio. Lentamente, forse troppo lentamente, l'attenzione dell’opinione pubblica si sta rivolgendo verso questi fenomeni costringendo le autorità di governo, a qualsiasi livello, a prendere le necessarie iniziative, affrontando il problema proprio dal punto di vista ambientale, ovvero alla radice, prima ancora che da quello sanitario. Le cause vanno rimosse per curare bene gli effetti! Non possiamo ancora accettare che si perpetui l'implacabile scissione tra sviluppo e bellezza - la natura è bellezza - fra sviluppo e salute dei cittadini. Vogliamo tornare a guardar il cielo così come descrive il Manzoni il suo cielo di Lombardia “così bello, quando è bello, così splendido, così in pace”.

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del Dott. Alberto Volponi

Le più fedeli compagne di viaggio dell'uomo sono sempre state le malattie. L'uomo da quando iniziò il suo cammino dal centro dell'Africa peregrinando per il mondo fino a occupare pressoché ogni angolo della terra, anche i più inospitali per le condizioni climatiche, è stato l'inconsapevole vettore di microbi e virus. I primi contatti fra popolazione diverse hanno avuto effetti devastanti. La scoperta e la colonizzazione del Nuovo Mondo sono la testimonianza più drammatica. Nel 1492, anno fatidico, gli abitanti di Hispaniola, attuale Haiti, erano otto milioni, tutti scomparsi appena quaranta anni dopo, falcidiati da malattie infettive portate dagli spagnoli con le loro caravelle. Cortes sbarcò, nel 1519, sulle coste del Messico con 600 uomini ma l'annientamento del civilissimo e glorioso popolo azteco fu sancito da una epidemia di vaiolo, malattia con cui non erano mai entrati in contatto, e quindi minimamente immunizzati, piuttosto che dalle armi degli spagnoli. Analoga vicenda segnò il popolo Inca con la conquista del Perù da parte di Pizarro, che sbarcò, siamo nel 1531, con appena 168 uomini. Non miglior sorte hanno avuto gli indigeni del Nord America che, impropriamente, colpa di Colombo, abbiamo sempre chiamati indiani. Ancora nel 1837 una piccola tribù di nativi fu infettata da vaiolo portato da un battello a vapore in navigazione sul Missouri; in poche settimane la popolazione passò  da 2000 a 40 individui. è evidente che il diverso, lo sconosciuto, lo straniero ha sempre suscitato timori, in molti casi fondati, ed è stato visto come una reale minaccia, un pericolo per la propria salute e la propria vita. Paure ancestrali che i progressi delle scienze, in particolare della medicina, avrebbero dovuto dissipare. Purtroppo anche la scienza, la razionalità, rischiano oggi di soccombere di fronte alle paure, all'irrazionalità. Paure alimentate da ben orchestrate campagne promosse da chi sa trarre lucrosi vantaggi per le proprie posizioni ideologiche. Gridi di allarme si succedono tutti i gironi: gli immigrati portano la tubercolosi! La tubercolosi è la prima malattia conosciuta dal genere umano; alcune tracce dell'infezione sono già rinvenute in ossa del neolitico  e in mummie egiziane del 3000 a.C. Ben nota ai Romani, accompagnò l'uomo nel Medioevo e nel Rinascimento, raggiungendo il picco fra il XVIII  e il XIX secolo quando il fenomeno dell'inurbamento esplose con la rivoluzione industriale. Solo ne 1882 Koch scoprì il Mycobatterium  responsabile della malattia ma bisognerà aspettare il 1944, con la scoperta della streptomicina e quindi dell'isoniazide, per una terapia efficace. Quando si riteneva debellata completamente ecco, negli anni '80, registrarsi una notevole recrudescenza in tutto il mondo occidentale, Italia compresa (allora zero immigrati) dove fece scalpore e suscitò meraviglia la notizia che la malattia aveva colpito una icona del calcio italiano dell'epoca. L'Oms calcola che nel mondo vi siano mezzo milione di nuovi casi ma nessuna organizzazione sanitaria ha mai messo in relazione il fenomeno con flussi migratori. Gli immigrati, quindi, non portano la tubercolosi? Ma la scabbia sì! è arcinoto che la scabbia, malattia conosciuta già nell'antico