Osservatorio delle politiche sanitarie del Lazio

Valutazione attuale: 5 / 5

Stella attivaStella attivaStella attivaStella attivaStella attiva

Stella inattivaStella inattivaStella inattivaStella inattivaStella inattiva

di Alberto Volponi

L’isolamento cui siamo stati costretti nelle varie fasi della pandemia ha prodotto diffusi danni alla salute di una larga parte della popolazione. Sono aumentati gli stati ansioso-depressivi con un'impennata di consumo dei relativi farmaci e implementazione dell'attività degli addetti alla filiera della psiche: psicologi, psicoanalisti, psicoterapeuti, psichiatri. Un fenomeno così diffuso e allarmante da spingere le forze politiche a un accordo per un bonus psicologico (uno più uno meno!) con uno stanziamento di 50 milioni, anche se, alla fine, della corrispondente posta nel bilancio 2022 non vi è traccia! Si sono registrati molti disturbi alimentari con il pendolo oscillante fra casi di bulimia e anoressia di vario grado, obesità, disturbi metabolici. Anche l'attività sessuale ha avuto un netto calo, tanto che una delle più grandi fabbriche di preservativi, la Karex, ha deciso di riconvertire parte della produzione in guanti di gomma. E pensare che una volta si rideva con l'esilarante commedia “No sex please, we're british” (niente sesso siamo inglesi), una commedia degli equivoci, delle allusioni, dei doppi sensi, come sarebbe piaciuto a un romano d'altri tempi, Plauto, che Garinei e Giovannini importarono da Londra e misero in scena, siamo nel 1972, nel glorioso Sistina con Johnny Dorelli e Bice Valori. A questa riduzione dell'attività sessuale è in parte addebitato anche il nuovo crollo della natalità, con qualche fondata preoccupazione per specialità mediche come l'ostetricia e la pediatria, mentre avanza la geriatria, specialità relativamente giovane che, come sappiamo, si interessa delle persone all'altro capo del percorso terreno, gli anziani. La curva delle nascite è da anni, soprattutto in Italia, in fase fortemente calante. La curva comincia a declinare negli anni ‘70. Il dato delle nascite dopo essersi attestato negli anni ‘50/60 sui novecentomila nati, con una punta di un milione sedicimila nel ‘64, scende, in maniera inarrestabile, fino ai nostri giorni: nel 2020 sono nati in Italia 404.000 bambini e nel 2021 il dato finale si attesta sui 390mila. Il fenomeno della denatalità non può essere attribuito esclusivamente a motivazioni sociologiche. Certamente le condizioni di lavoro delle donne, la insufficienza dei servizi sociali, la mancanza di politiche di sostegno alla natalità e più in generale alla famiglia hanno il loro peso ma crediamo che questi non siano i veri o almeno gli unici motivi. Se così fosse non troverebbe spiegazioni come il dato della diminuzione delle nascite è da tempo più marcato nelle aree del Paese dove maggiore è il benessere economico con una rete di servizi sociali sicuramente più efficiente. La stessa curva decrescente della natalità procede in senso inverso rispetto a quella crescente del benessere economico e sociale del nostro Paese. Crediamo di poter dire che, in gran parte, la motivazione del preoccupante fenomeno ha un carattere culturale, antropologico nella sua accezione più ampia, che vede il nostro essere assumere una dimensione sempre più marcatamente individualistica, alla ricerca della realizzazione della propria persona al di fuori dei modelli e delle forme tradizionali. Da qui la crisi dell'istituto del matrimonio, del superamento del rapporto di complementarietà fra l'uomo e la donna così come teorizzato da Gina Lombroso, medico, scrittrice, protagonista nel primo novecento del dibattito sulla condizione femminile, nel suo: “L'Anima delle donne”. La maternità che, afferma la Lombroso, figlia, fra l'altro, del famoso Cesare, è indotta da un istinto altruistico, sembra oggi, grazie anche alle soluzioni offerte dalla moderna genetica e dalle tecniche di procreazione, per cui, tutto ciò che è tecnicamente possibile diventa eticamente accettabile, l'appagamento di un personale desiderio. Stiamo in verità assistendo, e in qualche misura ne siamo attori, a una trasformazione del nostro essere che vira sempre più verso l'affermazione dell'”Io”, in una società dove il “noi” è sempre più residuale così da essere sempre meno disposti all'accoglienza sia di una nuova vita, sia verso l'anziano lasciato in compagnia della sua solitudine, nei confronti del soggetto