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del dott. Alberto Volponi

“Il medico, il paziente e il giudice"... non è una commedia di Pirandello e il giudice non è di Berlino, quello evocato dal mugnaio Arnold di Potsdam, nella Prussia di Federico il Grande. Sono i personaggi di recente, drammatica, attualità in scena a Liverpool con i medici dell'ospedale pediatrico che staccano la spina al piccolo Alfie contro l'ostinata, comprensibile, volontà dei genitori, su decisione dei giudici per mettere fine a quello che veniva classificato come accanimento terapeutico, nell'interesse (!!) supremo del piccolo bambino. Viene sospesa anche l'idratazione e l'alimentazione che nessun testo sacro di medicina ha mai considerato come terapie e quindi non possono essere strumenti di accanimento terapeutico. Senza il respiratore automatico Alfie lotta per cinque giorni poi cede. Sempre gli stessi giudici negano la possibilità di portare il bambino a casa o di trasferirlo in Italia, stato membro della UE, come ancora la Gran Bretagna, dove vige la libera circolazione dei cittadini, con Alfie diventato, nel frattempo, cittadino italiano. Il diniego poggia sul principio dell'interesse primario del bambino di non soffrire più, interesse da salvaguardare al di là della patria potestà genitoriale. Tutta la vicenda così come dettata dalla sentenza dei giudici inglesi, sembra improntata più a "far morire" che a un compassionevole "lasciar morire". Siamo all'accanimento "aterapeutico"! Si è scritto e discettato molto sul destino del piccolo Alfie e ancora una volta la sottile e invisibile linea rossa che separa la vita dalla morte è superata dall'intervento dei giudici. Purtroppo non c'è da essere ottimisti: ormai i casi si ripetono con allarmante frequenza. Credo che vada fatta una profonda riflessione partendo dal rapporto fiduciario tra il medico e il paziente, rapporto che si è progressivamente indebolito  e che tende a divaricarsi ancor di più con interventi autoritativi. Non è superfluo sottolineare il fondamento etico-antropologico della medicina che ne rappresenta la specificità  rispetto ad altre scienze in quanto l'oggetto del suo interesse è l'uomo nella sua interezza, nel suo completo benessere fisico, psichico e sociale prima ancora della sua malattia. Il medico ha, quindi, un ruolo centrale  nella tutela della nostra salute e non può abdicare a favore di terzi, con esiti imprevedibili. Certamente il medico ha le sue responsabilità nel deterioramento del rapporto con il paziente. Deve tornare ad ascoltare con la necessaria attenzione, direi condivisione, il paziente e recuperare in autorevolezza; questi deve affidarsi al medico rinunciando a quello che Michele Serra, in una sua "Amaca", ha etichettato come "sovranismo individuale" come volontà assoluta di autodeterminazione. Ma la responsabilità del medico va, bisogna ammettere, contestualizzata rispetto a una profonda trasformazione della medicina. In duemila e cinquecento anni la Medicina, come scienza e pratica medica, ha subito delle incredibili, anche se spesso lente, trasformazioni, con un'accellerazione netta nell'ultimo secolo. Nonostante gli indubbi successi mai come in questi ultimi decenni la Medicina è oggetto di contestazioni e sempre più tende a essere strumento per la soluzione a problemi economici, etici, sociali. è uno dei paradossi del nostro tempo dominato da un imponente crepuscolo. Il medico, Homo oeconomicus, impegnato nel rendere ottimale l'uso delle risorse, sempre meno disponibili, il medico piegato da scelte politiche o ideologiche fino ad accelerare la fine di una vita morente. Sarò un illuso, un inguaribile romantico ma mi piace rivedere il mio medico nelle pagine di Tolstoi, “La morte di Ivan Il'ic": "I medici sono utili non tanto per il fatto che ci fanno inghiottire ogni possibile sostanza, ma perché essi corrispondano a un bisogno spirituale del paziente o dei suoi parenti: l'eterno bisogno di una speranza,di simpatia e di sollievo di cui un uomo che soffre ha estremo bisogno." In una medicina che recuperi in pieno la sua dimensione ippocratica è evidente che fra il medico, il paziente e il giudice uno è definitivamente di troppo.