Sveliamo subito chi sono i "vecchi fantasmi", che non tornano ma addirittura "ritornano", così da togliere subito di mezzo quel pò di suspense che il titolo potrebbe creare. I vecchi fantasmi sono quelli che agitano da sempre ampie porzioni di forze politiche, in maniera trasversale. Albergano sia in quelle aree della politica che non sono riuscite a liberarsi da antistoriche ideologie collettivistiche sia in quelle che, pur definendosi liberal-democratiche (ma mai fidarsi delle autocertificazioni), cedono facilmente a impulsi demagogici e populisti. Non c'è, infatti, nessun nesso fra le deprecabilissime e incivili liste di attesa e la libera professione dei medici all'interno della struttura pubblica, se non per un aspetto certamente esistente che assume contorni etici, ma la cui responsabilità non può ricadere sui medici avendo ben altre origini. Mi riferisco alla possibilità per il cittadino di accedere velocemente alle prestazioni sanitarie attraverso quello che appare come il canale privilegiato della libera professione e quindi a pagamento, prestazioni che altrimenti sarebbero fruibili, aspettando, novello Godot, lo scorrimento della lista di attesa, con tempi scandalosamente lunghi tanto da poter parlare di diritto alla salute negato. è il problema che mi posi quando, giovane medico ospedaliero, pensai di usufruire di una norma, introdotta dal contratto unico appena firmato, eravamo nel giugno del 1980 (!!), che dava la possibilità ai medici a tempo pieno, oggi in esclusività di rapporto, di esercitare la libera professione intramoenia. A distanza di poco tempo si era creato un doppio binario per cui le prestazioni in libera professione, da me esercitata per due ore settimanali, si effettuavano nel giro di qualche giorno, mentre per le stesse, prenotate dal centro unico , ci volevano, proprio per l'elevato numero, anche mesi. Il risultato era un travaso di pazienti verso l'attività a pagamento. La mia coscienza cominciò a interrogarmi, così, non avendo possibilità alcuna di ovviare al problema, decisi di risolverlo alla radice: rinunciai alla libera professione. Non ho, quindi, nessuna difficoltà a confermare che il problema esiste sotto il profilo etico e di giustizia sociale ma, pensare di superarlo impedendo ai medici la libera professione, ignorando le vere cause del fenomeno, vuol dire non avere alcuna intenzione di risolverlo ma soltanto di promuovere campagne di demonizzazione demagogiche dai risultati imprevedibili sulla credibilità e la tenuta del Sistema Sanitario pubblico. La storia della libera professione dei medici dipendenti ha origine con la riforma ospedaliera del 1968-69, la cosiddetta riforma Mariotti, dal nome del parlamentare socialista che la promosse. Con il DPR 27-3-1969, n.130, art.24, si stabiliva un doppio regime per i medici ospedalieri: chi vuole può optare per il rapporto di lavoro a tempo pieno, ovvero quaranta ore settimanali rinunciando a ogni attività libero-professionale extraospedaliera, o per il tempo definito, a trenta ore settimanali con la possibilità "del libero esercizio professionale, anche fuori dall'ospedale". Quindi la libera professione intramoenia era già allora riconosciuta e veniva confermata successivamente alla istituzione del Servizio Sanitario Nazionale, legge 833/78, con il DPR 761/79. Negli anni c'è stato un fiorire di normative nazionali e regionali, direttive, circolari applicative e esplicative, con una costante nelle diverse applicazioni: al nord di Roma si è cercato di organizzare al meglio tale attività per favorire introiti alla casse pubbliche e garantire al cittadino il non trascurabile diritto nella scelta del medico curante, al sud, Roma compresa, è stata vista, dagli amministratori quasi un fastidio da rimettere all'arte di arrangiarsi del singolo medico. In pratica abbiamo una perfetta configurazione dell'Italia di sempre, spaccata in due con Roma a fare da trentottesimo parallelo. In verità per risolvere le liste di attesa, problema vero e inaccettabile in un Paese che vuole definirsi civile, servono interventi organizzativi, sulle strutture, sulle risorse umane, tecniche e strumentali, un controllo severo per la riduzione delle richieste inappropriate ma, per queste, anche un programma vasto di formazione e, perché no?, introducendo meccanismi premiali. Per concludere si può tranquillamente affermare che le liste di attesa non sono influenzabili dalla libera professione dei medici pubblici e ce lo conferma un dato in questo senso definitivo. La libera professione intramuraria riguarda l'8% delle prestazioni ambulatoriali. Essendo 50mila i medici che la svolgono si può dedurre facilmente che ogni medico espleta in media due - dico due - visite settimanali! A fronte di ciò l'Asl incassa il 30% degli emolumenti e lo Stato almeno il 40% con le tasse. Una visita specialistica, quindi, dal costo di100 euro garantisce al medico, che si deve sobbarcare anche dell'onere previdenziale ENPAM, la miseria di 20 euro! quando, ed è pressoché la regola, non ci deve aggiungere le spese di gestione del proprio ambulatorio visto che opera in extramoenia allargata, formula inventata in assenza di disponibilità di locali da parte delle Aziende. Ma allora chi ci guadagna abolendo la libera professione intramuraria? Le liste di attesa non si accorcerebbero di nulla, vista l'eseguità dell'impegno libero professionale del medico; gli incassi per lo Stato, le ASL e le aziende ospedaliere scomparirebbero mentre alla fine i medici opteranno per rinunciare all'esclusività di rapporto ed essere liberi di svolgere la propria attività fuori dalla struttura, senza asfissianti vincoli burocratici, senza controlli sugli orari, sulle tariffe, con piena autonomia nei confronti degli obblighi fiscali e previdenziali. E l'esodo è già cominciato. Che affare! Ci viene da pensare alla famosa Maria...che non è quella di West side story. (Pubblicato su La Pelle, numero 7 - Luglio/Agosto)