fragile o di chi viene da lontano ed è diverso da noi solo nei caratteri somatici. Anche il netto calo delle adozioni, al di là delle difficoltà burocratiche che pur vi sono, è legato a questa nostra nuova dimensione esistenziale. L'istituto dell'adozione sopravvive a favore degli animali, in particolare i cani. Migliaia di cani hanno trovato un padrone, più spesso una padroncina. Durante il lockdown si sono svuotati i canili. Quello di Segrate, uno dei più grandi d'Italia, in un anno ha dato una casa a 329 cani, quasi una al giorno. Così, sempre per seguire il borsino delle professioni sanitarie, quella veterinaria si è rilanciata alla grande. Periodo aureo per i veterinari e i fabbricanti di croccantini, anche se, purtroppo, crediamo che non tarderà a venire, di nuovo, il tempo dei canili che torneranno a riempirsi passata la ventata cinofila. Ma il lockdown qualcosa di buono ci consegna: una riduzione delle patologie cardiovascolari. Non è poca cosa! Nel 2020 mancano all'appello 15mila infarti del miocardio. è l'Agenas, l'Agenzia sanitaria nazionale delle Regioni, a darci questo confortante dato e a dirci, anche, come la tendenza a una progressiva riduzione degli episodi infartuali, già evidenziata negli anni precedenti con una diminuzione annuale del 2%, frutto certamente di campagne contro il fumo, la sedentarietà, una migliore alimentazione, è scesa di colpo del 14%, un dato che ha altre ragioni. Ragioni strettamente collegate al Lockdown che ha favorito un miglioramento della qualità dell'aria grazie alla riduzione delle polveri sottili. Da tempo è scientificamente provato la correlazione fra le PM, particelle prodotte dalla combustione delle auto, industrie, riscaldamenti domestici, che attraverso l'aria che respiriamo giungono nei nostri polmoni e, superando la barriera alveolo-polmonare, vanno in circolo innescando processi infiammatori a carico dei vasi così da provocare alterazioni delle pareti arteriose con conseguenti infarti a valle dell'arteria interessata. L'inquinamento, quindi, come trigger (innesto) per l'infarto. La stretta correlazione inquinamento-infarto è confermata dal dato registrato in alcune aree del Paese, meno fortunate, dove l'inquinamento da polveri sottili non si è ridotto durante il lockdown - questo fenomeno meriterebbe un serio approfondimento sulle sue reali cause - anzi si è accentuato e, in maniera proporzionale ma coerente, vi sono stati un maggior numero di infarti, il tutto in controtendenza rispetto al dato nazionale. L'altro grande nemico del nostro cuore è lo stress che, attraverso la produzione di sostanze adrenergiche, determina una vasocostrizione, con conseguente innalzamento della pressione arteriosa, tachicardia, condizioni che finiscono con aumentare l'impegno del muscolo cardiaco e favorire un episodio infartuale. Studi più recenti evidenziano un ruolo dell'amigdala, l'area “emozionale” del cervello, che inciderebbe sulla produzione di cellule infiammatorie da parte del midollo osseo, con conseguenti formazioni di placche aterosclerotiche e trombi occludenti i vasi. Se la correlazione cuore-cervello è sempre più stretta, il lockdown ha ridotto le cause dello stress in particolare a quello legato ai ritmi di lavoro, agli spostamenti nel traffico, alle varie incombenze spesso accompagnate, nella fretta di assolverle, da ansia. Tutte condizioni che Arbore si è divertito a elencare nel suo brano “Ma la notte no!” colonna sonora dell'indimenticabile programma televisivo “Quelli della notte”. Per combattere, poi, “il logorio della vita moderna” una volta ci si affidava al consiglio di un impassibile Ernesto Calindri che, tranquillamente seduto in mezzo a un mare di automobili, invitava a bere un Cynar! Questa pandemia, che speriamo sia ormai ai titoli di coda di una rappresentazione altamente drammatica che nessuno potrà dimenticare, ci sta dando numerose  lezioni di cui dovremmo fare tesoro: l'importanza di un servizio sanitario pubblico ma anche i suoi deficit organizzativi e gestionali a cui mettere riparo; la necessità di una lotta seria all'inquinamento che ha dimostrato un forte legame con la diffusione del virus; l'adozione di nuovi stili di vita. Almeno  per questa ultima indicazione, che ha una valenza altamente soggettiva, dovremmo far nostro un vecchio proverbio, ancorché cinese: “Il segreto di vivere a lungo è mangiare la metà, camminare il doppio, ridere il triplo e amare senza misura”.