Egitto, non ha la pericolosità di altre malattie. Il sintomo più evidente è un prurito intenso ed eruzioni cutanee provocate da cunicoli scavati sotto la pelle dall'acaro femmina per deporre le uova. La trasmissione avviene per contatto diretto e prolungato pelle-pelle. Si cura banalmente con specifiche pomate a base di permetrina e una buona profilassi domestica con lavaggi di biancheria, lenzuola... Essendo una malattia che si diffonde per contatto e prospera in condizioni igieniche precarie non c'è da meravigliarsi se una certa percentuale di immigrati, stipati nei gommoni o nelle stive dei barconi, arrivino con i segni di tale malattia, ma è altrettanto vero che prima di sbarcare vengono facilmente curati e non possono diventare per questo veicoli di infezione. Al contrario non sembrano, questi immigrati, affetti da pediculosi che ciclicamente affligge intere classi di nostri bambini in età scolare, ben "igienizzati" e ben vestiti. Fenomeno, questo, che sembrava consegnato alla storia dell'Italia sporca e stracciona fino all'immediato dopoguerra quando i pidocchi furono sconfitti dal ddt americano e scomparve la "moda" dei capelli rasati a zero. Ma si insiste: forse la scabbia no ma la malaria... Sembra di rileggere Esopo tradotto in latino da Fedro: Superior stabat lupus... Così la recrudescenza della malaria o l'arrivo, con nuove zanzare, di altre patologie è colpa degli immigrati. Poiché conosciamo come avviene la trasmissione, ovvero tramite la puntura del fastidioso insetto portatore del plasmodium, non riusciamo a capire tecnicamente il ruolo dell'immigrato né possiamo pensare che siano loro a organizzare il trasferimento, in appositi contenitori, delle zanzare infette in Italia, anche per semplici ragioni legate all'emivita delle stesse. Del resto c'è chi crede che in alcune aree del Paese si effettuino ripopolamenti di vipere con lanci dagli elicotteri!! Per la zanzara tigre si è sempre saputo che è arrivata in Italia, precisamente a Genova, con un carico di pneumatici usata provenienti dagli USA mentre il virus della febbre del Nilo, che comincia a fare le sue vittime in alcune zone della pianura padana, è trasportato da uccelli migratori e trasmesso all'uomo dalle zanzare nostrane. In verità, sempre secondo l'OMS, i problemi  di salute di rifugiati e migranti "sono simili a quelli del resto della popolazione" mentre il rischio di importazione di agenti infettivi "è estremamente basso" e quando si verifica "riguarda viaggiatori regolari,turisti oppure operatori sanitari,più che rifugiati o migranti". Gli stessi dati statici-epidemiologici riguardo le patologie di cui sono affetti una minima percentuale, non oltre il 15%, degli immigrati vedono agli ultimi posti quelle di natura infettiva. Indubbiamente i flussi migratori, che dovrebbero essere risolti alla radice rimuovendo o al meno attenuando le cause che ne sono all'origine, vanno regolamentati e resi compatibili con la possibilità di una accoglienza umanamente dignitosa e di integrazione vera, compito titanico a cui l'Europa intera dovrebbe far fronte, ma è fuori discussione, a essere solo dei cinici economisti, senza scomodare valori quali la solidarietà e il rispetto della dignità umana, che le società occidentali hanno bisogno di forza lavoro, per di più giovane e a buon mercato, sia come capacità produttiva sia come riserva previdenziale. Arrivare, quindi, a dipingere tanti poveri "disgraziati, tribolati" (Manzoni) come nuovi untori ce ne vuole! Tuttavia nonostante la realtà oggettiva, inoppugnabili dati scientifici, la logica, si diffondono e fanno presa sulla gente insensate paure. I propalatori, poi, di simili allarmi godono di una speciale immunità: a loro tutto è perdonato. Hanno sempre ragione (anche Lui...). Siamo ai Blues Brothers, alla scena in cui la fidanzata affronta, sparando con un mitra, John Belushi, reo di averla lasciata attendere, inutilmente, sull'altare. Belushi si difende: "non ti ho tradito, ero rimasto senza benzina, avevo una gomma