Stella inattivaStella inattivaStella inattivaStella inattivaStella inattiva

di Raffaele Turturro, Commercialista, Roma

La responsabilità civile e i rischi connessi all’esercizio delle attività professionali sono in costante aumento, pertanto, é legittima la preoccupazione di individuare idonei strumenti giuridici di tutela patrimoniale. Se da un lato é giusto assicurare un congruo risarcimento per gli errori commessi nell'esercizio dell'attività professionale occorre tuttavia evitare di compromettere la situazione patrimoniale familiare e preservarla da eventi imprevisti e imprevedibili. Il ristoro dei terzi danneggiati può essere garantito mediante un'apposita polizza assicurativa, tuttavia, anche in tal caso non é possibile escludere l'eventualità che la richiesta di risarcimento non venga integralmente coperta dalla polizza e intacchi anche il patrimonio personale del professionista. Tra i vari strumenti di tutela, l'istituto del Fondo Patrimoniale appare il più idoneo al caso specifico anche in relazione al rapporto costi/benefici. Il fondo patrimoniale è lo strumento previsto dal nostro codice civile per assicurare alla famiglia, fondata sul matrimonio, la salvaguardia dei beni destinati a soddisfarne i bisogni da possibili azioni esecutive da parte di terzi. Questa tutela può essere utilizzata solo dalle coppie sposate (siano esse in regime di comunione o separazione dei beni); non se ne possono avvalere quindi i "single" o le unioni non regolarizzate. Possono essere compresi nel fondo beni immobili, beni mobili registrati e titoli di credito. Conferire beni in un fondo patrimoniale significa apporre sui beni stessi un vincolo di destinazione ai bisogni della famiglia, senza che questo comporti la perdita della proprietà del bene. Il vincolo riguarda l’uso che si può fare del bene inserito nel fondo patrimoniale che deve essere rivolto a soddisfare i bisogni della famiglia. La vendita dei beni inseriti nel fondo patrimoniale, pertanto, può avvenire solo se c’è il consenso di entrambi i coniugi. Il fondo patrimoniale si costituisce con atto notarile, il costo non é eccessivo, può andare indicativamente dai 1.500 ai 2.000 euro e non varia significativamente in ragione dei beni in esso conferiti. Queste brevi considerazioni sembrerebbero stridere con lo scarso ricorso dei professionisti a questo strumento di tutela. Il fondo patrimoniale, infatti, sconta una cattiva reputazione creatasi nel corso degli anni. Proviamo a vedere se questo giudizio negativo é meritato o se deriva da una analisi superficiale, anche alla luce delle sentenze al riguardo della Corte di Cassazione. L'art 170 del Codice civile stabilisce che i beni del fondo patrimoniale non sono escutibili per i "debiti che il creditore conosceva essere stati contratti per scopi estranei ai bisogni della famiglia". Viceversa, se il professionista ha contratto dei debiti per sostenere le spese familiari, i beni del fondo patrimoniale possono essere aggrediti dai creditori. Il debitore che intenda avvalersi della protezione scaturente dal fondo patrimoniale deve dimostrare la regolare costituzione del fondo, la sua opponibilità al creditore procedente e che il suo debito sia stato contratto per scopi estranei ai bisogni della famiglia. Il punto fondamentale, quindi, é individuare quando il debito può essere correlato ai bisogni familiari. Questo aspetto ha condizionato il giudizio negativo sull'istituto: "Come si fa a dimostrare che i debiti non sono stati contratti per esigenze familiari ? La definizione di spese familiari può essere molto ampia." É bene chiarire che il fondo patrimoniale non é una cassaforte che garantisce impunità da ogni genere di obbligazione. Se dopo aver costituito il fondo non si pagano i debiti e le imposte dovute, probabilmente i creditori e anche lo Stato, potranno agevolmente sostenere che questo comportamento ha contribuito a sopperire ai bisogni familiari. La situazione é ancora più censurabile se si costituisce il fondo patrimoniale per sottrarre i beni a debiti già contratti in precedenza. Tuttavia, se il fondo patrimoniale non tutela i beni quando se ne fa un uso distorto, rimane un valido rimedio per realizzare gli scopi consoni alla sua stessa natura: la tutela del patrimonio familiare da obbligazioni non riconducubili alle esigenze domestiche. La Corte di Cassazione, nel corso degli anni ha interpretato estensivamente la definizione di obbligazioni sorte per esigenze familiari (Cassazione 15862/ 2009) individuando un criterio identificativo legato non alla natura dell'obbligazione, ma alla concreta relazione tra il fatto da cui essa deriva e i bisogni familiari, così da potervi ricondurre ogni sorta di credito purché volto al mantenimento e allo sviluppo della famiglia. Queste interpretazioni hanno influenzato negativamente il giudizio sulla validità della tutela offerta dal fondo patrimoniale. Ma così facendo si é proceduto per così dire a " buttare via il bambino con i panni sporchi" . L'orientamento della Suprema Corte, infatti, ha chiarito negli anni i corretti confini dell'istituto fino ad arrivare all'ordinanza 2904 dell'8 febbraio 2021, con la quale esclude una connessione automatica tra i debiti assunti per ragioni professionali o imprenditoriali e la soddisfazione dei bisogni della famiglia del debitore mediante l'assunzione di detti debiti. La Suprema Corte precisa che, se é ben vero che la prova dei presupposti di impignorabilità grava sul debitore, una volta addotta dal debitore l'estraneità dell'obbligazione assunta rispetto alla soddisfazione dei bisogni della famiglia, spetta al creditore l'onere di provare che, nello specifico caso concreto, il debito é stato contratto per esigenze famililari. (Cassazione, sentenze 12998/2006, 15862/ 2009, 15886/ 2014). Secondo la Cassazione, dunque, non vi é connessione automatica tra obbligazioni assunte per l'attività professionale e bisogni familiari, e "l'atto di assunzione del debito é eccezionalmente volto a, immediatamente e direttamente, soddisfare i bisogni della famiglia". Questa interpretazione ben si inserisce nel nostro sistema normativo. L'art 46 della legge fallimentare, infatti, esclude dal compendio dei beni del fallito quelli costituiti in fondo patrimoniale. Ma se questo criterio stabilito dalla Corte di Cassazione é valido per la generalità dei debiti di impresa o professionali, a maggior ragione si deve applicare ai debiti che sono estranei alla ordinaria attività professionale e scaturiscono da una richiesta di risarcimento danni per responsabilità civile. La responsabilità civile si divide in responsabilità extracontrattuale (Art.2043 C.C) che prevede l'applicazione del principio di “ non nuocere” e che obbliga chi ha provocato un danno ingiusto verso qualcuno a risarcirlo e responsabilità contrattuale che deriva dalla violazione di uno specifico rapporto, contratto. In entrambi i casi il debito scaturisce da un obbligo di risarcimento e non ha alcuna correlazione con le esigenze familiari. Quindi una volta addotta dal debitore l'estraneità dell'obbligazione assunta rispetto alla soddisfazione dei bisogni della famiglia, sarà impossibile per il creditore dimostrare che il debito scaturente da una responsabilita professionale é stato contratto per esigenze famililari. La cattiva reputazione del fondo patrimoniale, quindi, si riferisce ai casi di un uso distorto dello stesso. Viceversa, quando si vuole mettere al sicuro il patrimonio familiare da eventi pregiudizievoli imprevedibili é opportuno ricorrere a questa tutela. Il fondo patrimoniale non é l'unico strumento di salvaguardia messo a disposizione dal nostro ordinamento e il professionista potrà valutare altre opzioni in ragione alle proprie specifiche necessità anche nel'ottica di pianificazione del passaggio generazionale dei beni. Tuttavia tale istituto non pregiudica l'utilizzo congiunto di altre forme di garanzia e, considerando il costo non eccessivo e la natura poco invasiva in relazione alla autonomia patrimoniale individuale, dovrebbere costituire il "minimo sindacale" in fatto di protezione del patrimonio del professionista. (Fonte: La Pelle, Luglio-Agosto 2021)