a terra, non avevo i soldi per prendere un taxi, la tintoria non mi aveva portato il tight, c'era il funerale di mia madre, c'è stato un terremoto, una tremenda inondazione, le cavallette, non è stata colpa mia". La fidanzata, incredibilmente, ci crede e gli si avvinghia al collo e lo bacia. Vi ricordate l'Illuminismo, il trionfo della ragione? Ecco, comincia, appunto, a essere un ricordo interessante da un punto di vista storico. Niente più Lumi o quasi; è notte. Ci sovviene il Belli, con la sua cruda, malinconica rassegnazione: dopo "un par d'ora de sgoccetto ....'na pisciatina, 'na sarvereggina, e, in zanta pace, ce n'annamo a letto." (Fonte: La Pelle, Settembre-Ottobre 2018)

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del Dott. Alberto Volponi

Proprio in questi giorni si festeggiano i cinquant'anni di una canzone che ha accompagnato la nostra gioventù (meglio non usare "giovinezza", con tutti i nostalgici in giro!): Azzurro. Doveva essere il retro del disco di un'altra bellissima canzone, "Una carezza in un pugno", ma si impose subito come la preferita. Fu un grande successo di Celentano, parole di Paolo Conte, che continuiamo a canticchiare, in particolare il ritornello del treno, quello "dei desideri nei miei pensieri all'incontrario va". Per una imperscrutabile associazione di idee, come spesso accade, questo ritornello ci porta all'immaginario treno del governo, quello giallo-verde, appena partito. Un treno assemblato un pò alla rinfusa, con un capotreno improvvisato così come molti capocarrozza, che tuttavia ci auguriamo, almeno, che non vada "all'incontrario". La carrozza della sanità è guidata da un medico, anatomopatologo, ascendente medico-legale. Questo, sotto il profilo delle competenze, dovrebbe tranquillizzarci ma a dire il vero i precedenti di medici ministri della Sanità, non sono così esaltanti. A parer nostro, l'ultimo grande Ministro è stato Donat-Cattin, politico puro, proveniente dalle file del sindacalismo operaio, digiuno di sanità, cui va ascritto il merito di  una profonda e innovativa revisione della legge 833 e lo stanziamento  di ben 30 mila miliardi di lire per l'edilizia ospedaliera, finanziaria 1989, con cui sono stati costruiti e ristrutturati decine di ospedali italiani. Non avendo preclusioni di sorta pensiamo che il neo-ministro, Grillo, possa far bene. Per ora sappiamo che c'è la ferma volontà di difendere il Servizio sanitario: benissimo! Difesa che ovviamente non può limitarsi a una enunciazione di principio anche se fondamentale per sgomberare il campo da possibili equivoci, in considerazione di certe idee che il patner di governo ha in questi anni propugnato e attuato nelle Regioni amministrate. Non possiamo nasconderci che sono necessarie risorse economiche cospicue per investimenti in personale altamente qualificato e professionalizzato, in tecnologia, in innovazione, e, non ultimo, in interventi di edilizia sanitaria. Il rischio di un sotto finanziamento è reale. L'OMS fissa al 6,5% del Pil la soglia minima; noi siamo al 6,6 con una tendenza a scendere nei prossimi anni; nel 2020 si ipotizza un 6,3. Nel frattempo sempre più ampie risorse trovano allocazione nella sanità privata grazie anche a una fiscalmente agevolata corsa ai fondi pensione: sono, per questo anno, 40 miliardi! Se non si inverte la rotta recuperando al pubblico, sul piano di una efficace concorrenza, parte di queste risorse inevitabilmente scivoliamo verso la privatizzazione generalizzata della sanità. A questo punto diventerebbe dolorosamente attuale il this is going to hurt, best seller di una giovane dottoressa inglese, che è la frase con cui il medico avvisa il paziente nell'atto di fargli una iniezione, "Questo le farà male". Ecco: il treno "all'incontrario " proprio no! Allora come possiamo difendere il Servizio Sanitario, riaffermare il principio dell'universalità delle prestazioni, di uguaglianza fra tutti i cittadini, principi già messi a dura prova dalla legislazione autonoma delle 20 