Stella inattivaStella inattivaStella inattivaStella inattivaStella inattiva

del dott. Alberto Volponi

La battaglia contro il vaiolo, malattia altamente infettiva e letale causata dal virus variola, nelle due varianti maior e minor, è ufficialmente finita nel 1979 quando l'OMS ha dichiarato la malattia eradicata. Per secoli il vaiolo ha accompagnato la storia dell'uomo e mietuto milioni di vittime. Sue notizie si hanno a partire dal 3000 a.c. e tracce di una possibile infezione da vaiolo sono state rinvenute nella mummia del faraone Ramses V. L'Europa fu interessata dalla malattia solo nel medioevo con episodiche epidemie che, a partire dal 1500, assunsero forme endemiche propagandosi in tutto il mondo. L'arma per sconfiggere definitivamente questo flagello è stato il vaccino. La storia del vaccino contro il vaiolo è ben nota. Si deve all'intuizione di Jenner, medico inglese, che osservò come i contadini che avevano contratto il vaiolo vaccino, trasmesso loro dalle pustole delle mucche per via della mungitura, non contraevano il ben più grave vaiolo umano. Scelse come cavia il figlio del suo giardiniere, un bambino di otto anni, e, attraverso dei graffi provocati sul braccio, inoculò del liquido prelevato dalle pustole vaiolose delle mammelle di una vacca (da qui il nome vaccino). Il piccolo ancorché esposto a casi di vaiolo umano non si ammalò. Un esperimento certo rischioso, oggi giustamente improponibile e inaccettabile, ma che ebbe lo straordinario merito di aprire la strada ai vaccini, una categoria di indispensabili presidi contro le malattie infettive, così chiamati da Pasteur, in omaggio proprio allo Jenner, quando nel 1885 creò quello contro la rabbia. L'idea che piccole dosi di sostanze liquidi o frammenti essiccati di croste di vescicole vaiolose, magari soffiate nel naso, creassero una qualche difesa contro la malattia era diffusa già da secoli sia in Cina che in India. Era la cosiddetta variolizzazione, sconosciuta in occidente. Solo all'inizio del 1700 grazie a Lady Worthey Montagu, moglie dell'ambasciatore inglese in Turchia, e al suo impegno nel convincere in primis l'aristocrazia inglese a mettere in atto questo pratica conosciuta nel suo soggiorno turco, si diffuse in tutta Europa. Certamente non così efficace come il vaccino di Jenner ma il principio terapeutico era lo stesso. Un recente libro di Maria Teresa Giaveri, "Lady Montagu e il dragomanno" ci fa rivivere l'appassionata e avventurosa storia di questa intraprendente e risoluta Lady inglese ai tempi di re Giorgio I. Il vaiolo, come tutte le malattie infettive, è stata una malattia "democratica". Ha colpito, anche se senza gravi conseguenze, illustri personaggi da Mozart a Beethoven, Washington e Lincoln; colpì Stalin a cui lasciò sul volto, butterato, tracce evidenti che solo l'uso di abbondanti fondotinta, e ritocchi fotografici, resero meno repellente. A partire dal 1958 si intraprese, su forte sollecitazione dell'OMS, una intensa campagna di vaccinazione su scala mondiale che si concluse nei due decenni successivi. La nostra generazione, quella immediatamente post-bellica, fu investita in pieno dal programma vaccinale che avveniva con il metodo della scarificazione: una serie di rapide punture in un'area molto circoscritta sulla faccia laterale del braccio sinistro, con un ago immerso precedentemente in una soluzione vaccina. Si formava, a distanza di una settimana, una piccola vescicola con pus e quando si cominciava a essiccare lasciava il posto a una crosta che, alla fine della terza settimana, cadeva. Rimaneva una indelebile cicatrice, a mò di bottone, che ancora orna il nostro braccio. L'operazione avveniva nell'ambulatorio comunale con il medico di famiglia nella sua veste di Ufficiale sanitario. Aspettavamo trepidanti il nostro turno lungo un corridoio. La stanza del medico, dalle pareti piastrellate di bianco, le sedie, gli sgabelli, il lettino, tutti smaltati di un bianco avorio. Nessun bambino, ancorché intimorito per l'ambiente e forse anche un po' storditi dal forte odore di acido fenico usato, a dosi massicce, come disinfettante, piangeva. In fondo non era dolorosa e poi, visto con quanto orgoglio i compagni che l'avevano già fatta mostravano i segni sul braccio, quasi medaglie al valore, non si poteva non essere coraggiosi. Ben diversa la vaccinazione antidifterica dove, al contrario, i pianti  dei bambini diventavano urla e strepiti, che nessuna promessa di giocattoli, caramelle, gelati riusciva a frenare. Il terrore era instillato dallo strumento che doveva affondare nei piccoli glutei: una siringa di vetro presa dal bollitore con un ago che, per grandezza, avrebbe fatto comodo alla materassaia di fronte all'ambulatorio. Alla vaccinazione antivaiolosa e antidifterica si aggiunse presto quella contro la poliomielite, il cui primo vaccino fu sviluppato da Salk nel 1955 e perfezionato, due anni dopo, da Sabin. Nel 1971, grazie a Hilleman, microbiologo statunitense che non ebbe la notorietà di altri suoi colleghi ma il cui nome è legato a ben quaranta tra vaccini animali e umani, arrivò il vaccino trivalente contro morbillo - parotite - rosolia. Dieci anni dopo sempre Hilleman ci regalò il vaccino contro l'epatite B. Vaccinazioni a gogò che si dovevano fare e si facevano, senza discussione alcuna. Mai sentito che qualcuno in casa,a tavola, avanzasse riserve di alcun tipo, né c’erano dibattiti in merito alla radio (la televisione era nata da poco e non era ancora il "nuovo focolare" cantato da Arbore in "La vita è tutta un quiz"). Per questo non sappiamo immaginare come i bambini di oggi, costretti a ben 10 vaccinazioni obbligatorie (legge 119/2017), e quattro vivamente consigliate, fra cui due per i diversi ceppi di meningococco, riescano a capire qualcosa di un dibattito sulla vaccinazione anti Covid che molti mettono in discussione. Un dibattito probabilmente surreale per loro che sono obbligati a plurivaccinarsi mentre gli adulti "opinano" appellandosi addirittura all'art. 32 della Costituzione. Come spesso accade le norme, anche le più chiare - e quelle scritte nella Costituzione lo sono come non mai - vengono tirate a proprio piacimento e convenienza. Esiste, certo, il diritto costituzionale alla libertà di cura ma è solo il secondo comma del citato articolo 32. Il primo comma sancisce per tutti i cittadini il diritto alla salute che, ovviamente, è premiante rispetto alla libertà di cura, libertà che deve essere regolamentata in senso restrittivo quando si rischia di mettere in discussione l'altro diritto, alla salute, da cui esso discende. Rimane difficile comprendere perché per i cittadini Italiani da 0 a16 anni non valga il diritto costituzionale reclamato dai no-vax e dai ni-vax. Ai bambini non stiamo offrendo un grande spettacolo e, stranulati, ci guardano. Ci potrebbe aiutare a capire meglio il delicato rapporto fra grandi e bambini  rivedere il film di De Sica del 1943,proprio dal titolo: "I bambini ci guardano", un film che aprì le porte alla grande stagione del neorealismo italiano. I bambini, come nel film, ci guardano, ci osservano, ci giudicano e speriamo che non sempre ci imitino. Il rifiuto al vaccino anti Covid non è un grande esempio di solidarietà: non bisogna dimenticare che la libertà individuale è tale quando è espressa nell'ambito della comunità, un legame che oggi, come non mai, deve prevalere. (Articolo pubblicato sul numero di Gennaio/Febbraio 2021 de "La Pelle")

Stella inattivaStella inattivaStella inattivaStella inattivaStella inattiva

del Dott. Alberto Volponi

Le più fedeli compagne di viaggio dell'uomo sono sempre state le malattie. L'uomo da quando iniziò il suo cammino dal centro dell'Africa peregrinando per il mondo fino a occupare pressoché ogni angolo della terra, anche i più inospitali per le condizioni climatiche, è stato l'inconsapevole vettore di microbi e virus. I primi contatti fra popolazione diverse hanno avuto effetti devastanti. La scoperta e la colonizzazione del Nuovo Mondo sono la testimonianza più drammatica. Nel 1492, anno fatidico, gli abitanti di Hispaniola, attuale Haiti, erano otto milioni, tutti scomparsi appena quaranta anni dopo, falcidiati da malattie infettive portate dagli spagnoli con le loro caravelle. Cortes sbarcò, nel 1519, sulle coste del Messico con 600 uomini ma l'annientamento del civilissimo e glorioso popolo azteco fu sancito da una epidemia di vaiolo, malattia con cui non erano mai entrati in contatto, e quindi minimamente immunizzati, piuttosto che dalle armi degli spagnoli. Analoga vicenda segnò il popolo Inca con la conquista del Perù da parte di Pizarro, che sbarcò, siamo nel 1531, con appena 168 uomini. Non miglior sorte hanno avuto gli indigeni del Nord America che, impropriamente, colpa di Colombo, abbiamo sempre chiamati indiani. Ancora nel 1837 una piccola tribù di nativi fu infettata da vaiolo portato da un battello a vapore in navigazione sul Missouri; in poche settimane la popolazione passò  da 2000 a 40 individui. è evidente che il diverso, lo sconosciuto, lo straniero ha sempre suscitato timori, in molti casi fondati, ed è stato visto come una reale minaccia, un pericolo per la propria salute e la propria vita. Paure ancestrali che i progressi delle scienze, in particolare della medicina, avrebbero dovuto dissipare. Purtroppo anche la scienza, la razionalità, rischiano oggi di soccombere di fronte alle paure, all'irrazionalità. Paure alimentate da ben orchestrate campagne promosse da chi sa trarre lucrosi vantaggi per le proprie posizioni ideologiche. Gridi di allarme si succedono tutti i gironi: gli immigrati portano la tubercolosi! La tubercolosi è la prima malattia conosciuta dal genere umano; alcune tracce dell'infezione sono già rinvenute in ossa del neolitico  e in mummie egiziane del 3000 a.C. Ben nota ai Romani, accompagnò l'uomo nel Medioevo e nel Rinascimento, raggiungendo il picco fra il XVIII  e il XIX secolo quando il fenomeno dell'inurbamento esplose con la rivoluzione industriale. Solo ne 1882 Koch scoprì il Mycobatterium  responsabile della malattia ma bisognerà aspettare il 1944, con la scoperta della streptomicina e quindi dell'isoniazide, per una terapia efficace. Quando si riteneva debellata completamente ecco, negli anni '80, registrarsi una notevole recrudescenza in tutto il mondo occidentale, Italia compresa (allora zero immigrati) dove fece scalpore e suscitò meraviglia la notizia che la malattia aveva colpito una icona del calcio italiano dell'epoca. L'Oms calcola che nel mondo vi siano mezzo milione di nuovi casi ma nessuna organizzazione sanitaria ha mai messo in relazione il fenomeno con flussi migratori. Gli immigrati, quindi, non portano la tubercolosi? Ma la scabbia sì! è arcinoto che la scabbia, malattia conosciuta già nell'antico Egitto, non ha la pericolosità di altre malattie. Il sintomo più evidente è un prurito intenso ed eruzioni cutanee provocate da cunicoli scavati sotto la pelle dall'acaro femmina per deporre le uova. La trasmissione avviene per contatto diretto e prolungato pelle-pelle. Si cura banalmente con specifiche pomate a base di permetrina e una buona profilassi domestica con lavaggi di biancheria, lenzuola... Essendo una malattia che si diffonde per contatto e prospera in condizioni igieniche precarie non c'è da meravigliarsi se una certa percentuale di immigrati, stipati nei gommoni o nelle stive dei barconi, arrivino con i segni di tale malattia, ma è altrettanto vero che prima