Regioni, senza adeguati e indispensabili finanziamenti? Primo vero, grande, banco di prova per il Ministro ma su questo versante domina un preoccupante silenzio. Scorrendo le linee programmatiche per la sanità si parla di un maggiore coinvolgimento dei medici di famiglia, un leit-motiv che ci accompagna da quasi mezzo secolo. Nel '74 l'allora Ministro Vittorino Colombo, milanese, nel presentare il disegno di legge sulla Istituzione del SSN, che vedrà la luce nel dicembre del '78, ministro Tina Anselmi di Castelfranco Veneto, affermava in Parlamento: "La domanda di prestazioni sanitarie è solo in parte determinata dall'assistito: in realtà essa viene interpretata ed espressa dal medico di primo intervento, l'attuale medico generico, dalla cui capacità e coscienza professionale e dalla integrazione con gli enti operativi e presidi sanitari, dipende in larga misura  il buon andamento anche economico dell'intero settore sanitario. Non si esagera affermando che il buon esito della riforma dipenderà soprattutto dall'organizzazione periferica dei servizi medici di base che si saprà porre in atto e della preparazione di cui si sapranno dotare i medici di primo intervento." L'indimenticabile Peppino De Filippo avrebbe chiosato: "Ho detto tutto!". Ma anche qui, un capitolo fondamentale dell'organizzazione sanitaria, al di là di un attestato di considerazione per la medicina di base e del territorio, non si va. Avrà, il neo-Ministro, la forza di affrontare il tema della pluralità dei rapporti di lavoro che i medici hanno con il Servizio Sanitario? Si può riprendere, in un ampio e sereno confronto con il mondo medico, in tutte le sue componenti, il discorso di come modulare un possibile, e a questo punto non più procrastinabile, rapporto unico, per favorire una vera integrazione fra le varie aree, oggi autentiche monadi? Anche l'espressa volontà di tagliare il malefico rapporto fra politici e nomine nella Asl è fin troppo impalpabile. Non si può pensare di risolverlo con l'elenco nazionale dei Direttori Generali, già previsto nel decreto 502, rifiutato dalle Regioni, abolito dal 229, Ministro Bindi, e ora riproposto con il Decreto legislativo 171/ 2016, e già operativo. Nel programma di governo si annuncia, inoltre, la tradizionale incursione nel settore farmaceutico e la promessa di una revisione della normativa sui vaccini la cui obbligatorietà è stata salutata unanimamente come vitale da tutto il mondo scientifico italiano. Si sa, però, che in Italia le parole di tale mondo, gravato dal peso di essere "accademico", sono spesso ignorate tanto che abbiamo avuto Ministri che sponsorizzavano la cura Di Bella, in nome di una libertà di cura senza confini, no limits, da"sovranismo individuale". In verità per la Sanità, come per tutti gli altri vagoni, sarebbe necessaria una profonda ristrutturazione; non qualche tocco di maquillage, qualche lifting più o meno riuscito. La casa Italia ha bisogno, dopo oltre settanta anni, di interventi strutturali, solo tentati, invano, negli ultimi anni. E in questo contesto affrontare nodi quali i rapporti istituzionali e le relative competenze fra lo Stato e le Regioni in materia di sanità. Senza questa operazione ogni finanziamento, anche cospicuo, rischia di essere vanificato. Sarà difficile riempire la botte se non si tappano i buchi, non riusciremo mai ad averla piena ma la moglie ubriaca sì, ovvero il sistema fuori controllo. L'invito è a non perderci nel particolare, a non soffermarci oltre misura sull'immediato, contingente, e a non pensare di risolvere problemi complessi imboccando innaturali scorciatoie. Dobbiamo alzare lo sguardo, avere una visione ampia, progettuale, strategica. Quest'ultima è stata e rimane una prerogativa fondamentale  su cui si misurano le qualità del politico e dello statista. Per ora le intenzioni programmatiche del Governo  e il dibattito che le accompagna non ci fanno intravvedere sguardi proiettati ad ammirare la "luna" ma solo fissi sul "dito" che inutilmente la indica.