di sbarcare vengono facilmente curati e non possono diventare per questo veicoli di infezione. Al contrario non sembrano, questi immigrati, affetti da pediculosi che ciclicamente affligge intere classi di nostri bambini in età scolare, ben "igienizzati" e ben vestiti. Fenomeno, questo, che sembrava consegnato alla storia dell'Italia sporca e stracciona fino all'immediato dopoguerra quando i pidocchi furono sconfitti dal ddt americano e scomparve la "moda" dei capelli rasati a zero. Ma si insiste: forse la scabbia no ma la malaria... Sembra di rileggere Esopo tradotto in latino da Fedro: Superior stabat lupus... Così la recrudescenza della malaria o l'arrivo, con nuove zanzare, di altre patologie è colpa degli immigrati. Poiché conosciamo come avviene la trasmissione, ovvero tramite la puntura del fastidioso insetto portatore del plasmodium, non riusciamo a capire tecnicamente il ruolo dell'immigrato né possiamo pensare che siano loro a organizzare il trasferimento, in appositi contenitori, delle zanzare infette in Italia, anche per semplici ragioni legate all'emivita delle stesse. Del resto c'è chi crede che in alcune aree del Paese si effettuino ripopolamenti di vipere con lanci dagli elicotteri!! Per la zanzara tigre si è sempre saputo che è arrivata in Italia, precisamente a Genova, con un carico di pneumatici usata provenienti dagli USA mentre il virus della febbre del Nilo, che comincia a fare le sue vittime in alcune zone della pianura padana, è trasportato da uccelli migratori e trasmesso all'uomo dalle zanzare nostrane. In verità, sempre secondo l'OMS, i problemi  di salute di rifugiati e migranti "sono simili a quelli del resto della popolazione" mentre il rischio di importazione di agenti infettivi "è estremamente basso" e quando si verifica "riguarda viaggiatori regolari,turisti oppure operatori sanitari,più che rifugiati o migranti". Gli stessi dati statici-epidemiologici riguardo le patologie di cui sono affetti una minima percentuale, non oltre il 15%, degli immigrati vedono agli ultimi posti quelle di natura infettiva. Indubbiamente i flussi migratori, che dovrebbero essere risolti alla radice rimuovendo o al meno attenuando le cause che ne sono all'origine, vanno regolamentati e resi compatibili con la possibilità di una accoglienza umanamente dignitosa e di integrazione vera, compito titanico a cui l'Europa intera dovrebbe far fronte, ma è fuori discussione, a essere solo dei cinici economisti, senza scomodare valori quali la solidarietà e il rispetto della dignità umana, che le società occidentali hanno bisogno di forza lavoro, per di più giovane e a buon mercato, sia come capacità produttiva sia come riserva previdenziale. Arrivare, quindi, a dipingere tanti poveri "disgraziati, tribolati" (Manzoni) come nuovi untori ce ne vuole! Tuttavia nonostante la realtà oggettiva, inoppugnabili dati scientifici, la logica, si diffondono e fanno presa sulla gente insensate paure. I propalatori, poi, di simili allarmi godono di una speciale immunità: a loro tutto è perdonato. Hanno sempre ragione (anche Lui...). Siamo ai Blues Brothers, alla scena in cui la fidanzata affronta, sparando con un mitra, John Belushi, reo di averla lasciata attendere, inutilmente, sull'altare. Belushi si difende: "non ti ho tradito, ero rimasto senza benzina, avevo una gomma a terra, non avevo i soldi per prendere un taxi, la tintoria non mi aveva portato il tight, c'era il funerale di mia madre, c'è stato un terremoto, una tremenda inondazione, le cavallette, non è stata colpa mia". La fidanzata, incredibilmente, ci crede e gli si avvinghia al collo e lo bacia. Vi ricordate l'Illuminismo, il trionfo della ragione? Ecco, comincia, appunto, a essere un ricordo interessante da un punto di vista storico. Niente più Lumi o quasi; è notte. Ci sovviene il Belli, con la sua cruda, malinconica rassegnazione: dopo "un par d'ora de sgoccetto ....'na pisciatina, 'na sarvereggina, e, in zanta pace, ce n'annamo a letto." (Fonte: La Pelle, Settembre-Ottobre 2018)