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del dott. Alberto Volponi

“Il medico, il paziente e il giudice"... non è una commedia di Pirandello e il giudice non è di Berlino, quello evocato dal mugnaio Arnold di Potsdam, nella Prussia di Federico il Grande. Sono i personaggi di recente, drammatica, attualità in scena a Liverpool con i medici dell'ospedale pediatrico che staccano la spina al piccolo Alfie contro l'ostinata, comprensibile, volontà dei genitori, su decisione dei giudici per mettere fine a quello che veniva classificato come accanimento terapeutico, nell'interesse (!!) supremo del piccolo bambino. Viene sospesa anche l'idratazione e l'alimentazione che nessun testo sacro di medicina ha mai considerato come terapie e quindi non possono essere strumenti di accanimento terapeutico. Senza il respiratore automatico Alfie lotta per cinque giorni poi cede. Sempre gli stessi giudici negano la possibilità di portare il bambino a casa o di trasferirlo in Italia, stato membro della UE, come ancora la Gran Bretagna, dove vige la libera circolazione dei cittadini, con Alfie diventato, nel frattempo, cittadino italiano. Il diniego poggia sul principio dell'interesse primario del bambino di non soffrire più, interesse da salvaguardare al di là della patria potestà genitoriale. Tutta la vicenda così come dettata dalla sentenza dei giudici inglesi, sembra improntata più a "far morire" che a un compassionevole "lasciar morire". Siamo all'accanimento "aterapeutico"! Si è scritto e discettato molto sul destino del piccolo Alfie e ancora una volta la sottile e invisibile linea rossa che separa la vita dalla morte è superata dall'intervento dei giudici. Purtroppo non c'è da essere ottimisti: ormai i casi si ripetono con allarmante frequenza. Credo che vada fatta una profonda riflessione partendo dal rapporto fiduciario tra il medico e il paziente, rapporto che si è progressivamente indebolito  e che tende a divaricarsi ancor di più con interventi autoritativi. Non è superfluo sottolineare il fondamento etico-antropologico della medicina che ne rappresenta la specificità  rispetto ad altre scienze in quanto l'oggetto del suo interesse è l'uomo nella sua interezza, nel suo completo benessere fisico, psichico e sociale prima ancora della sua malattia. Il medico ha, quindi, un ruolo centrale  nella tutela della nostra salute e non può abdicare a favore di terzi, con esiti imprevedibili. Certamente il medico ha le sue responsabilità nel deterioramento del rapporto con il paziente. Deve tornare ad ascoltare con la necessaria attenzione, direi condivisione, il paziente e recuperare in autorevolezza; questi deve affidarsi al medico rinunciando a quello che Michele Serra, in una sua "Amaca", ha etichettato come "sovranismo individuale" come volontà assoluta di autodeterminazione. Ma la responsabilità del medico va, bisogna ammettere, contestualizzata rispetto a una profonda trasformazione della medicina. In duemila e cinquecento anni la Medicina, come scienza e pratica medica, ha subito delle incredibili, anche se spesso lente, trasformazioni, con un'accellerazione netta nell'ultimo secolo. Nonostante gli indubbi successi mai come in questi ultimi decenni la Medicina è oggetto di contestazioni e sempre più tende a essere strumento per la soluzione a problemi economici, etici, sociali. è uno dei paradossi del nostro tempo dominato da un imponente crepuscolo. Il medico, Homo oeconomicus, impegnato nel rendere ottimale l'uso delle risorse, sempre meno disponibili, il medico piegato da scelte politiche o ideologiche fino ad accelerare la fine di una vita morente. Sarò un illuso, un inguaribile romantico ma mi piace rivedere il mio medico nelle pagine di Tolstoi, “La morte di Ivan Il'ic": "I medici sono utili non tanto per il fatto che ci fanno inghiottire ogni possibile sostanza, ma perché essi corrispondano a un bisogno spirituale del paziente o dei suoi parenti: l'eterno bisogno di una speranza,di simpatia e di sollievo di cui un uomo che soffre ha estremo bisogno." In una medicina che recuperi in pieno la sua dimensione ippocratica è evidente che fra il medico, il paziente e il giudice uno è definitivamente di troppo.