Valutazione attuale: 5 / 5

Stella attivaStella attivaStella attivaStella attivaStella attiva

del dott. Alberto Volponi

“Il medico, il paziente e il giudice"... non è una commedia di Pirandello e il giudice non è di Berlino, quello evocato dal mugnaio Arnold di Potsdam, nella Prussia di Federico il Grande. Sono i personaggi di recente, drammatica, attualità in scena a Liverpool con i medici dell'ospedale pediatrico che staccano la spina al piccolo Alfie contro l'ostinata, comprensibile, volontà dei genitori, su decisione dei giudici per mettere fine a quello che veniva classificato come accanimento terapeutico, nell'interesse (!!) supremo del piccolo bambino. Viene sospesa anche l'idratazione e l'alimentazione che nessun testo sacro di medicina ha mai considerato come terapie e quindi non possono essere strumenti di accanimento terapeutico. Senza il respiratore automatico Alfie lotta per cinque giorni poi cede. Sempre gli stessi giudici negano la possibilità di portare il bambino a casa o di trasferirlo in Italia, stato membro della UE, come ancora la Gran Bretagna, dove vige la libera circolazione dei cittadini, con Alfie diventato, nel frattempo, cittadino italiano. Il diniego poggia sul principio dell'interesse primario del bambino di non soffrire più, interesse da salvaguardare al di là della patria potestà genitoriale. Tutta la vicenda così come dettata dalla sentenza dei giudici inglesi, sembra improntata più a "far morire" che a un compassionevole "lasciar morire". Siamo all'accanimento "aterapeutico"! Si è scritto e discettato molto sul destino del piccolo Alfie e ancora una volta la sottile e invisibile linea rossa che separa la vita dalla morte è superata dall'intervento dei giudici. Purtroppo non c'è da essere ottimisti: ormai i casi si ripetono con allarmante frequenza. Credo che vada fatta una profonda riflessione partendo dal rapporto fiduciario tra il medico e il paziente, rapporto che si è progressivamente indebolito  e che tende a divaricarsi ancor di più con interventi autoritativi. Non è superfluo sottolineare il fondamento etico-antropologico della medicina che ne rappresenta la specificità  rispetto ad altre scienze in quanto l'oggetto del suo interesse è l'uomo nella sua interezza, nel suo completo benessere fisico, psichico e sociale prima ancora della sua malattia. Il medico ha, quindi, un ruolo centrale  nella tutela della nostra salute e non può abdicare a favore di terzi, con esiti imprevedibili. Certamente il medico ha le sue responsabilità nel deterioramento del rapporto con il paziente. Deve tornare ad ascoltare con la necessaria attenzione, direi condivisione, il paziente e recuperare in autorevolezza; questi deve affidarsi al medico rinunciando a quello che Michele Serra, in una sua "Amaca", ha etichettato come "sovranismo individuale" come volontà assoluta di autodeterminazione. Ma la responsabilità del medico va, bisogna ammettere, contestualizzata rispetto a una profonda trasformazione della medicina. In duemila e cinquecento anni la Medicina, come scienza e pratica medica, ha subito delle incredibili, anche se spesso lente, trasformazioni, con un'accellerazione netta nell'ultimo secolo. Nonostante gli indubbi successi mai come in questi ultimi decenni la Medicina è oggetto di contestazioni e sempre più tende a essere strumento per la soluzione a problemi economici, etici, sociali. è uno dei paradossi del nostro tempo dominato da un imponente crepuscolo. Il medico, Homo oeconomicus, impegnato nel rendere ottimale l'uso delle risorse, sempre meno disponibili, il medico piegato da scelte politiche o ideologiche fino ad accelerare la fine di una vita morente. Sarò un illuso, un inguaribile romantico ma mi piace rivedere il mio medico nelle pagine di Tolstoi, “La morte di Ivan Il'ic": "I medici sono utili non tanto per il fatto che ci fanno inghiottire ogni possibile sostanza, ma perché essi corrispondano a un bisogno spirituale del paziente o dei suoi parenti: l'eterno bisogno di una speranza,di simpatia e di sollievo di cui un uomo che soffre ha estremo bisogno." In una medicina che recuperi in pieno la sua dimensione ippocratica è evidente che fra il medico, il paziente e il giudice uno è definitivamente di troppo.

Stella inattivaStella inattivaStella inattivaStella inattivaStella inattiva

L’Ordine Prov. dei Medici chirurghi e degli Odontoiatri di Frosinone ha istituito un Osservatorio delle Politiche Sanitarie nel Lazio”, con particolare riguardo alla Provincia di Frosinone, per una migliore tutela della salute della popolazione e del decoro e dignità della professione medica ed odontoiatrica.

            L’Osservatorio svolgerà attività di monitoraggio ed analisi degli interventi legislativi, amministrativi e gestionali in materia di sanità e formulerà proposte al Consiglio dell’Ordine di cui sarà lo strumento tecnico per sostenere iniziative di dibattito all’interno della categoria e con le forze politiche, sindacali e sociali, e di confronto con i competenti livelli istituzionali,  nonché per favorire le opportune sinergie con le altre professioni sanitarie.

            L’Osservatorio avrà un organismo direttivo di cui faranno parte: il Dr. Alberto Volponi, con funzioni di Presidente, il Dr. Giovanni Bonomo, il Dr. Achille Capecce, il Dr. Saverio Celletti, il Dr. Antonio De Santis, il Dr. Luigi Di Cioccio, il Dr. Francesco Ganino, il Dr. Pier Luigi Lucchese, la Dott.ssa Loredana Orsini, il Dr. Roberto Papitto, il Dr. Giulio Rossi ed il Dr. Antonio Tartaglione.

Stella inattivaStella inattivaStella inattivaStella inattivaStella inattiva

L’Ordine Prov. dei Medici chirurghi e degli Odontoiatri di Frosinone ha istituito un Osservatorio delle Politiche Sanitarie nel Lazio”, con particolare riguardo alla Provincia di Frosinone, per una migliore tutela della salute della popolazione e del decoro e dignità della professione medica ed odontoiatrica.

            L’Osservatorio svolgerà attività di monitoraggio ed analisi degli interventi legislativi, amministrativi e gestionali in materia di sanità e formulerà proposte al Consiglio dell’Ordine di cui sarà lo strumento tecnico per sostenere iniziative di dibattito all’interno della categoria e con le forze politiche, sindacali e sociali, e di confronto con i competenti livelli istituzionali,  nonché per favorire le opportune sinergie con le altre professioni sanitarie.

            L’Osservatorio avrà un organismo direttivo di cui faranno parte: il Dr. Alberto Volponi, con funzioni di Presidente, il Dr. Giovanni Bonomo, il Dr. Achille Capecce, il Dr. Saverio Celletti, il Dr. Antonio De Santis, il Dr. Luigi Di Cioccio, il Dr. Francesco Ganino, il Dr. Pier Luigi Lucchese, la Dott.ssa Loredana Orsini, il Dr. Roberto Papitto, il Dr. Giulio Rossi ed il Dr. Antonio Tartaglione.