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del dott. Alberto Volponi

 

1978: un anno che non si dimentica. Il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro e la sua scorta, tragico evento che ha cambiato il corso della storia dell'Italia; l'elezione di Pertini a Presidente della Repubblica, il più amato dei Presidenti; il governo della solidarietà nazionale che vedeva, per la prima volta dall'inizio della guerra fredda, il Partito Comunista entrare nell'area del governo, operazione voluta da Moro per rinsaldare le traballanti istituzioni e dare l'avvio a una nuova fase di vita democratica del Paese (la terza fase!), e che gli è costata la vita. Un anno, il '78, denso di avvenimenti che si chiudeva, siamo alla vigilia di Natale, con l'approvazione, quasi in sordina, della Riforma Sanitaria, la Legge 833, Ministro Tina Anselmi, democristiana, morotea. Con la riforma finiva il tempo delle mutue che avevano avuto un ruolo  significativo nell'assistenza sanitaria degli italiani ma scontavano la loro natura tecnico-assicurativa: intervento solo in caso di malattia, quindi nessuna prevenzione, e se sei, appunto, solo un assicurato, ovvero versi, come lavoratore, dipendente o autonomo, i relativi contributi. Una miriade di "casse" fornivano prestazioni diverse ed escludevano le fasce più deboli, i senza reddito, i senza lavoro; "casse" in grave crisi finanziaria, ovvero vuote! Tale discriminante e alla fine costoso ma poco efficiente sistema veniva sostituito, con la 833, da un sistema universalistico che nasceva dal riconoscere il diritto di essere cittadini e finanziato dalla fiscalità generale. Alla fine degli anni'80 Donat Cattin, Ministro della Sanità, presentò un disegno di legge, di modifica alla 833, con cui si introducevano elementi di gestione aziendalistica e di regionalizzazione del sistema. La copiosa normativa degli anni successivi, 502/517/229..., accentuò questi caratteri fino a conferire ogni potere programmatico e gestionale alle Regioni. Nacquero così venti sistemi sanitari regionali che, nella diseguaglianza dei trattamenti, rendono, mutuando Orwell, alcuni cittadini più uguali degli altri nel rispetto di un diritto costituzionale. Ma la minaccia più grave per tutto il Servizio Sanitario pubblico è rappresentata dal suo progressivo sotto finanziamento e si sa che senza soldi non si canta messa! (Groucho Marx soleva ripetere :"Ovviamente nella vita ci sono un mucchio di cose più importanti del denaro ma costano un sacco di soldi"). È l'OMS a lanciare l'allarme: un finanziamento sotto il 6,5% del Pil rischia di non garantire un'assistenza adeguata. Nel Documento di economia e finanza, varato a dicembre 2017 dal Consiglio dei Ministri, si evidenzia una inarrestabile riduzione negli anni della quota del Pil destinata alla spesa sanitaria. Dal 7,3 del 2010 al 6,6 del 2017, quindi, ogni anno un decimale in meno fino al 6,3 del 2020. Da qui la crisi del sistema già in atto: riduzione dei posti letto ospedalieri, carenze di personale medico e infermieristico, pronti soccorso ormai veri gironi danteschi dove si garantiscono a fatica prestazioni sanitarie ma sempre meno si garantisce il rispetto della dignità umana, liste di attese ormai inaccettabili sotto ogni profilo, medico ed etico. Nel contempo cresce la spesa sanitaria privata che raggiunge i 35 miliardi. è il ritorno alle mutue sotto l'accattivante spoglie del "second welfare". Milioni di Italiani,14, hanno nel 2017, un'assistenza sanitaria integrativa; nel 2025 saranno 21 milioni. Non solo, quindi, lavoratori autonomi e dirigenti di azienda ma semplici dipendenti, operai. Il fondo sanitario dei metalmeccanici, Metasalute, è diventato obbligatorio con un milione e mezzo di iscritti. Vi ricordate i cortei sindacali che reclamavano fra i giusti diritti quello della tutela della salute per tutti? Oggi nei consigli di amministrazione dei Fondi siedono rappresentanti datoriali e sindacali. A incentivare il fenomeno è la tassazione molto favorevole di questa voce in busta paga il che vuol dire, non dimentichiamolo, meno introiti per lo Stato. Si va verso un sistema binario: il servizio pubblico per i meno abbienti, quello privato per chi può. Ma il servizio pubblico rimane ancora l'approdo per patologie più impegnative e indagini diagnostiche più raffinate e se è scadente lo è per tutti! Di fronte a tale sconfortante quadro chi ha creduto e crede nel Servizio Sanitario pubblico non ha voglia di festeggiare i suoi “primi quarantanni”. Mentre qualcuno stappa bottiglie di spumante: cioè chi ha creduto, al contrario, che la sanità sia sempre e solo nu grande bisinisse. Nell'Italia delle più recenti conquiste di nuovi diritti civili si tenta di archiviare quelli che ritenevamo definitivamente acquisiti dimenticando come la salute sia sempre in cima ai pensieri di tutti. Ce lo ricorda il grande Massimo Troisi, in "Ricomincio da tre ", quando alla compagna, in procinto di regalargli un figlio di dubbia paternità, che sospira "se c'è l'amore..." risponde: "...no! Quella è la salute..!"

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